venerdì 26 aprile 2013

Tutte le illegittimità del Napolitano bis: perché Napolitano non andava rieletto


     La recente rielezione a Presidente della Repubblica di Giorgio Napolitano ha suscitato grande scalpore e indignazione a seguito della nascita di una questione che mette in dubbio la legittimità di questo evento. Ci si è chiesti se sia possibile o, almeno, giustificabile che un Presidente della Repubblica venga eletto per due mandati consecutivi. Esaminiamo tutti i possibili punti e cerchiamo di capire cosa è successo qualche giorno fa.

     Premettiamo col dire che la fonte principale con cui si possa stabilire la legittimità o non legittimità della rielezione è la Carta costituzionale. L’articolo 83 della Costituzione dice che il Presidente della Repubblica è eletto dal Parlamento e dai rappresentanti dei Consigli regionali: si tratta quindi di un’elezione dall’alto, perché non sono i cittadini a scegliere il rappresentante. L’articolo 84 invece afferma i limiti dell’elezione (e quindi anche della rielezione) del Presidente della Repubblica. Esso afferma testualmente:

     Può essere eletto Presidente della Repubblica ogni cittadino che abbia compiuto cinquanta anni di età e goda dei diritti civili e politici.
     L’ufficio di Presidente della Repubblica è incompatibile con qualsiasi altra carica.
     L’assegno e la dotazione del Presidente sono determinati per legge.

     Nulla, quindi, vieta a una stessa persona di essere rieletto, almeno sulla carta. Tuttavia ci sono delle obiezioni da sollevare.

La rielezione di Napolitano viola un principio democratico basilare
     In primis, nella storia della nostra Repubblica esiste una consolidata tradizione che ha sempre mirato a evitare che un Presidente della Repubblica uscente riassumesse il mandato per una seconda volta e, come si sa, in un paese non si campa solo di regole scritte, ma anche di tradizioni e di usi: del resto, l’uso fa la regola, dice il proverbio. I motivi per cui si è sempre evitato di rieleggere lo stesso Presidente trovano fondamento e giustificazione in diverse ragioni:
  1. Prima di tutto, evitare una seconda rielezione scongiura il rischio di un’eccessiva personalizzazione del potere politico: se un Presidente fosse in malafede e avesse interesse a rimanere Presidente per favorire se stesso o altri, il ricambio di mandato ridurrebbe il rischio che possano essere fatti favoritismi non consentiti dalla legge.
  2. Inoltre c’è da dire che il mandato del Presidente della Repubblica dura in Italia ben sette anni (il mandato del governo è di cinque), quindi si tratta di un periodo lungo, che diventa ancora più lungo (quattordici anni!) se avviene una rielezione. Restare troppo tempo sotto la rappresentanza di una stessa persona è una cosa banalmente antidemocratica ed è per questo che la Carta costituzionale non specifica questo limite: esso è un assioma scontato e funge da presupposto della stessa forma democratica.
  3. Ancora, il Presidente della Repubblica, in quanto eletto dal Parlamento e non dai cittadini, non deve rispondere a questi, in quanto non ha fatto alcuna campagna elettorale, quindi alcuna promessa da mantenere e questo aumenterebbe la sua libertà di azione nel caso fosse male intenzionato.
  4. Il Presidente della Repubblica in Italia non risponde davanti alla legge dei reati commessi nell’esercizio delle sue funzioni, a meno che non si tratti di alto tradimento o attentato alla Costituzione: così dice l’articolo 90 della Carta costituzionale. E se nelle due categorie di reato elencate non rientrassero altre forme di reato o comunque di condotte illecite che il Presidente, nel corso di quattordici anni, potrebbe tenere, allora ci ritroveremmo ad avere una sorta di monarca quasi completamente assoluto che può fare quel che gli pare senza che nessuno, né cittadini né governo né magistratura, possano fare nulla.

     Per tutta questa serie di motivi in Italia si è sempre evitata la rielezione a Presidente della Repubblica di una stessa persona. Qualcuno potrebbe dire «Ma questa è solo un’usanza e le usanze possono essere cambiate, specie se non vanno contro la legge». Ebbene, allora occorre spiegare come mai lo stesso Napolitano abbia riempito la testa a tutti di frasi in cui dichiarava esplicitamente di essere contro la rielezione. Basta dare un’occhiata rapida alle sue dichiarazioni degli ultimi due mesi:

