mercoledì 30 novembre 2011

Latine loquimur, n. 4

     Latine loquimur, parte quarta! Buona scorpacciata di massime.
     Nota: la pronuncia scolastica è quella usata (e insegnata) in Italia; la pronuncia restituita è quella che, secondo le ricostruzioni, veniva realmente usata dai Romani.

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A cruce salus
[pronuncia scolastica: a cruce salus]
[pronuncia restituita: a cruche salus]

     Frase di stampo cristiano, sita nel De imitatione Christi attribuita Tommaso da Kempis, traducibile con “la salvezza [viene] dalla croce”: il riferimento è ovviamente alla morte del Cristo che, secondo la dottrina cristiana, si sarebbe immolato sulla croce al fine di redimere l’umanità. Attualmente la frase viene usata in senso più lato per ribadire che molti effetti positivi si fanno sentire solo se si vive un periodo di fatica: che cioè il cammino più semplice non sempre (meglio: quasi mai) è quello più efficace. Così, Umberto Eco, ne Il pendolo di Foucault, scrive che “per ogni problema complesso esiste una soluzione semplice, ed è quella sbagliata”; così gli stessi latini, anche prima del cristianesimo, affermavano che per aspera ad astra (“attraverso le difficoltà [si giunge] alle stelle”); così il Dante Alighieri protagonista della Commedia comprese che per giungere alla salvezza non si può salire direttamente sul colle illuminato dal sole, ma occorre farsi il giro dei tre regni ultraterreni.


Etiam capillus unus habet umbram suam
[pronuncia scolastica: èziam capìllus unus abet umbram suam]
[pronuncia restituita: ètiam capìllus unus habet umbram suam]

     Publilio Sirio, nelle sue Sententiae, scriveva che “anche un solo capello ha una sua ombra”, per ribadire che non bisogna trascurare i dettagli che sembrano più insignificanti. Spesso la soluzione a un problema, o la chiave di lettura giusta per affrontare un discorso sta nell’osservazione di quei particolari che possono apparire insignificanti. È quello che disse Freud quando comprese che per interpretare la pulsione che muove il contenuto di un sogno, non si deve badare solo alla scena primaria, cioè a ciò che sta al centro della rappresentazione onirica, ma a quegli elementi decentrati, messi in secondo piano, poiché l’inconscio tenta di censurare il suo vero messaggio. E anche i fisici, quando vogliono spiegare fenomeni enormi e onnicomprensivi come il big bang, non possono fare a meno di ricorrere a quelle minuscole particelle subatomiche che neanche si vedono ad occhio nudo ma che stanno alla base di tutto.


O Tite tute Tati tibi tanta tyranne tulisti
[pronuncia scolastica: o Tite tute Tazi tibi tanta tirànne tulìsti]
[pronuncia restituita: o Tite tute Tati tibi tanta türànne tulìsti]

     “O tiranno Tito Tazio tu stesso ti sei attirato cose tanto tremende”. Si legge questa frase negli Annales di Ennio, dove si parla di Tito Tazio, uno dei re di Roma che però non vengono citati nel famoso elenco dei sette re (che è un elenco leggendario): Tito Tazio fu re assieme a Romolo per un breve periodo e di lui si hanno testimonianze tra gli storici della latinità. Questa frase non ha una particolare importanza didascalica, non volendo insegnare alcun principio, ma è diventata famosa a causa dell’enorme numero di allitterazioni a base di T presenti praticamente in ogni parola. Questo espediente retorico l’ha resa molto famosa per due motivi: da una parte infatti è conosciuta come uno scioglilingua molto simpatico (assieme ad altri di cui il mondo letterario latino è pieno); dall’altra è stata atrocemente condannata nel più antico trattato di retorica in lingua latina a noi mai pervenuto Rhetorica ad Herennium come pessimo esempio di retorica.

giovedì 17 novembre 2011

Governo Monti: il premier presenta la lista dei ministri

     Risale a ieri 16 novembre 2011 la presentazione, da parte del neopremier Mario Monti, della nuova squadra di governo che dovrebbe governare fino al 2013 con l’esplicito obiettivo di risanare la crescita economica dell’Italia. Dopo aver accettato definitivamente l’incarico di Presidente del Consiglio dei Ministri, Monti ha dato lettura dei ministri del nuovo governo in conferenza stampa, sottolineando quella che lui stesso ha definito «la logica di questo governo», ovvero «mettere al centro le iniziative coordinate per la crescita e lo sviluppo».
     La lista comprende 17 tecnici, tra avvocati, militari, ambasciatori, ingegneri, medici… Dei 17 ministri, di cui 5 sono senza portafoglio, si può leggere una breve biografia, tra l’altro, nei due articoli pubblicati rispettivamente da la Repubblica e da Il fatto quotidiano. Elenco di seguito la lista di questi ministri con il rispettivo dicastero:

Ministri con portafoglio
Mario Monti: Presidenza del Consiglio dei Ministri e Ministero dell’Economia e delle Finanze
Anna Maria Cancellieri: Ministero dell’Interno
Giulio Terzi di Sant’Agata: Ministero degli Affari esteri
Paola Severino: Ministero della Giustizia
Francesco Profumo: Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca
Renato Balduzzi: Ministero della Salute
Giampaolo Di Paola: Ministero della Difesa
Corrado Passera: Ministero dello Sviluppo economico e Ministero delle infrastrutture e trasporti
Corrado Clini: Ministero dell’Ambiente
Marco Catania: Ministero della Politiche agricole e forestali
Elsa Fornero: Ministero del Lavoro e delle Politiche sociali
Lorenzo Ornaghi: Ministero per i Beni e le attività culturali

Ministri senza portafoglio
Piero Giarda: Rapporti con il Parlamento
Fabrizio Barca: Coesione territoriale
Andrea Riccardi: Cooperazione internazionale
Enzo Moavero Milanesi: Affari europei
Piero Gnudi: Turismo e sport

     Nella prima riunione il premier Monti proporrà la nomina a sottosegretario alla Presidenza del Consiglio di Antonio Catricalà. Comincia così questa nuova parentesi della storia del nostro paese, che si propone, più che all’insegna dell’apoliticità, come pure si conviene a ogni governo tecnico, alla collaborazione dei “tecnici” con le forze politiche, senza il clima di inasprimento che ha caratterizzato gli scontri di fazione degli ultimi tempi. Intanto i più scettici gridano già al governo in mano alle banche. Staremo a vedere…

