Nel mondo di oggi siamo educati a non discriminare la diversità, ad accettare
il diverso. Il che è cosa buona e giusta. Tuttavia esiste una grande differenza
tra accettare le varie forme di diversità per convivere con esse rispettandole,
ed educarci a guardare alle diversità in modo tale da farcele sembrare normali.
Nel primo caso, infatti, stiamo prendendo atto che la diversità esiste, che è una cosa presente e che fa sentire i suoi effetti su di noi, ma che questi effetti non
hanno nulla di male, al punto che è possibile convivere con l’altro e anzi, si
può perfino imparare dall’altro, poiché esso è portatore di qualcosa che noi
non abbiamo e che potrebbe condurre a una crescita reciproca o almeno
unilaterale. In questo caso, quindi, si viene educati a guardare al diverso
senza provare alcuna forma di disagio perché ci si convince che essere diversi
dagli altri non implica nulla di negativo. È un po’ come quando gli uomini
andavano in giro nudi perché non si vergognavano della loro nudità: in quel
caso non sorge affatto il problema di
nascondere o correggere qualcosa, poiché non c’è nulla che crei imbarazzo.
Nel secondo caso, invece, la diversità provoca in chi la percepisce una
forma di disagio. Non è per forza un disagio di tipo ostile, che si manifesta necessariamente
in atteggiamenti di violenza ai danni del diverso, basta che sia una semplice
sensazione di straniamento, di disorientamento, di fastidio anche, basta
percepire quella sensazione di “non sentirsi nella normalità”. In questo modo
di vedere la diversità si tenta di eliminare il disagio che si prova nei
confronti del diverso, un disagio che secondo le regole sociali non è bene
esprimere, almeno non esplicitamente davanti agli altri perché cozza con un
principio (“il diverso va accettato”) di cui non si è capito il senso. Quando
si fa così, quando si reprime il disagio, non si sta accettando la diversità,
bensì si sta solo indottrinando le persone a “chiudere un occhio” sulla
diversità, affinché essi la guardino in modo tale da considerarla “normale”
(perfino autoconvincendosi che lo sia), perché altrimenti ci si sente fuori
posto, spaesati. O, detto in altri termini, si abitua la gente a negare l’esistenza delle differenze di
cui il diverso è portatore, a esorcizzare
la percezione della diversità perché in fondo non ci si sa convivere. Con
questo modello educativo le differenze non devono essere pensate come tali,
altrimenti si avverte una stonatura con il proprio mondo, una stonatura che
mette in crisi. Ma quelle differenze ci sono, altrimenti per quale ragione il
diverso sarebbe diverso? Se sentiamo il bisogno di far assomigliare il diverso
a noi per non sentire quel disagio, se dobbiamo smussare gli spigoli della
diversità, e la deformiamo quindi nell’atto di autorappresentarcela, in modo da farla somigliare alla “nostra” normalità, allora non
sappiamo accettare la diversità, ma è segno che ne abbiamo paura e, quindi, che
la stiamo negando. Parliamo di un modo molto più ipocrita di interagire col
diverso, che spesso sfocia nel falso buonismo o nella presunzione.
Credo che non sia una differenza da poco, soprattutto se consideriamo le
conseguenze che essa può avere nella formulazione di modelli educativi. Sono
due modi di vedere e di pensare la
diversità che non devono essere confusi. Tre esempi possono forse chiarire
meglio le implicazioni di questa differenza: li ho messi in chiave
cinico-comica, per sdrammatizzare la gravità di certi modi di pensare... e anche
perché oggi mi va di fare il simpatico.
Esempio 1
- «Io amo così, in questo modo, quindi
il mio è il solo modo corretto di amare: se tu mi ami in modo diverso e non fai
quello che mi aspetto da te, allora per me significa che non sai amarmi.»
- «Ti hanno mai detto che l’uomo ha
amato in mille modi diversi nella storia, secondo principi diversi e modalità
diverse, e che ancora oggi nelle diverse culture l’amore implica differenti
codici di comportamento e si basa su criteri molto dissimili? E ti hanno mai
detto che quindi non esiste un paradigma universale di amore e che perciò non
puoi atteggiarti a fare la Treccani dell’amore? NO? E ALLORA CHIUDI QUEL CESSO
DI BOCCA, sennò ti faccio amare dei miei dobermann!»