     «L’ho già detto tante volte. Non credo che sarebbe onesto dire “State tranquilli, io posso fare il Capo dello Stato fino a 95 anni”, sia perché sono convinto che i padri costituenti concepirono il ruolo del Presidente della Repubblica sulla misura dei sette anni (infatti non è un caso che nessun Presidente della Repubblica abbia fatto un secondo mandato) e sia perché ci sono fattori di età e limitazioni dal punto di vista funzionale crescenti.» (1 marzo 2013)
     «Alla vigilia della conclusione del mio mandato voglio sottolineare come la conclusione corrisponda pienamente alla concezione che i padri costituenti ebbero della figura del Presidente della Repubblica. Il già lungo settennato al Quirinale corrisponde bene alla continuità delle nostre istituzioni ed anche alla legge del succedersi delle generazioni.» (7 marzo 2013)
     «A 88 anni gli straordinari non sono ammessi. Sto per concludere il mio mandato, questo è probabilmente l’ultimo atto pubblico che compio.» (24 marzo 2013)
     «La mia rielezione sarebbe una non soluzione perché ora ci vuole il coraggio di fare delle scelte, di guardare avanti, sarebbe sbagliato fare marcia indietro, sarebbe ai limiti del ridicolo. Tutto quello che avevo da dare l’ho dato. Niente soluzioni pasticciate e all’italiana.» (14 aprile 2013)
Berlusconi riceve complimenti dai suoi compagni di partito 
subito dopo la rielezione di Giorgio Napolitano.
     Giorgio Napolitano, quindi, concorda con lo spirito dei padri costituenti e con la tradizione politica del nostro paese, proprio in virtù di queste motivazioni: secondo lui non è un bene che uno stesso uomo faccia per più di una volta il Presidente della Repubblica. E tuttavia ha accettato la proposta che gli è stata fatta dalle forze politiche che in questi anni hanno contribuito a mutilare la democrazia istituzionale del nostro paese.
     Ecco quindi che Napolitano viene rieletto: 738 voti alla sesta votazione, contro i 217 del favorito Rodotà, giurista insigne, immacolato e irricattabile. Ecco che dalla piazza si levano cori di protesta: la gente grida «Vergogna!», si accusa il PD di essersi venduto a Berlusconi, Grillo grida al golpe. Gasparri, poi, nella sua somma capacità di sintesi, non manca di manifestare sadicamente la sua soddisfazione al popolo per la mancata elezione di Rodotà mostrando il dito indice. In aula boati di soddisfazione tra coloro che sanno: si canta fratelli d’Italia, Berlusconi prende applausi e stringe mani, si festeggia come all’osteria. Il delitto è compiuto.

Il rischio del presidenzialismo
     Napolitano fa poi il suo discorso di insediamento. Parla per diversi minuti, durante i quali alterna cazziatoni (o presunti tali) e lacrime di commozione (speriamo che non fossero come quelle della Fornero). Mette in riga i “membri” del Parlamento, ricorda le mancate riforme, lancia accuse più o meno velate, finge di indignarsi. E soprattutto, detta condizioni…
     Ora chiediamoci una cosa. Perché Napolitano ha accettato di ritornare nonostante le sue esplicite dichiarazioni? Ciò che gli hanno offerto era troppo allettante? O davvero è un uomo con un forte senso dello stato? L’ipotesi, che il buon senso perfino di un cretino suggerisce, è che Napolitano è la carta che PDL e PD hanno per legittimare il loro inciucio. Ci troviamo infatti di fronte a una situazione molto diversa che in passato in cui la parola d’ordine è “urgenza”… e l’urgenza è sempre un’ottima scusa per giustificare procedure fuori dall’ordinario. Ed è qui che sta il rischio.
     Napolitano ha già due volte goduto di superpoteri perché ha di fatto agito con strumenti che si potevano evitare e che non avevano tutta questa giustificazione. Non a caso qualcuno oggi parla dell’avvicinamento dell’Italia a una forma di repubblica non più parlamentare ma presidenziale: la prima volta Napolitano esercitò poteri eccezionali quando Berlusconi fu costretto a dimettersi, invece di andare alle votazioni anticipate, ci regalò il governo Monti, sul cui operato si può anche tacere. La seconda volta con l’istituzione dei cosiddetti dieci saggi, anche queste personalità tutt’altro che super partes che avrebbero stilato dei punti fondamentali da attuare con urgenza. Ancora una volta, quindi niente votazioni ripetute, il popolo non ha voce, la sovranità viene espropriata. Il superpresidente ha parlato.
     Massimo Cacciari sottolinea come in Italia il rischio del presidenzialismo sia veramente grande e vicino, qualora i partiti non riescano a smettere di «delegittimarsi a vicenda»: se non esisterà in futuro una coesione politica da parte dei partiti spetterà per forza di cose al Presidente della Repubblica garantire questa unità istituzionale che i partiti avranno messo in crisi.