domenica 13 novembre 2011

Berlusconi si dimette, ma l’Italia resta appesa a un filo


     Risale a poche ore fa quella che non si esagera a definire una delle notizie più significative per l’Italia negli ultimi vent’anni, notizia che è di dominio pubblico non solo nel nostro paese, ma proprio in tutto il mondo: il 12 novembre 2011 Silvio Berlusconi, dominatore della scena politica italiana dal 1994, ha dato le sue dimissioni.
     Anche senza cercare volutamente, in rete, in TV e dovunque in ogni angolo del paese si può essere informati sui dettagli della serata: dell’arrivo di Berlusconi a Palazzo Grazioli per un colloquio col Capo dello Stato Giorgio Napolitano; delle grida a suon di «Buffone!» e «In galera!» dei cittadini che si sono riversati in strada, tenuti a bada dalle forze dell’ordine; dei festeggiamenti di quegli stessi cittadini che hanno esultato fino alle 3 del mattino neanche l’Italia avesse vinto i mondiali; dell’approvazione della legge di stabilità che questo governo è stato costretto a varare e che deve contenere, secondo le richieste dell’Unione Europea, il maxi-emendamento con i punti necessari per risollevare il paese dalla crisi economica in cui versa da tempo. Si può sentir parlare dovunque anche di questo nuovo governo tecnico, nominato in via provvisoria dal Presidente della Repubblica e guidato da Mario Monti, economista bocconiano nominato ad hoc senatore a vita il 9 novembre scorso, in attesa della stabilizzazione del quadro politico.
     La situazione è così delicata che nei prossimi giorni l’attenzione dei cittadini potrebbe addirittura mettere da parte Grandi Fratelli, Barbare D’Urso e Marie De Filippi! Dovunque si sente dire che l’Italia sta attraversando una vera e propria fase di transizione, che l’egemonia berlusconiana è finita e che il “premierato assoluto” non è più un pericolo verosimile. I più tenaci si sono perfino divertiti a stendere statistiche: il numero dei giorni che Berlusconi ha passato alla guida del paese che rendono il suo un periodo di governo paragonabile solo a quelli di Giolitti e Mussolini; il numero di processi giudiziari accumulati in questi anni e mai risoltisi con un’assoluzione come Dio comanda; i miliardi che il Cavaliere ha guadagnato, evaso, pagato per corrompere e comprare giudici, avvocati, parlamentari e per i suoi divertimenti personali (e illegali) sotto forma di (troppo) giovani escort… In effetti ce ne sarebbe da dire per fare il riepilogo della situazione. Ma niente fretta: per queste cose c’è tempo!


     Di sicuro oggi è una data storica per il nostro paese, questo sì, ma lasciamo un attimino da parte i sogni idilliaci che tutti vorremmo fare ora che apparentemente “Annibale non è più alle porte”, e dimentichiamoci per adesso anche di tutti i retroscena del reality show di Casa Berlusconi, per concentrarci un secondo sui veri protagonisti di questa vicenda quasi ventennale: noi! Perché chiariamo una cosa: qui non stiamo assistendo al solito servizio di cronaca politica riferito allo sperduto paesino dell’altra parte del mondo, cui magari guardiamo con quel misto di curioso voyeurismo e ingenua indifferenza. Qui si parla di noi: del panettiere sotto casa, del figlio del professore, dello studente universitario, della donna delle pulizie, del maresciallo dei Carabinieri… quella gente lì. È su di loro che va puntato l’occhio di bue, perché sono loro ad essere in gioco.
     Se c’è un momento buono per farsi un esamino di coscienza in qualità di cittadini, è questo. E lo dico perché la tentazione più forte che viene in questo momento è quella di pensare che finalmente ci siamo liberati dai cattivi che sono usciti di scena e dai quali non potevamo difenderci perché, poverini, come potevamo sapere certe cose? Lo dico anche perché c’è la tentazione di rimettere nelle mani dei neogovernanti la situazione del futuro sempre perché noi, poverini, cosa ne possiamo sapere di politica? Se la vedessero loro! Ebbene, è proprio in questo che sbagliamo! È questa la crisi vera del nostro paese, quella che viene prima di quella economica: la crisi culturale! Abbiamo avuto pessimi governi anche perché siamo stati pessimi cittadini. Vuoi per mancanza di un’adeguata educazione o istruzione; vuoi perché forse ci portiamo ancora dietro quella parcellizzazione multiculturale in cui siamo andati avanti storicamente, dai tempi dei Comuni, e quindi un popolo vero, ancora dobbiamo imparare ad esserlo; vuoi perché per pura coincidenza in questi anni la maggior parte della gente è nata menefreghista e non voleva sentirsi addosso quel fastidioso peso che si chiama “dovere civico” e allora ha preferito lavarsene le mani e smettere di interessarsi agli affari del paese. La colpa è anche nostra, quindi siamo anche noi a dover cambiare! Troppo facile aspettare che l’Unione Europea ci bacchetti la squadra di governo, come si farebbe con un bambino cattivo che ha fatto la marachella, e subito ubbidire per paura che ci mettano in punizione! In tutti questi anni ci siamo rifiutati letteralmente di fare attenzione a ciò che accadeva sotto i nostri occhi, ci siamo fatti crescere a pane e televisione, ci siamo fatti rintontire dalle veline e dal gioco dei pacchi! E quelle poche volte che ci si è azzardati a parlare di politica, lo si è fatto solo per prendere a parolacce l’avversario. E intanto la verità ci scivolava tra le mani, una verità la cui urgenza è oggi più forte che mai: che cioè non abbiamo un cavolo da festeggiare, e per tanti motivi.
     In primis perché il fatto che Berlusconi non si ricandidi alle prossime elezioni non vuol dire che sia uscito di scena, né che abbia smesso di esercitare la sua influenza sugli aspetti più importanti del paese: nelle sue mani ci sono ancora la quasi totalità dei mezzi di comunicazione di massa, giornali, editoria, cinema, solo per citare quelli più rilevanti, perché è noto a tutti che il suo impero economico è immenso. E una delle prove più concrete che un uomo possa manovrare le redini di uno stato anche se non è direttamente al potere ce l’abbiamo, nostro malgrado, ancora sotto i nostri occhi; una prova ingobbita dalla vecchiaia e imbruttita dalle scelleratezze che puzzano di mafia: Giulio Andreotti! Inoltre Berlusconi è ancora indagato per molti processi e non credo che si sia arreso e abbia rinunciato a cercare quella protezione che finora l’ha tenuto dall’altra parte delle sbarre. Infine non credo nemmeno che ora che non è più premier abbia intenzione di andarsi a mangiare tutti i soldi accumulati in questi decenni su una spiaggia delle Seychelles. Quindi in campana, perché il Cavaliere non è sceso dal palco, ma aspetta solo dietro le quinte.
     Altro motivo per cui non c’è nulla da festeggiare è che, abituati come siamo a basare i nostri giudizi sulle “antipatie o simpatie a pelle”, noi non sappiamo votare. Non siamo proprio capaci di usare lo strumento del voto. Questa cosa fu secondo me ben spiegata da Daniele Luttazzi nel suo monologo Decameron, quando diceva che l’elettorato (non solo italiano) di oggi vota in base a suggestioni emotive e che il politico che viene eletto è quello che sa raccontare meglio la sua storia personale (ancora puzza di reality show, come vedete: il meccanismo è quello, non c’è niente da fare). Quindi anche riavendo la possibilità di scegliere i nostri rappresentanti non potremmo basarci su altro che sulla fortuna, giacché i più di noi o non sono informati sui candidati, preferendo votare per sentito dire e voci di corridoio, o sono proprio disinteressati nei confronti dell’esperienza della scelta in sé, con la scusa – pericolosissima a livello ideologico – che “tanto son tutti uguali”. Abbiamo bisogno di essere formati a fare i cittadini: i bambini di adesso ne hanno bisogno e a scuola dovrebbero studiare anche questo.
     Ancora, la politica italiana, così come in altri paesi, è un sistema quasi in stallo bloccato sulla gerontocrazia e su sistemi clientelari troppo radicati perché siano messi in crisi dalle dimissioni di un solo premier. Senza contare il fatto che, con la sfiducia verso le istituzioni in generale, in politica si candida sempre meno gente per bene e solo quelli che hanno qualcosa da arraffare hanno il coraggio di proporsi.
     La ripresa economica auspicata dalla legge di stabilità, poi, non può ripristinare lo status quo nel giro di poco tempo: per riportare un paese in una condizione decente occorre del tempo perché le forze in gioco sono molte e molto diverse, con esigenze diverse e capacità diverse, e questo significa che ci aspettano tempi duri. Se pensiamo che oggi la Germania, paese dove la burocrazia è molto più veloce, ancora sta lavorando per la ricostruzione delle aree venute fuori dalla guerra, cosa vuoi sperare che in Italia si sistemi tutto in quattro e quattr’otto?