Esempio 2
- «Oh, i bambini handicappati... Essi vanno
tutelati perché sono come noi, non sono diversi!»
- «Eh, no: i bambini handicappati sono
handicappati, quindi sono molto
diversi da noi. Hanno diversi tipi di problemi, diversi impedimenti e diversi
bisogni. La diversità c’è ed è enorme (se non mi credi te la ficco su per il
culo, così senti quanto è enorme), ma questa diversità non ha motivo di essere
discriminata, né sul piano umano, né sul piano morale, né sul piano legale, ed
è per questo che abbiamo il dovere di tutelarli: la loro diversità non è tale
da autorizzarci a fare discriminazioni, anzi, proprio nel dire che essi vanno
tutelati in modo particolare “perché sono categorie più svantaggiate” stiamo
appunto mettendo in evidenza questa diversità.»
Esempio 3
- «Io la penso come Voltaire: darei la
vita perché anche le opinioni più inaccettabili possano essere manifestate,
perché per me ogni forma di pensiero è degna di essere espressa.»
- «Io invece credo che finché esistano
opinioni come quelle dei nazisti o dei leghisti, allora ci sono forme di
pensiero tali che mi sento obiettivamente
autorizzato a pisciarci sopra, perché esse implicano conseguenze obiettivamente dannose per il prossimo.
Quindi “ogni opinione è degna di essere espressa” un paio di palle! Se facciamo
parlare tutti è solo perché conoscendo le cazzate altrui possiamo imparare cosa
non debba essere fatto o pensato, e
non perché anche frasi come “gli extracomunitari sono parassiti” o “gli ebrei
puzzano e vanno bruciati nei forni” siano frasi in sé degne di essere pronunciate o ascoltate.»
Paradossalmente, quindi, si accetta davvero il diverso quando non sorge
affatto il problema di “accettare il diverso”. Come disse Terenzio, Homo sum: nihil humani a me alienum puto:
«Io sono un uomo: non considero diverso da me nulla
di ciò che è umano».
Post scriptum
Questa riflessione sull’accettazione
della diversità ha carattere generale e non dev’essere confusa con questioni
più particolari legate piuttosto all’integrazione
del diverso in contesti nuovi. È innegabile infatti che esistano realtà la cui
diversità è tale da non consentire una integrazione spontanea o almeno agevole,
perché sussistono problemi di carattere pratico. Basti pensare all’integrazione
degli extracomunitari islamici nei paesi occidentali: anche lì c’è un caso di
diversità, ma la gente ha difficoltà ad attuare un’integrazione perché il
problema del terrorismo internazionale ha sollevato questioni pratiche che
disturbano il processo che dovrebbe secondo me avvenire: le stragi, gli
attentati, i kamikaze, le truppe mandate in Medio Oriente sono tutte cose che
ostacolano il processo sopra descritto perché hanno creato diffidenza e paura
nella gente. Ma questo non mette in discussione né contraddice il criterio
generale, che mi pare quello eticamente più sensato.
Pongo l’accento su questa differenza perché l’integrazione del diverso è
necessariamente subordinata all’accettazione del diverso, e le due cose sono quindi due
momenti separati: non accetti accanto a te qualcuno che consideri estraneo alla
tua realtà.
D'accordo in toto con quanto hai scritto. Ti ricordi che una volta ne discutemmo anche insieme, parlando degli handicappati? La nostra società è impregnata di ipocrisia e controsensi. A volte mi sembra di vivere in un paradosso -.-
RispondiEliminaAh, sì, sì, mi ricordo! Fu a casa tua, vero?
RispondiEliminaYes!
RispondiEliminaPerfetto
RispondiEliminaNon è avendo paura di dire : bianco o nero che ci si accetta per ciò che si è.
Non è relegando la diversità nellinconscio che ci si accetta veramente , anzi.