Le condizioni del Napolitano bis
Manifestanti in piazza che inneggiano all'elezione di Stefano
Rodotà come Presidente della Repubblica.
     Ci sarebbe un terzo abuso: istituendo il governo Letta, governo delle larghe intese, Napolitano ha delegittimato di nuovo la decisione presa dai cittadini alle ultime elezioni. Nessuno ha scelto un Letta come premier! E invece Napolitano è intervenuto ancora una volta in maniera impropria ignorando la volontà popolare.
     Ma parlavamo prima delle condizioni che Napolitano avrebbe imposto al suo mandato. A quali condizioni quest’uomo ha accettato di succedere a se stesso come Presidente della Repubblica? Dovete operare così, altrimenti me ne vado! Altrimenti fi faccio fare una figura di merda davanti all’Europa! Altrimenti mando i cittadini al voto (come se il voto dovesse essere un’arma di ricatto!). Ebbene, la legge non consente al Presidente di imporre al governo un certo modo di agire come se questa fosse una condizione al suo operato: non è infatti previsto che il Presidente della Repubblica intervenga nell’azione del governo. Si tratta di un’ingerenza non consentita dalla Costituzione.
Giorgio Napolitano nel suo discorso di insediamento davanti
al 
Parlamento il giorno successivo alla sua rielezione.
     Napolitano non può nemmeno giustificare la sua disponibilità a fare il Capo dello Stato con la scusa che questo sia solo in via temporanea, qualora non volesse arrivare fino a 95 anni (età già di per sé ridicola per un rappresentante dello Stato): la legge non consente nemmeno mandati a tempo.
     Ancora una volta quindi potevamo riandare subito al voto e ancora una volta questo non è stato fatto. Qualcuno obietterà che con il porcellum sarebbe stato un disastro… Allora si poteva votare Rodotà, che non ha i conflitti di cui soffre Napolitano, e invece gli esponenti del prossimo governo delle larghe intese si sono accordati per avere l’appoggio di una persona che in passato gliene ha fatte passare tante e che, proprio in virtù di questo passato, gliene farà passare ancora. E allora non pianga Napolitano e si risparmi le minacce al corpo politico. Inutile invocare a gran voce le riforme, inutile sperare. La sua stessa presenza lì è un segno della volontà che questo paese ha di non cambiare.
     Inoltre non so voi, ma per me il fatto stesso che Berluisconi sia contento di questa cosa funge di per sé da segnale di pericolo.
     Già vedo Alfano alla Giustizia, pronto a bloccare i processi a Berlusconi e a riformare la Costituzione in modo che l’Italia possa essere pronta per farsi governare dal PDL, che è in ricrescita dei sondaggi, soprattutto dopo il ridicolo, imperdonabile e idiotissimo autoaffondamento del PD, il quale (ricordiamolo!) in campagna elettorale aveva promesso che mai e poi mai si sarebbe alleato con Berlusconi. E invece eccolo là: gli scanni sono stati spartiti, i piani per i conflitti di interessi sono pronti. C’è ancora qualcosa da spolpare in questo paese. Buon appetito!

giovedì 25 aprile 2013

25.04.2013: 68esimo anniversario della liberazione dell’Italia


Noi siamo un Paese senza memoria. Il che equivale a dire senza storia. L’Italia rimuove il suo passato prossimo, lo perde nell’oblio dell’etere televisivo, ne tiene solo i ricordi, i frammenti che potrebbero farle comodo per la sue contorsioni, per le sue conversioni. Ma l’Italia è un paese circolare, gattopardesco, in cui tutto cambia per restare com’è, in cui tutto scorre per non passare davvero. Se l’Italia avesse cura della sua storia, della sua memoria, si accorgerebbe che i regimi non nascono dal nulla, sono il portato di veleni antichi, di metastasi invincibili. Imparerebbe che questo Paese è speciale nel vivere alla grande ma con le pezze al culo, che i suoi vizi sono ciclici, si ripetono incarnati da uomini diversi con lo stesso cinismo, la medesima indifferenza per l’etica, con l’identica allergia alla coerenza, a una tensione morale.