     Ci sarebbero molti altri motivi, ma credo di aver espresso il mio punto di vista. L’esperienza berlusconiana degli ultimi 17 anni non è il primo caso di un paese che si mette in ginocchio da solo e, stando alle statistiche storiche, non sarà nemmeno l’ultimo. Tuttavia ci ha lasciato una lezione da imparare: ci ha mostrato quanto siamo volubili, vulnerabili, ci ha fatto vedere quanto è facile convincere la gente a fare scelte sbagliate facendole addirittura credere di aver fatto la cosa giusta; ci ha dato la dimostrazione di quanto lontani dalla legalità e dalla giustizia si possa arrivare a causa degli interessi personali di una sola persona (non dico di un’oligarchia, ma di un singolo uomo!); ci ha dato la prova che alla gente si può nascondere la verità in modo da non tenerla informata su ciò che è bene fare in futuro usando uno strumento semplice e diffusissimo come la televisione. È un’esperienza fresca questo berlusconismo, ce l’abbiamo davanti a noi. Dobbiamo imparare da questa esperienza, dobbiamo cambiare come popolo. Dobbiamo far funzionare la storia. Solo chi è attento ai fatti è in grado di giudicarli bene e regolarsi nel migliore dei modi per non farsi danneggiare. Non è un caso, per esempio, che da quando Berlusconi è asceso al potere una delle categorie più ostacolate sia stata quella dei comici: la satira, infatti, con la scusa delle risate, esamina i fatti storici e ne fornisce un punto di vista: Luttazzi, Guzzanti, Rossi sono tutti nomi che non hanno lavorato più sulle reti nazionali (o ci hanno lavorato con una certa censura) proprio perché nei loro monologhi illustravano cose che si aveva l’interesse a tener nascoste. Perché mai un Paolo Rossi, per esempio, sarebbe stato così profetico già nei primi anni novanta, quando il fenomeno Berlusconi non aveva raggiunto le dimensioni titaniche degli ultimi tempi?


Mi sovviene un passo di Primo Levi che diceva:
Ogni tempo ha il suo fascismo. […] E a questo si arriva in molti modi, non necessariamente col terrore dell’intimidazione poliziesca, ma anche negando o distorcendo l’informazione, inquinando la giustizia, paralizzando la scuola, diffondendo in molti modi sottili la nostalgia per un mondo in cui regnava sovrano l’ordine.

     Gli entusiasmi, teniamoli a freno. È presto per cantar vittoria o per festeggiare, siamo ancora appesi a un filo. Non è ancora tempo di aggiornare i libri di storia: è tempo di rileggerli.


mercoledì 9 novembre 2011

Scripta manent, n. 11 - L’exul immeritus


     Nel 1302 il Sommo Poeta Dante Alighieri, da tempo entrato in politica e sostenitore di tesi scomode per l’attuale governo fiorentino, veniva condannato in contumacia all’esilio con ben due sentenze grazie a una lurida trappola politica organizzata dal papa Bonifacio VIII e dall’allora podestà di Firenze Cante Gabrielli. Con la condanna, piovuta addosso all’improvviso e senza che potesse fare nulla, Dante non potette mai più ritornare in patria, quella patria che gli aveva fatto tanto male e che gli aveva procurato tante ingiustizie, ma che egli, nonostante tutto, amava pur nel suo disprezzo. Nel giorno 19 maggio1315, dopo 12 anni di peregrinazioni passati a elemosinare ospitalità e riparo in giro per l’Italia, il Comune di Firenze approva un’amnistia per coloro che erano stati esiliati o carcerati negli anni addietro, nessuno escluso. Il Poeta viene prontamente informato e riceve diverse lettere, di cui una da uno sconosciuto “amico fiorentino” che egli chiama pater (padre), forse poiché si tratta di un religioso avente legami con la famiglia di Dante (alcuni pensano al nipote Niccolò di Fusino di Manetto Donati, figlio di un fratello di Gemma Donati, moglie del Poeta); nelle lettere Dante è avvisato che i condannati negli anni precedenti sarebbero potuti ritornare a Firenze, ma alle seguenti condizioni: i “colpevoli” avrebbero dovuto pagare una multa e, il giorno 24 giugno, in occasione della festa del patrono di Firenze, avrebbero compiuto un tragitto in processione dal carcere fino al Battistero di San Giovanni, a piedi scalzi, vestiti con un sacco e con in testa una mitra fatta di carta su cui sarebbe stato scritto il reato che avevano compiuto; in una mano avrebbero portato un cero acceso, nell’altra una borsa piena di denaro; se al momento dell’emanazione del provvedimento i rei non erano in carcere (come Dante), avrebbero dovuto simbolicamente toccare col piede la soglia del carcere e presentarsi al tempio, senza la mitra in testa.
     Dante sa bene di essere innocente e che il suo esilio è frutto di una macchinazione fatta per allontanarlo da Firenze al fine di evitare che persone come lui potessero ostacolare il programma dei guelfi neri. Egli è un exul immeritus, un esule che non meritava l’esilio… Tuttavia, vuole anche ritornare a casa: è stanco di girovagare per la penisola, nella disonorevole condizione di apolide, lontano dalla famiglia, senza una casa sua e privato dei suoi affetti. La sola strada che gli viene proposta è affrontare la vergogna e chiedere scusa davanti a tutti per una colpa mai commessa. Il Poeta deve decidere e non ci pensa due volte: rifiuta! Mai un uomo come lui si sarebbe sporcato la dignità a scendere a patti così vili: non avrebbe fatto come Ciolo degli Abati, condannato nel 1291 contumace proprio come Dante, ma che a differenza del Poeta fu assolto proprio grazie a un’amnistia simile a questa.
     Decide di rispondere a questo amico comunicandogli la sua decisione in una lettera. Si tratta della prima lettera che lessi di Dante al Liceo e fu quella che mi fece innamorare del Dante uomo. L’incredibile dedizione ai propri valori, difesi così strenuamente, esercitarono su di me un enorme fascino! La lettera, conosciuta come Epistula XII, scritta in latino, è nota solo grazie a Giovanni Boccaccio che la riportò nel più antico codice epistolario di Dante, noto come Zibaldone Laurenziano (perché conservato nella Biblioteca Medicea Laurenziana a Firenze) in cui sono scritte anche le Egloghe del Sommo Poeta. Ecco come Dante Alighieri rispondeva alla proposta dei suoi avversari…

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[All’amico fiorentino]

     Nelle vostre lettere ricevute con la debita riverenza e affetto, ho con animo riconoscente e con diligente attenzione appreso quanto vi stia a cuore il mio ritorno in patria; e quindi tanto più strettamente mi avete obbligato, quanto più raramente agli esuli accade di trovare amici. In particolare richiedo affettuosamente che la mia risposta al comunicato di quelli sia vagliata sotto il vostro parere, prima che sia giudicata, anche se forse non sarà quale la pusillanimità di qualcuno vorrebbe.
     Ecco dunque ciò che per mezzo delle lettere vostre e di mio nipote e di parecchi altri amici mi fu comunicato per mezzo del decreto da poco emanato in Firenze riguardo l’assoluzione dei banditi: che se volessi pagare una certa quantità di denaro e volessi sopportare la vergogna dell’offerta, potrei essere assolto e rientrare con effetto immediato. In verità nella comunicazione ci sono, o padre, due cose degne di derisione e mal consigliate; dico mal consigliate a causa di coloro che hanno esposto tali cose, infatti le vostre lettere redatte con più discrezione e con più meditazione non contenevano nulla di tutto ciò.
     È dunque questa l’assoluzione concessa con la quale è richiamato in patria Dante Alighieri, che per quasi tre lustri ha patito l’esilio? Questo ha meritato un’innocenza nota a tutti? Questo ha meritato il sudore e la fatica ininterrotta nello studio? Sia lontana da un uomo imparentato alla filosofia una bassezza d’animo tanto sconsiderata da sopportare di consegnarsi quasi fosse un galeotto, a mo’ di un Ciolo qualunque e di altri infami! Sia lontano da un uomo che predica la giustizia che, dopo aver patito fior fior di offese, paghi il suo denaro a quelli stessi che l’hanno offeso, come se lo meritassero!
     Non è questa la via del ritorno in patria, padre mio; ma se prima o poi per mezzo di voi o di altri ne verrà trovata un’altra che non deroghi alla fama e all’onore di Dante, quella accetterò a passi svelti; di conseguenza se per nessuna tale via s’entra a Firenze, a Firenze non entrerò mai. E perché no? Non ammirerò forse dovunque l’immagine del sole e delle stelle? Non potrò forse indagare le dolcissime verità dovunque sotto il cielo, a meno che prima non mi restituisca disonorato e ignominioso all’infimo popolo e alla città di Firenze? Né di certo mi mancherà il pane.

Dante Alighieri, Epistulae, XII



     La versione originale della lettera, così come fu scritta da Dante.

[Amico Florentino]

     In litteris vestris et reverentia debita et affectione receptis, quam repatriatio mea cure sit vobis et animo, grata mente ac diligenti animadversione concepi; et inde tanto me districtuis obligastis, quantum rarium exules invenire amicos contingit. Ad illarum vero significata responsio, etsi non erit qualem forsan pusillanimitas appeteret aliquorum, ut sub examine vestri consilii ante iudicium ventiletur, affectuose deposco.
     Ecce igitur quod per litteras vestras meique nepotis nec non aliorum quamplurium amicorum, significatum est michi per ordinamentum nuper factum Florentie super absolutione bannitorum quod si solvere vellem certam pecunie quantitatem vellemque pati notam oblationis, et absolvi possem et redire ad presens. In qua quidem duo ridenda et male preconsiliata sunt, pater; dico male preconsiliata per illos qui talia expresserunt, nam vestre littere discretius et consultius clausulate nichil de talibus continebant.
     Estne ista revocatio gratiosa qua Dantes Alagherii revocatur ad patriam, per trilustrium fere perpessus exilium? Hocne meruit innocentia manifesta quibuslibet? hoc sudor et labor continuatus in studio? Absit a viro phylosophie domestico temeraria tantum cordis humilitas, ut more cuiusdam Cioli et aliorum infamium quasi vinctus ipse se patiatur offerri! Absit a viro predicante iustitiam ut perpessus iniurias, iniuriam inferentibus, velut benemerentibus, pecuniam suam solvat!
     Non est hec via redeundi ad patriam, pater mi; sed si alia per vos ante aut deinde per alios invenitur que fame Dantisque honori non deroget, illam non lentis passibus acceptabo; quod si per nullam talem Florentia introitur, numquam Florentia introibo. Quidni? nonne solis astrorumque specula ubique conspiciam? nonne dulcissimas veritates potero speculari ubique sub celo, ni prius inglorium ymo ignominiosium populo florentineque civitati me reddam? Quippe nec panis deficiet.

venerdì 28 ottobre 2011

Le dieci piaghe della televisione italiana. Una rassegna.



     Concedetemi, stavolta, di togliermi un sassolino dalla scarpa. Anzi, non uno, ma una bella manciata! Oggi pensavo a quanto la televisione italiana sia cambiata in questi anni: tralasciandovi i retroscena eziologici di questo mio viaggio mentale, mi piace condividere uno sfogo che interessa il problema del degrado mediatico di cui il nostro paese è affetto ormai da più di una ventina d’anni.
     La televisione in Italia ha avuto un grande merito: ha fatto gli italiani! Me lo ripeteva sempre il mio prof. di storia al Liceo: «Le autostrade e le televisione hanno unito le regioni d’Italia!». Tuttavia, da quando è stata usata per fini diversi da quelli legati all’informazione o al puro e innocente intrattenimento, il suo volto si è trasfigurato un po’ alla volta fino a farla assumere una veste totalmente diversa e funzione totalmente diversa.
     Ebbene, non facciamo i delicati e diciamolo chiaramente: oggi la TV è uno strumento di controllo vero e proprio che ha l’esplicito compito di indirizzare i comportamenti del pubblico di consumatori e di elettori. E di volta in volta chi usa questo strumento sono le banche che devono acchiappare debitori, le multinazionali che vomitano fiumi di spot pubblicitari per farci comprare (altra perla del mio prof.: «Il consumismo non soddisfa i bisogni, ma crea nuovi bisogni di cui non c’è bisogno»), i partiti politici che vogliono portare gli elettori a votare chi si può permettere di farsi la pubblicità più bella in campagna elettorale… Ma questo macchinario immenso ha bisogno di rotelle e ingranaggi per funzionare: questi ingranaggi sono i volti che vediamo tutti i giorni, quelli a cui siamo abituati, che a volte ci sono perfino simpatici e che, in ogni caso, ci sono familiari. Sono i cosiddetti VIP che compaiono nelle trasmissioni di questa e quella rete e che prestano la loro immagine per trasmettere idee e concetti che sono proprio quelli che stanno corrompendo e avvelenando la mente e la dignità dei cittadini, che credono di assistere a qualcosa di innocuo e di innocente, mentre invece vengono indottrinati furtivamente e subdolamente da un sistema più grande di loro.
     Ma quali sono questi VIP? In questo piccolo “processo”, che poi è tutto il mio sfogo, dovrebbero comparirne decine e decine, ma ovviamente non si può parlare di tutti. E allora facciamo una cernita e stendiamo una classifica. Nasce così, signore e signori, la mia personalissima top ten di cretini che hanno contribuito ad abbassare il livello della televisione italiana. Vediamoli uno alla volta, in crescendo.

     Al decimo posto troviamo Platinette, nome buffo di Maurizio Coruzzi. Platinette può essere considerato un po’ come il pioniere di quella categoria umana che oggi prende il nome di opinionisti. Certo, all’inizio ha avuto esperienze di conduzione, ma si è negli anni affermato nel non fare una beneamata mazza nei programmi Mediaset. Questo strambo personaggio, che ogni tanto prende fattezze vagamente antropomorfe, fa la sua apparizione in TV munito (o armato?) di una inquietante serie di parrucche color zucchero filato che suscitano una forte (ma forte) invidia in Moira Orfei. Con una parvenza di letteratezza e cercando di sfoggiare, quando può, una certa cultura personale che comunque non va mai al di là di un certo punto, Platinette ha come cavallo di battaglia le sue frecciatine nei confronti dei partecipanti ai programmi in cui lavora e, soprattutto, le sue battutine piene di doppi sensi e allusioni volgarmente sessuali. Attualmente tende ad aggirarsi più o meno stabilmente negli studi di Amici di Maria De Filippi anche se, come le metastasi, invade anche format diversi, spargendo il suo veleno mortale qua e là dove capita.