Pier Paolo Pasolini, Scritti corsari, 1975



25 aprile 1945

Anniversario della liberazione dell’Italia dal nazifascismo

martedì 23 aprile 2013

Napolitano rieletto Presidente della Repubblica: il discorso di insediamento


     Ieri, 22 aprile 2013, il neorieletto Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, prestava giuramento per il rinnovo del suo incarico. Poco dopo faceva il suo discorso di insediamento, che pubblico qui, senza alcun particolare commento sul contenuto né sulle questioni legate a questo evento, che rimando ad altri post.


lunedì 22 aprile 2013

Funeral party


di Marco Travaglio

     La scena supera la più allucinata fantasia dei maestri dell’horror, roba da far impallidire Stephen King e Dario Argento. Il cadavere putrefatto e maleodorante di un sistema marcio e schiacciato dal peso di cricche e mafie, tangenti e ricatti, si barrica nel sarcofago inchiodando il coperchio dall’interno per non far uscire la puzza e i vermi. Tenta la mission impossible di ricomporre la decomposizione. E sceglie un becchino a sua immagine e somiglianza: un presidente coetaneo di Mugabe, voltagabbana (fino all’altroieri giurava che mai si sarebbe ricandidato) e potenzialmente ricattabile (le telefonate con Mancino, anche quando verranno distrutte, saranno comunque note a poliziotti, magistrati, tecnici e soprattutto a Mancino), che da sempre lavora per l’inciucio (prima con Craxi, poi con B.) e finalmente l’ha ottenuto.
     E con una votazione dal sapore vagamente mafioso (ogni scheda rigorosamente segnata e firmata, nella miglior tradizione corleonese). Pur di non mandare al Quirinale un uomo onesto, progressista, libero, non ricattabile e non controllabile, il Pd che giurava agli elettori “mai al governo con B.” va al governo con B., ufficializzando l’inciucio che dura sottobanco da vent’anni. Per non darla vinta ai 5Stelle, s’infila nelle fauci del Caimano e si condanna all’estinzione, regalando proprio a Grillo l’esclusiva del cambiamento e la bandiera di quel che resta della sinistra (con tanti saluti ai “rottamatori” più decrepiti di chi volevano rottamare). La cosa potrebbe non essere un dramma, se non fosse che trasforma la Repubblica italiana in una monarchia assoluta e la consegna a un governo di mummie, con i dieci saggi promossi ministri e il loro programma Ancien Régime a completare la Restaurazione. Viene in mente il ritorno dei codini nel 1815, dopo il Congresso di Vienna, con la differenza che qui non c’è stata rivoluzione né s’è visto un Napoleone.
     Ma il richiamo storico più appropriato è Weimar, con i vecchi partiti di centrosinistra che nel 1932 riconfermano il vecchio e rincoglionito generale von Hindenburg, 85 anni, spianando la strada a Hitler. Qui per fortuna non c’è alcun Hitler all’orizzonte. Però c’è B., che fino all’altroieri tremava dinanzi al Parlamento più antiberlusconiano del ventennio e ora si prepara a stravincere le prossime elezioni e salire al Colle appena Re Giorgio abdicherà.
A meno che non resti abbarbicato al trono fino a 95 anni, imbalsamato e impagliato come certi autocrati, dagli iberici Salazar e Franco ai sovietici Andropov e Cernenko, tenuti in vita artificialmente con raffinate tecniche di ibernazione e ostesi in pubblico con marchingegni alle braccia per simulare un qualche stato motorio. Ieri, dall’unione dei necrofili di sinistra e del pedofilo di destra, è nato un regime ancor più plumbeo di quello berlusconiano e più blindato di quello montiano, perché è l’ultima trincea della banda larga che comanda e saccheggia l’Italia da decenni, prima della Caporetto finale. Prepariamoci al pensiero unico di stampa e tv, alla canzone mononota a reti ed edicole unificate. Ne abbiamo avuto i primi assaggi nelle dirette tv, con la staffetta dei signorini grandi firme che magnificavano l’estremo sacrificio dell’Uomo della Provvidenza e del Salvatore della Patria, con lavoretti di bocca e di lingua sulle prostate inerti e gli scroti inanimati delle solite cariatidi. Le famose pompe funebri.
 
     Ps. Da oggi Grillo ha una responsabilità infinitamente superiore a quella di ieri. Non è più solo il leader del suo movimento, ma il punto di riferimento di quei milioni di cittadini (di centrosinistra, ma non solo) che non si rassegnano al ritorno dei morti morenti e rappresentano un quarto del Parlamento. A costo di far violenza a se stesso, dovrà parlare a tutti con un linguaggio nuovo. Senza rinunciare a chiamare le cose col loro nome. Ma senza prestare il fianco alle provocazioni di un regime fondato sulla disperazione, quindi capace di tutto.

Da Il Fatto Quotidiano, 21 Aprile 2013

sabato 20 aprile 2013

Chi ha paura di Stefano Rodotà?


Stefano Rodotà
     Nel paese dell’immobilismo, del non-governo, dello stallo economico ci si blocca anche sulle votazioni del Presidente della Repubblica. Proprio di recente l’ex Capo dello Stato Giorgio Napolitano si è ritrovato a interpretare un ruolo che è andato ben oltre ciò che la figura del Presidente della Repubblica ha mai rappresentato nel nostro paese. Il Capo dello Stato si è visto costretto a intervenire molte volte e non solo sotto forma di incitamenti, bensì ad operare nella prassi politica. Qualcuno ha parlato perfino dell’Italia come di una repubblica semipresidenziale.
     Nel caos delle votazioni e dei candidati (da Marini – voluto da PD e PDL – a Prodi a D’Alema) un nome su tutti spicca per la limpida fama di uomo dotato di senso dello stato e grande cultura: il giurista, politico Stefano Rodotà. Sono in molti a volerlo e gli italiani devono conoscerlo e, nel conoscerlo, riconoscere in lui le indiscutibili doti di persona più adatta a rappresentare l’unità nazionale per cominciare a operare per la formazione di un governo decente che liberi il nostro paese dalla morsa cannibalesca della vecchia casta, insopportabile razza di delinquenti e collusi con la mafia, un ancien régime che si ostina a farci «in basso batter l’ali», per citare il Poeta.
     L’indipendenza politica di Rodotà, il suo passato dignitosissimo e pulito, nonché le sue idee giuste non possono essere ignorate durante queste “quirinarie”. Ecco perché Dario Fo, assieme ad altri esponenti politici e culturali, ha lanciato un appello affinché la classe dirigente non ignori questa indiscutibile possibilità di salvezza. Segue il testo dell’appello.
  
Chiediamo ai deputati e alla direzione del Partito Democratico di non mettere una lastra tombale sulla speranza di rinnovamento di due terzi degli elettori italiani, portando alla Presidenza della Repubblica una figura della vecchia casta: qualsiasi sia questa figura. Chiediamo di rompere ogni indugio e di votare fin dai primi scrutini Stefano Rodotà.


Beppe Grillo ha annunciato che sarà lui il candidato del Movimento 5 Stelle, e allo stesso modo si è pronunciato Sel, organicamente legato al Pd e il cui parere non può in alcun modo esser trascurato dai Democratici. Stefano Rodotà è per la maggior parte degli italiani, e certamente per il vostro elettorato, un punto di riferimento ideale. Ha come bussola costante la Costituzione italiana e la Carta dei diritti europei, ha sempre avversato i compromessi con la corruzione, è uno dei più strenui difensori della libertà dell'informazione, compresa la libertà conquistata ed esercitata in rete.


È un segno altamente positivo che il Movimento 5 Stelle l'abbia scelto come proprio candidato, ma Stefano Rodotà non è una sua invenzione. Il suo profilo è improntato a massima indipendenza, e le sue radici sono anche nella storia migliore della sinistra italiana. Non abbiate paura, votatelo con convinzione e fin da subito: sarete molto più credibili e forti se non tergiverserete, presi da timori di varia natura, e non accetterete in nessun caso candidati che dovessero nascere da un accordo con Berlusconi.


Ve lo chiediamo da cittadini, convinti che non sia ancora troppo tardi: non riconsegnate l'Italia al tragico ventennio dal quale cerchiamo faticosamente di uscire. Abbiate il coraggio di cominciare a costruire un futuro diverso. Il momento è ora.

Dario Fo
Carlo Petrini
Remo Bodei
Sandra Bonsanti
Roberta De Monticelli
Paolo Flores d’Arcais
Tomaso Montanari
Antonio Padoa Schioppa
Michele Serra
Salvatore Settis
Barbara Spinelli


(18 aprile 2013)

giovedì 18 aprile 2013

Scripta manent, n. 17 – Homo eleutherophobicus

     Mi torna spesso in mente in questi mesi il tema della libertà perduta. Noi, uomini contemporanei che viviamo nell’epoca delle dittature subdole mascherate da democrazie immacolate, non solo non sappiamo dar valore alla libertà, me nemmeno ci studiamo più di perseguirla e ricrearla. Cresciamo desensibilizzati a questo nobilissimo ideale, dal quale deriva ogni forma di bene. Il tema però era caro (e molto più sentito) qualche secolo fa e molti sono gli autori che ne hanno scritto. Propongo qui dei passi del francese La Boétie, che nel suo Discorso sulla servitù volontaria, un agilissimo e piacevole scritto del XVII secolo, rifletteva su questo tema mettendo in luce l’assurdità della schiavitù voluta e scelta dagli uomini. Chiamatela eleuterofobia: la paura della libertà.