     Tina Cipollari è una donna che tiene fede al suo cognome: fa proprio piangere! Di tristezza. Esordì come “corteggiatrice” e poi come “tronista” nel reality show Uomini e donne, ma, dopo un periodo passato sui giornali in cui si parlò della sua gravidanza (manco avesse partorito la Madonna), ha subito trovato la sua strada in quello stesso programma come opinionista. Si fa chiamare Tina la vamp (anche se non sa nemmeno come si scrive vamp), a causa del suo look fortemente (e pateticamente) ispirato al cliché della femme fatale: in realtà sembra la brutta copia della versione caricaturiale di Marylin Monroe (cui si illude di poter assomigliare con quella sua pettinatura bionda e cotonata che però pare il culo di una pecora) e quel culone enorme che nasconde inutilmente sotto quella ridicola gonna non l’aiuta certo ad essere credibile. Nonostante se la tiri neanche ce l’avesse di platino e si sforzi di apparire fine ed elegante, tradisce spesso e volentieri la sua volgarità e la sua cafonaggine con i suoi turpiloqui degni di una “vasciaiola” napoletana che sbatte i polpi sugli scogli durante i quali viene fuori tutto il suo accento romanaccio.

     Quando il giornalismo diventa voyeurismo; quando l’informazione diventa perversione; quando vuoi fare soldi sulla morte della gente uccisa… Ecco cos’è diventato Salvo Sottile, ex giornalista TG5, attualmente conduttore di Quarto grado, programma il cui titolo la dice lunga sull’umiltà della conduzione. Com’è che funziona questo Quarto grado? Be’, si prende un caso di cronaca nera, si affilano le lame della speculazione, e si comincia a fare su di esso un processo vero e proprio, parallelo a quello giudiziario, usando voci di corridoio e prove parziali o non del tutto attendibili e attestate; in studio questa follia viene fatta con l’aiuto di espertoni della Madonna, come criminologi, psichiatri o altri giornalisti, che devono collaborare con il conduttore nel suscitare sdegno negli spettatori (come dicevo: non è informazione, ma show). Salvo Sottile vive degli assassinii che si consumano nel nostro paese e nel suo programma non ci si accontenta di dire alla gente quello che è accaduto. No, si deve andare a cercare il particolare della vicenda, si scova il pelo, si sviscera il dettaglio dell’orrore per tenere la gente incollata al caso, interessandosi dell’impronta, della goccia di saliva, del capello lasciato sulla scena del crimine. Questo modo malato di parlare della cronaca nera ha ormai piena affermazione in Mediaset e non solo. E questo individuo dalla faccia da scimmia, brutto come un culo (una bruttezza che prova a celare con quella barba sgamatissima) e con le orecchie a sventola è il porta vessilli di questo genere di format.

     Diciamola tutta: Barbara D’Urso sarebbe stata molto più apprezzata nel cinema porno! Dai, lo vedete: se non è una faccia da troia la sua! Sarebbe stata molto più credibile. Ma questo è un giudizio mio personale. Il fatto più grave è che Barbara D’Urso non vuole capire che a una certa età si invecchia! Dovrebbe ben farsene una ragione, e invece, negli studi di Pomeriggio cinque e Domenica cinque si fa sparare in faccia quel faro da nave da 1000000 candele di potenza per appianare le varie rughette che alla sua età sarebbero dignitosissime! Quasi una Beatrice dei poveri illuminata dalla grazia divina che propina nella sua trasmissione le cose veramente più assurde: dalla testimonianza dell’avvistamento alieno, all’esperto bagnino di Riccione che viene in studio a fare lezioni di seduzione… Del resto una che vanta nel suo curriculum la conduzione di programmi come Grande fratello e La fattoria dovrebbe chiudere la sua carriera per aver raggiunto il picco massimo di bassezza. La specialità di Barbara D’Urso sono le faccine che fa quando ascolta le storie dei suoi protagonisti: sono veramente tante e una più antipatica dell’altra! Una faccia da schiaffi veramente! Ha rotto le palle, lei e le sue tette rifatte messe a tre quarti davanti l’inquardatura!

     Alfonso Signorini o, come lo chiama la Marcuzzi, Alfónso, con la O chiusa, è un caso difficile da descrivere… se non vuoi incazzarti. Si spaccia per giornalista, ma il massimo della cronaca che fa è parlare della cellulite delle chiappe di Sandra Milo (perché per lui il pettegolezzo è informazione e il gossip è giornalismo); ha voluto scrivere dei libri, ma si documenta di merda e scrive anche peggio (ha scritto una biografia di Marylin Monroe che sarebbe da denuncia); ha provato a fare il conduttore ma siamo al livelli di Barbara D’Urso per forma e contenuti… L’unica cosa che gli riesce meglio è anche la più dannosa e odiosa: l’opinionista. Di nuovo. E lo so, ma che possa farci? Qua fanno tutti gli opinionisti! Ve lo ricordate nello studio del Grande fratello con quel ventaglietto che so io dove glielo infilerei (anzi, no: non glielo infilerei lì, perché me ne sarebbe grato) a indirizzare l’opinione pubblica su questo o quel concorrente, a fare la portinaia che non si fa i cazzi suoi e a elargire grandi perle di saggezza dall’alto del suo scanno della minchia?! Quest’uomo, che alcuni definiscono la versione gay di Gigi D’Alessio, è più inutile del letame, perché almeno col letame si concima la terra. Davvero non riesco a trovare un lato positivo in lui che possa giustificare la sua esistenza a questo mondo. E non parliamo di come si veste, perché sennò mi sale davvero il nervoso.

     Alessia Marcuzzi mi fa pena. Anche lei, come Barbara D’Urso, avrebbe ottenuto risultati migliori nel cinema porno, ma a differenza di Barbara, lei sarebbe molto più zoccola. Oh, non che sia arrapante, per carità: sembra un cavallo bipede, è una stanghettona senza un minimo di armonia nel corpo e ha una faccia che sembra quella di un cavallo che fa la cacca. Provo grande compassione quando la vedo comparire in studio, perché per quanto sarti, truccatori, parrucchieri si sforzino di prepararla e renderla carina, risulta puntualmente un cesso: la sua bocca pare quella dell’attrice hard core che si prepara per il bukkake, gli occhi piccoli e idioti che non risaltano nemmeno con chili di trucco, la voce da gallina strozzata ne fanno veramente una barzelletta di donna. E poi non sa portare i tacchi! Ma queste sono parole di invidia, direte voi. E allora parliamo della conduzione (perché dicono che sia conduttrice): gaffes a non finire, si dimentica le cose, non sa leggere il gobbo, chiede in continuazione aiuto agli autori perché perde di continuo il filo… insomma, una vera e propria imbranata. Non ne azzecca una. È la classica (presunta) gnocca messa lì a far vedere un po’ di figa per tenere alzo l’audience. Se mi chiedeste dove metterla nel mondo, davvero non saprei rispondere. Forse donare il suo corpo (rigorosamente morto) alla scienza la potrebbe riscattare.