     Ma come! Se per ottenere la libertà basta desiderarla, se non vi è bisogno di null’altro che una semplice volontà, vi sarà una sola nazione al mondo che reputi di pagarla troppo cara acquistandola con un semplice desiderio? E chi rimpiangerebbe il proprio desiderio di riottenere un bene che si dovrebbe riconquistare a prezzo del proprio sangue e la cui perdita rende amara la vita a ogni uomo e gradita la morte? Certo, come la fiamma di una piccola favilla divampa e va rafforzandosi sempre di più, e più trova legna da ardere, più ne divora, ma si consuma e finisce per estinguersi da sé non appena si cessi di alimentarla, allo stesso modo, più i tiranni saccheggiano più esigono; più devastano e distruggono, più si dà loro, più li si serve. Questo aumenta la loro forza e li rende sempre più pronti a tutto, annientare e distruggere. Ma se non si dà loro più niente, se più non si obbedisce loro, senza bisogno che li si combatta e colpisca, restano nudi e sconfitti e non sono più niente, come il ramo che non avendo più linfa e alimento alla radice, inaridisce e muore.
     Per conquistare il bene desiderato, l’uomo coraggioso non teme nessun pericolo, l’uomo saggio non si scoraggia dinanzi a nessuna fatica. Solo i vigliacchi e i rammolliti non sanno né sopportare il dolore, né riconquistare un bene che si limitano a desiderare. L’energia per pretenderlo viene annullata dalla loro stessa viltà, non resta loro che il naturale desiderio di possederlo. Questo desiderio, questa volontà comune ai saggi e agli stolti, ai coraggiosi e ai codardi, fa desiderare tutte le cose il cui possesso li renderebbe felici e soddisfatti. Vi è una sola cosa che – non so perché – gli uomini non hanno la forza di desiderare: la libertà, un bene tanto grande e dolce! Non appena la si perde, sopraggiungono tutti i mali possibili e senza di essa, tutti gli altri beni, corrotti dalla servitù, perdono gusto e sapore. Sembra che gli uomini tengano in poco conto la libertà, infatti, se la desiderassero, l’otterrebbero; si direbbe quasi che rifiutino di fare questa preziosa conquista perché è troppo facile.
[…]
     La natura dell’uomo è di essere libero di voler esserlo, ma prende facilmente un’altra piega quando è l’educazione a imprimergliela.
     Diremo dunque che tutte le cose diventano naturali per l’uomo quando vi si abitua, rimane fedele alla natura solo chi desidera ciò che è semplice e non adulterat. Pertanto la prima causa della servitù volontaria è l’abitudine. È quel che succede d’altronde ai più indomiti cavalli che in un primo tempo mordono il freno e poi se ne trastullano, che prima scalpitano sotto la sella per poi presentarsi spontaneamente ai finimenti e pavoneggiarsi tutti fieri della loro bardatura.
     Dicono di essere sempre stati assoggettati, che così hanno vissuto i loro padri. Ritengono di dovere subire il male, se ne convincono a forza di esempi e loro stessi consolidano, contribuendo alla sua durata, il potere di chi li tiranneggia.

     Ma gli anni non danno mai il diritto di agire male, anzi aggravano l’ingiuria. Vi sono pur sempre alcuni, nati meglio degli altri, che sono insofferenti del peso del giogo e non possono fare a meno di scrollarlo, che non si abituano mai all’asservimento e che, così come Ulisse cercava per terra e per mare di rivedere il fumo della sua casa, non dimenticano i propri diritti naturali, le loro origini, la loro prima condizione e colgono ogni occasione per rivendicarli. Essi, avendo un reto giudizio e una mente lungimirante, non si accontentano, come gli ignoranti, di vedere ciò che giace ai loro piedi senza guardare né indietro né innanzi. Ricordano il passato per giudicare il presente e prevedere il futuro. Avendo la testa naturalmente ben fatta, l’hanno ulteriormente affinata con lo studio e il sapere. Anche se la libertà fosse completamente perduta e bandita da questo mondo, essi se la raffigurerebbero, la sentirebbero nel loro spirito e l’assaporerebbero. Quanto alla servitù, essi l’aborriscono, qualsiasi cosa si faccia per mascherarla.

Étienne La Boétie, Discorso sulla servitù volontaria

lunedì 8 aprile 2013

Latine loquimur, n. 9


     Nono appuntamento con la rubrica per l’uso di espressioni latine nella vita quotidiana.
     Nota: la pronuncia scolastica è quella usata (e insegnata) in Italia; la pronuncia restituita è quella che, secondo le ricostruzioni, veniva realmente usata dai Romani.


gdfabech

Absit iniuria verbis
[pronuncia scolastica: absit iniùria verbis]
[pronuncia restituita: absit iniùria verbis]

     Letteralmente significa “L’offesa (iniuria) sia lontana (absit) dalle parole (verbis)”. La frase è tratta da Tito Livio, (Ab Urbe condita, IX, 19, 15), in cui figura però la forma Absit iniuria verbo, con il termine verbum al singolare (“Sia l’offesa lontana dalla parola”). L’espressione ha la funzione di attenuare la gravità o l’intensità di ciò che si è appena detto, per evitare che chi ascolta possa fraintendere e scambiare tutto per un’offesa. Possiamo dire quindi absit iniuria verbis quando stiamo per dire qualcosa di delicato a un amico, per esempio, quando gli vogliamo dare un consiglio in cui dobbiamo per forza criticare qualcosa di lui ma a fin di bene… Oppure quando stiamo riportando una critica severa e spietata che però non è nostra ma di qualcun altro e vogliamo dunque alienare da noi la responsabilità di quanto diremo… O ancora se diciamo semplicemente una cosa per amore della verità che però potrebbe essere troppo difficile da accettare.


Labor limae
[pronuncia scolastica: labor lime]
[pronuncia restituita: labor lìmae]

     Espressione che è diventata un termine tecnico in ambito letterario, il labor limae designa il “lavoro di limatura” (letteralmente: “fatica della lima”), ovvero quella scrupolosità e quell’accuratezza con cui si cercano le parole giuste, le più adatte a ciò che si vuole comunicare mentre si scrive. È il dramma di ogni poeta, che con poche giuste parole deve trasmettere il suo messaggio nel modo più efficace possibile senza star lì a spiegare troppo prolissamente il perché dei termini che usa. Ma in generale ogni scrittore che voglia evitare di banalizzare ed essere efficace sul piano comunicativo attraverso una scelta soppesata delle parole deve compiere un labor limae. Famoso era il poeta Virgilio per la sua ossessione quasi maniacale per la ricercatezza e la rifinitura lessicale quando scrisse la tormentata Eneide: le cronache riportano che ne scrivesse pochissimi versi al giorno e che alla fine, in punta di morte, volesse perfino distruggerla perché non ne fosse soddisfatto. In realtà la scelta si giustificava con un suo allontanamento dalla politica del principe Ottaviano Augusto, a cui aveva promesso in passato di elogiare la sua discendenza con un poema che ne celebrasse le origini.


Quandoque bonus dormitat Homerus
[pronuncia scolastica: quandòque bonus dormìtat Omèrus]
[pronuncia restituita: cuandòcue bonus dormìtat Homèrus]

     “Qualche volta (quandoque) il buon Omero (bonus Homerus) sonnecchia (dormitat)”. Tradotto alla buona: “Talvolta si abbiocca anche il buon Omero”. Un modo più aulico per dire che capita anche ai grandi (come Omero, poeta per antonomasia) di rilassarsi un po’, di non essere sempre sempre al top, di poter essere sotto tono e sbagliare qualcosa. La frase risale a Orazio (Ars poetica, 359), che intendeva riferirsi al problema, molto sentito nella questione omerica dai filologi alessandrini, delle discrepanze di vari passi delle opere omeriche. Orazio chiede quindi un po’ di indulgenza se a volte un autore cade in contraddizione senza volerlo, soprattutto se vanta una ricchissima produzione letteraria.