     Roberto Giacobbo, nei miei sogni più perversi, viene ucciso da Piero Angela tramite impiccagione sotto un rogo in fiamme, con arcieri che gli riempiono il petto di dardi infuocati e una vasca di piranha che ne sbranano le membra fatte a pezzi da un boia appositamente assoldato. Questo sfigatello con la faccia da chierichetto pestato dai bulli ha veramente rotto i coglioni a tutta Italia con i suoi alieni che hanno costruito le piramidi di Giza e la fine del mondo nel 2012!!! E che due palle, c’è un limite a tutto! Davvero non ha saputo parlare d’altro nei suoi programmi! E poi, almeno ne parlasse, dei problemi che solleva! L’avete mai visto a condurre Voyager? A me si gonfiavano le carotidi sul collo per la rabbia! Se quelli sono documentari, allora i miei scritti sono opere da Premio Nobel per la Letteratura! Parla, parla e parla e non dà mai una risposta! No, lui solleva domande… compiacendosi di lasciarle così, a cazzo, irrisolte. Fa ascolti con l’occulto, con gli extraterrestri e con i misteri. Per lo più ha un timbro di voce inascoltabile. Non ha nemmeno il physique du rôle come Alberto Angela. Io propongo di darlo in pasto ai figli dei mafiosi perché ci giochino a “sciogliamo nell’acido il malcapitato”. Grazie a lui il livello medio di cultura generale si è abbassato, perché la gente si abitua a questo nuovo sapere fatto di “forse”, “si ritiene che”, “si pensa che”, senza uno straccio di documentazione e di ricerche serie e fatte per bene: tutte cose che passano in secondo piano quando ti conquisti l’attenzione degli ignoranti facendo leva sulla loro emotività e non sulla loro voglia di conoscere. Un volgarissimo esempio di ciarlatano!

     Diciamo subito cosa NON è Emilio Fede. Egli non è un giornalista! E questo dev’essere chiaro! Questo pover’uomo pettinato come Seymour Skinner de I Simpson, che ha il maledetto vizio di addormentarsi sotto la lampada abbronzante, tuttora indagato dalla magistratura per gli scandali vergognosi legati alle turpi vicende del premier, è la classica pedina messa dal potere a fare propaganda politica al momento opportuno. Lo abbiamo visto per anni al TG4 (come direttore, eh, non come semplice anchorman) leccare letteralmente il culo a Silvio Berlusconi, a taroccare le notizie in modo da far apparire le decisioni del governo come sensate e giuste; per non parlare degli errori in diretta, delle gaffes, dei cazziatoni fatti ai collaboratori davanti al pubblico. Sì, la conduzione è proprio il suo tallone d’Achille! Non sa proprio stare davanti alla telecamera! E poi non un minimo di ufficialità, di professionalità quando legge le notizie! Sembra sempre che stia chiacchierando nel salotto di casa sua col suo amico. Per questo dico che Emilio Fede è la nemesi dei giornalisti e che la sola cosa che abbia dato di buono agli aspiranti giornalisti è quello di fungere da modello al negativo, ovvero da lui si può imparare solo come un giornalista NON debba essere!

     Bruno Vespa è un po’ come Emilio Fede, ma a differenza del porco, lui ha un’aggravante: che cioè lavora in RAI. E, se c’è da aspettarsi che un giornalista di Mediaset faccia propaganda al suo padrone, proprietario di Mediaset, appunto, la cosa non vale per un dipendente della TV pubblica, quale dovrebbe essere appunto la RAI. E invece no! Il simpatico signor Vespa, un uomo con la faccia da prete pedofilo i cui nei sulla faccia, se uniti, fanno apparire la scritta “Sono un coglione”, vanta nel suo programma Porta a porta fior fior di scandali: come quando, per esempo, invitò in studio il premier Berlusconi per fargli fare quella vergognosissima messa in scena della firma del patto con gli italiani (patto che Berlusconi si è scritto da solo e che non ha manco rispettato); o come quella volta che fece la puntata invitando i parenti di Mussolini, uscendosene con un revisionismo storico da galera! Attualmente la sua passione è buttare via migliaia e migliaia di euro per farsi i modellini nel suo studio.

     E veniamo al top dei top. Al mostro finale. Al male più grande. Maria De Filippi! La vicenda della De Filippi somiglia un po’ a quella di Adolf Hitler: come il gerarca nazista divenne dittatore dopo essere stato snobbato come pittore, così Maria De Filippi tentò la carriera di magistrato, ma non l’ha mai portata a termine. E adesso ce la ritroviamo a fare genocidi ideologici e culturali in quella che è la stragrande maggioranza del panorama di Canale 5. Questo spregevole individuo si è dato alla più cieca bulimia mediatica, occupando ogni angolo della televisione coi i suoi programmi da scempio! Primo fra tutti quella vergogna di Uomini e donne che dovrebbe essere chiuso per legge per l’immondo spettacolo pieno di turpiloqui, di liti e di vuoto che propina al pubblico. Altamente diseducativo e noiosamente sgradevole alla vista così come all’udito. Il peggio del peggio, non a caso, sta nei suoi programmi: Platinette, Tina la vamp, per esempio, sono sue creature. E in Amici di Maria De Filippi è riuscita a rovinare l’immagine perfino di gente che poteva passare per professionista come i ballerini Garrison Larochelle, Steve La Chance e Rossella Brescia, mettendoli a litigare in ogni puntata con quei mocciosetti ignoranti degli “allievi” della scuola o con il pubblico, ovviamente appositamente pagato.  Come se non bastasse non è capace di tenere addosso un microfono e si ostina a parlare con il microfono manuale, anche durante le televendite (ma cos’è? è allergica?); nelle scorse edizioni di C’è posta per te, poi, ha provato perfino a ballare, raggiungendo dei risultati che farebbero incazzare anche il più cane dei ballerini. Ricerche recenti devono ancora stabilire chiaramente il suo sesso biologico.



     Sono veramente sfiduciato! Davvero c’è rimasto ben poco da vedere in TV. Per fortuna, infatti, qualcosa di buono si conserva. Apprezzo molto il lavoro di Piero e Alberto Angela, per esempio, come ho già avuto modo di dire sul questo blog, per i loro programmi di vera cultura come Super Quark, Ulisse, Passaggio a nord-ovest; ma anche quello di Milena Gabanelli, nonché Riccardo Iacona che col suo Presa diretta fa veramente un buon lavoro nell’informare la gente del vero paese che un’altra TV si preoccupa di nascondere. Credo che occorra veramente stare attenti nell’usare questo strumento e che occorra affinare parecchio il proprio spirito critico, se non si vuole essere plagiati o comunque diseducati al bello e al buono.