domenica 7 aprile 2013

Civitanova Marche: coppia si uccide per povertà. Oggi i funerali


     La povertà non è un disonore, si sa, ma quando arriva a togliere la dignità alle persone, la vergogna che ne deriva può spingere a gesti estremi come togliersi la vita. E Romeo Dionisi, 62 anni, muratore disoccupato, e sua moglie Anna Maria Sopranzi, 68 anni, ex artigiana, ne avevano molta, di dignità: la morte che si sono dati lo scorso 5 aprile è stato il loro modo di valorizzarla.
     Questa è una di quelle storie di cui i giornali parlano una tantum, quelle storie che fanno anche indignare ma che si dimenticano in fretta in questo paese che non è capace di ricordare e, quindi, di imparare. È anche, questa, una storia non nuova, già sentita, che aumenta il fardello che la nostra (mala) politica si porta alle spalle. A Civitanova Marche (Macerata) si è quindi consumato l’ennesimo imperdonabile caso di omicidio di Stato.
     Romeo non riusciva a farsi pagare gli ultimi lavori svolti da muratore ed era quindi senza lavoro; come se non bastasse, la ditta di Napoli per cui aveva lavorato attualmente fallita, non gli dava i soldi che gli spettavano; sua moglie Anna Maria viveva con una pensione indegna di circa 500 euro inutile anche per l’affitto di casa. Dove trovare il denaro per mangiare? Vivere così, con il peso delle tasse che incombono anche più che in passato e dei contributi previdenziali da versare, avrebbe dovuto significare per loro, che hanno lavorato per una vita intera, ridursi allo stato di straccioni o farsi segnalare ai servizi sociali del comune.
     Nel condominio in cui vivevano abita anche Ivo Costamagna, presidente del consiglio comunale della città, che li avrebbe invitati al Comune per discutere il loro caso. Ma la burocrazia italiana raramente è in grado di risolvere questi problemi sociali e per i due anziani coniugi, che a quella dignità tenevano tanto, ammettere di non poter mettere il piatto in tavola dopo un’intera vita passata a lavorare era una vergogna troppo grande. La morte e il silenzio che essa porta è parsa loro la sola soluzione accettabile.
     Si sono impiccati entrambi, insieme, finché morti non li separi, da bravi compagni di vita, in uno stanzino vicino al loro garage. Sono rimasti uniti fino alla fine, insieme avranno approntato le corde, magari scambiandosi un ultimo sguardo prima di lasciarsi andare, magari stringendosi la mano per trasmettersi quel coraggio che pure occorre, e anche in abbondanza, per compiere lucidamente un gesto del genere.
     I cadaveri sono stati ritrovati dai carabinieri, prontamente chiamati dai vicini di casa, che hanno scoperto il fatto grazie a un biglietto che i coniugi stessi avevano lasciato nel garage del condominio: su di esso Romeo e Anna Maria hanno lasciato innanzitutto parole di scusa, scusa per il gesto, per quel gesto. Ma scusa dovrebbero chiedere i responsabili di tutto questo, quegli individui lontani dalla realtà che costituiscono quell’istituzione che va indegnamente sotto il nome di “Stato”.
     Dal biglietto gli inquirenti hanno evinto il movente economico del suicidio: è lì che la coppia ha lasciato trasparire quell’estremo bisogno di preservare quella certa dignità che sentivano di aver perso nella loro condizione di gente indigente e abbandonata dalle istituzioni. Il fratello di Anna Maria, Giuseppe, che abitava nell’edificio accanto a quello della coppia, appena saputa la notizia, preso dalla disperazione, si è gettato in mare dal molo: morto anche lui. Dal dolore.
     Tre vittime della negligenza, della strafottenza, di quel grave deficit di empatia morale di cui i nostri politici si vestono con un’arroganza sempre più insopportabile. Tre morti sulla loro coscienza. E la cosa peggiore è che passerà presto di mente a tutti, a quei politici per primi che non sanno cosa sia la crisi grazie ai loro stipendi d’oro e alle mille ruberie derivanti dai reati finanziari che sono stati eccelsi nel commettere.
     Ieri il sindaco, Tommaso Claudio Corvatta, ha proclamato una giornata di lutto cittadino e oggi si sono svolti i funerali. La presidentessa della Camera dei deputati, Laura Boldrini, aveva già annunciato di voler partecipare alle esequie, e non solo perché lei è nata a 20 chilometri da Civitanova ed era quindi conterranea, ma anche perché secondo lei «il primo dovere delle istituzioni è esserci, metterci la faccia, tanto più nei momenti duri […] Sarebbe troppo comodo, e per quanto mi riguarda inaccettabile, scegliere di essere presenti soltanto dove è garantito l’applauso». È stata la sola politica nazionale a presenziare al rito.
     Ma la rabbia ai funerali era tanta. E molti si sono lasciati scappare contestazioni, dal «Facevi meglio a non venire!», rivolto alla stessa Boldrini, ai «Vergogna! Ladri! Omicidio della politica! Neanche gli animali sono trattati così». Più secco e lapidario il commento lasciato invece da Giuseppe Giudici, cognato di Romeo: «Tanto è inutile girarci attorno, lo sanno tutti chi li ha uccisi: L’Inps, Equitalia. Insomma lo Stato».
     Cresce ancora, dunque, il numero di morti per la crisi. E cresce aprendo il suo abbraccio mortale a più livelli della scala sociale: si uccidono gli imprenditori che, soffocati dai debiti e affamati dai crediti non riscossi, devono prima licenziare operai, poi ridurre la produzione, poi vendere la casa e infine chiudere l’azienda; si uccidono anche i pensionati, che dovrebbero restare tutelati perché sono tra la cosiddette categorie deboli. Chissà, forse domani ci sveglieremo e i giornali parleranno di un laureato toltosi la vita perché voleva sposarsi ma non poteva permettersi il lusso di sognarlo… o magari si parlerà di un malato di sla a cui lo Stato a negato i sussidi economici per la cure. Non rilassiamoci troppo: sono realtà già fin troppo vicine.

Romeo Dionisi, Anna Maria e Giuseppe Sopranzi