domenica 23 ottobre 2011

Tagli alla scorta per i magistrati: la denuncia dei PM di Napoli


     Le ultime novità dal settore Magistratura sono di quelle che mettono paura per la troppo facile prevedibilità dei loro effetti. Dal 6 ottobre la Procura di Napoli si ritrova impossibilitata a pagare gli autisti che con le auto blindate fungevano da scorta per i magistrati che si occupano di camorra. Nell’attuale governo, dove la regola è il taglio ai finanziamenti, sentir dire che non ci sono fondi è diventata ormai routine, ma limitare la scorta alla magistratura che combatte per far processare la malavita organizzata è cosa che riesce a sorprendere lo stesso.
Nitto Francesco Palma, attuale ministro della Giustizia.
     La notizia viene dalle alte sfere: precisamente dal Ministero della Giustizia, attualmente guidato da Nitto Francesco Palma, PDL, che dallo scorso 27 luglio sostituisce Angelino Alfano nella gestione del dicastero. Palma ha dimostrato di adattarsi bene alle esigenze di tagli promossa dal governo e adesso, secondo il comunicato, 17 magistrati partenopei si ritrovano senza scorta tutte le domeniche e tutti gli altri giorni dalle ore 18 in poi. Come se la camorra avesse orari preferenziali per attentare alla vita dei magistrati; come se i camorristi avessero un orario di chiusura, oltre il quale non esercitano; tutti sanno che non ci vuole niente ad ammazzare qualcuno: Falcone e Borsellino saltarono in aria in una frazione di secondo e Dalla Chiesa si ritrovò trivellato di proiettili proprio nella sua auto prima che avesse il tempo di capirlo. E loro, che erano di grande rinomanza, avevano fior fior di agenti di scorta!
     La cosa è anzi tanto più grave proprio perché i periodi in cui i magistrati si ritrovano senza protezione sono proprio quelli fuori dall’orario di lavoro, cioè quelli in cui sono più a contatto con la loro famiglia e con i propri conoscenti. Quelli, insomma, in cui sono più vulnerabili. Nella circolare ministeriale viene detto che se una procura finisce i fondi annui, il Ministero non erogherà finanziamenti… e se la macchina della Giustizia si blocca poco importa. Ci sono i tagli da fare. Fino alla fine dell’anno, quindi, questi magistrati di Napoli dovranno pensarci due volte prima di scendere da casa, per esempio, per fare la spesa, o per andare dal medico, oltre le 18, perché sanno che saranno senza protezione e potranno essere uccisi molto più comodamente; se la domenica vorranno passare del tempo con la propria famiglia, sanno che rischieranno la vita assieme alle proprie mogli e ai propri figli, perché saranno completamente scoperti.
     È chiaro che chi rischia di più merita più protezione, tanto più se si tratta di funzionari dello stato che agiscono nell’interesse della collettività. E i magistrati antimafia e anticamorra non rischiano solo finché se ne stanno in ufficio, ma sempre, in ogni momento della giornata; e assieme a essi sono continuamente esposti a pericoli anche i loro cari. Nel caso presente, tra i magistrati colpiti da questa novità c’è anche chi è completamente assorbito nella lotta contro il clan dei Casalesi. È il caso di Catello Maresca, per esempio, PM della Dda, Direzione distrettuale antimafia, impegnato nelle indagini per scovare il latitante Michele Zagaria, e che il prossimo mercoledì presiederà in aula per cercare di far condannare il boss detto ’O Cecato, assieme ad altri 34 imputati con vari capi d’accusa.
     E proprio di Maresca è il caso di ascoltare questo stralcio di intervista pubblicato su L’Espresso, in cui il PM parla dell’effetto che la cosa sta avendo sulla sua vita e sulla Magistratura in generale.


     Eppure allo stesso Ministro Palma – che, ricordiamolo, 10 anni fa fu tra i più strenui sostenitori dell’immunità parlamentare – tutta questa preoccupazione sembra esagerata, al punto che non ha voluto perdere occasione di illuminare i magistrati brontoloni: «All’epoca mia le uniche manifestazioni di questo genere avvenivano in presenza di fatti molto gravi: penso al mese di protesta che venne fatto alla Procura di Roma dopo l’assassinio di Mario amato». Il che equivale a dire che un magistrato senza scorta non è un fatto grave; il che equivale a dire “Potrete lamentarvi quando cominceranno a uccidervi sul serio”. Intanto i magistrati si ritrovano limitati fin nella loro sfera più personale e quotidiana e questo si ripercuote anche sul lavoro, perché le indagini subiranno inevitabilmente un rallentamento; e, con uno spirito di iniziativa tipicamente partenopeo, hanno già cominciato a rimboccarsi le maniche… chiedendo il permesso di guidare da soli le auto blindate!

sabato 8 ottobre 2011

Da cellula epatica a cellula nervosa in un solo colpo: la ricerca dell’italiano Marro alla Stanford University sulla transdifferenziazione cellulare


     Una eccezionale scoperta per le neuroscienze e per la biologia cellulare viene dalla Facoltà di Medicina della Stanford University: uno studio condotto sul tessuto epatico di topi ha portato alla trasformazione di cellule del fegato in cellule del sistema nervoso senza passare per lo stadio di cellule staminali pluripotenti. Lo studio, guidato dall’italiano Samuele Marro, PhD, è di fondamentale importanza per le applicazioni terapeutiche e di ricerca in cui è necessario trovare nuove cellule nervose.
Samuele Marro, ricercatore alla
Stanford University.
     Le cellule nervose, dette neuroni, sono le cellule dei nostri nervi, del nostro midollo spinale e del nostro cervello e in molte ricerche è essenziale poterle studiare, poiché sono tra le più difficili da osservare; inoltre in molte malattie neurodegenerative i neuroni vengono compromessi fisicamente. Una ricerca che quindi permetta di procurarsi questo tipo di cellule è di importanza vitale per curare disturbi come il morbo di Parkinson, in cui risultano compromessi dei neuroni detti dopaminergici.
     La ricerca del dottor Marro è il prosieguo di una precedente ricerca guidata da Marius Wernig, PhD e MD, in cui si scoprì che dei fibroblasti tegumentari di topo, cellule che producono proteine della pelle, potevano diventare neuroni. La ricerca è proseguita con lo studio di Marro, che presenta però delle differenze importantissime.
     Ma andiamo con ordine. All’inizio dello sviluppo le cellule sono tutte uguali e tutte hanno la stessa possibilità di trasformarsi in un qualunque altro tipo cellulare del corpo: queste cellule indifferenziate sono le cellule staminali pluripotenti. Una staminale pluripotente, per esempio, può diventare un cardiocita (cellula del cuore) o un osteocita (cellula ossea) o un epatocita (cellula del fegato) e questa trasformazione avviene grazie a delle proteine e fattori di crescita con cui le cellule vengono a contatto: l’effetto di questa interazione tra molecole e cellule indifferenziate fa sì che solo una parte del DNA (i geni) di queste cellule cominci a funzionare e che quindi quella cellula produca le proteine adatte a diventare solo un particolare tipo cellulare.
     È infatti il DNA a contenere le informazioni per produrre tutto ciò che a una cellula serve per trasformarsi in ciò che deve diventare. Cosa importante: ogni cellula del nostro corpo dotata di DNA contiene tutte le informazioni per potersi trasformare in ogni altro tipo cellulare. Ad esempio, una cellula di un rene, anche se si è già differenziata in una cellula ben precisa, ha dentro di sé le informazioni per poter diventare anche cellula intestinale o cellula dell’occhio o ancora cellula di un polmone, che ovviamente sono cellule che hanno caratteristiche diverse. Il fatto che in una cellula si attivino le informazioni genetiche per diventare una cellula di tipo X non significa che essa abbia solo informazioni X, ma che usi solo quelle informazioni, senza usare tutte le altre, che comunque possiede. Quindi tutte le cellule hanno lo stesso genoma, ma ogni tipo cellulare ne usa una parte diversa. Queste informazioni genomiche sono appunto i geni, che non sono altro che pezzi di DNA.

Confronto tra una cellula del fegato (a sinistra) e una cellula nervosa (a destra):
si noti la grande diversità strutturale tra i due tipi cellulari, che si riflette in una
diversità funzionale abissale.

     Esiste quindi una scala nell’evoluzione cellulare: il punto di partenza è quello di staminali e poi, attraverso passaggi e stadi successivi, una cellula matura sempre di più fino a diventare cellula differenziata, ad esempio, del pancreas. Normalmente è possibile trasformare una cellula differenziata (diciamo di tipo A) in una cellula differenziata di tipo diverso (diciamo di tipo B), ma per farlo la si deve riportare al punto di partenza di staminale e farle ricominciare il percorso da capo: ovvero il percorso sarebbe “tipo A-staminale-tipo B. Invece nella ricerca di Marro delle cellule epatiche (del fegato) sono state portate direttamente a diventare neuroni, senza passaggi intermedi. Questo ha fatto risparmiare tempo, risorse e rischi legati alle mutazioni genetiche. Precisamente, le cellule epatiche hanno cominciato a diminuire la produzione delle loro proteine (e questo processo è conosciuto come down regulation, sottoregolazione) e a produrne altre, perché i geni che li rendevano cellule epatiche sono stati resi “silenti”, ovvero non sono stati più usati.
     Marro ha fatto iniettare tramite virus innocui (i virus sono spesso usati come vettori, cioè come trasportatori, nell’ingegneria genetica) in cellule epatiche di topo tre proteine, dette Drn2, Ascl1 e Myt1l: queste proteine si sono legate al DNA delle cellule epatiche, hanno attivato quei geni che funzionano nei neuroni (e che non funzionano nelle cellule epatiche) e hanno cominciato a far produrre alle cellule epatiche le proteine che invece i neuroni producono. Il risultato è stato che in tre settimane le cellule epatiche hanno cominciato a diventare cellule nervose, funzionando proprio come fanno i neuroni.
Schema che mostra due dei tre tessuti embrionali: in blu
l'ectoderma, da cui si sviluppano la pelle e il sistema nervoso;
in giallo l'endoderma, da cui discendono gli organi viscerali,
come il fegato.
     I neuroni così prodotti, chiamati neuroni indotti, si sono “integrati” con altri neuroni dimostrando di poter essere impiantati in un tessuto nervoso. Si tratta del primo caso nella storia della biologia in cui una trasformazione da un tipo cellulare all’altro avviene senza passare per lo stato primordiale di staminale. Ma questo non è il solo motivo per cui questa ricerca è degna di nota: non è un caso, infatti, che le cellule usate in questa ricerca siano cellule del fegato, mentre quelle usate nella ricerca di Wernig erano fibroblasti della pelle. La pelle, infatti, deriva dallo stesso tessuto embrionale da cui deriva anche il sistema nervoso, l’ectoderma, e cellule di uno stesso tessuto hanno più cose in comune tra loro; mentre le cellule del fegato derivano da un tessuto embrionale diverso, detto endoderma: quindi cellule del fegato e cellule nervose sono ancora più diverse tra loro rispetto a quanto lo siano cellule della pelle e cellule nervose.
     In parole povere, le cellule della ricerca di Marro sono ancora più dissimili tra loro delle cellule della ricerca di Wernig: il fatto che cellule provenienti addirittura da tessuti embrionali diversi si siano trasformate le une nelle altre (studio di Marro) è una maggiore riprova del fatto che la trasformazione è vera, proprio perché è una trasformazione più difficile da realizzare.
     Inoltre le cellule epatiche hanno caratteristiche e proprietà molto meglio definite dei fibroblasti e si trovano in un solo organo del corpo; invece, i fibroblasti sono presenti anche altrove e sono definite meno dettagliatamente. Questo rende il confronto più misurabile e più gestibile.
     La frontiera aperta da questa transdifferenziazione – questo il termine tecnico per indicare questo passaggio cellulare – è senza pari e, se portata avanti nella maniera giusta, può aprire la strada a numerosi metodi di studio e terapeutici per quelle malattia neurologiche e neuropsicologiche in cui i neuroni sono colpiti in prima persona.

venerdì 7 ottobre 2011

Latine loquimur, n. 3

     Sono lieto di propinarvi la mia dose di latinità anche questo mese.
     Nota: la pronuncia scolastica è quella usata (e insegnata) in Italia; la pronuncia restituita è quella che, secondo le ricostruzioni, veniva realmente usata dai Romani.

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Ante litteram
[pronuncia scolastica: ante lìtteram]
[pronuncia restituita: ante lìtteram]

     L’ambito in cui è nata questa espressione è quello editoriale: ante litteram vuol dire letteralmente “prima della lettera”, dove il “prima” è inteso in senso cronologico e la “lettera” sta per “didascalia”; il riferimento è infatti alle prove di stampa che, proprio in quanto tali, non hanno ancora la didascalia. Una stampa fatta senza quella didascalia è quindi detta ante litteram. Tuttavia l’espressione è passata ad indicare, in senso figurato, quei personaggi (filosofi, artisti, poeti, scienziati) che per l’originalità del loro pensiero rispetto ai tempi anticipano i principi e le caratteristiche di movimenti culturali, storici, artistici di periodi successivi a essi. Per esempio, il poeta Petrarca innovò moltissimo il contenuto della poesia che era in voga ai suoi tempi, anticipando temi che sarebbero stati tipici di un movimento culturale successivo, l’umanesimo: possiamo dire quindi che Petrarca è stato un umanista ante litteram.


Pro captu lectoris habent sua fata libelli
[pronuncia scolastica: pro captu lectòris abent sua fata libèlli]
[pronuncia restituita: pro captu lectòris habent sua fata libèlli]

     La frase risale a Terenziano Mauro, grammatico romano del II secolo d.C.: si tratta del verso 1286 del suo trattato De litteris, De syllabis, De metris (Sulla letteratura, Sulle sillabe, Sui metri), in quattro libri, di cui solo tre si sono conservati, e significa “A seconda dell’intelligenza del lettore i libri hanno il loro destino”. Il termine captu deriva da captus, a sua volta discendente dal verbo capio, che vuol dire “io prendo”, “io afferro” ed è quindi l’afferrare, il saper cogliere, ovvero il comprendonio, l’intelligenza appunto: intuizione felicissima di Terenziano che assume validità del tutto universale. Come si fa a dire che un libro è bello o brutto se non c’è un pubblico che lo giudichi? Ogni scrittore vive il dramma dell’impatto con il lettore: è questo a determinare la fama della sua opera. La Divina Commedia di Dante Alighieri non sarebbe valsa un soldo bucato se non ci fosse mai stato un pubblico capace di apprezzarla! Numerosi sono gli aneddoti nel mondo della letteratura di libri divenuti famosi in maniera tardiva o addirittura dopo la morte dei loro autori, poiché all’epoca delle pubblicazioni nessuno era in grado di accoglierli. Quando Italo Svevo cominciò a pubblicare, critica e pubblico italiani lo snobbarono alla grande; così come famoso è il caso della Recherche di Marcel Proust, che André Gide si rifiutò di pubblicare ma che procurò allo scrittore grande fama (errore che Gide non si perdonò mai); anche il Petrarca credeva e sperava di diventar famoso grazie al suo poema in latino Africa, che oggi i più neanche conoscono, e passò alla storia piuttosto grazie al suo Canzoniere.


Si parva licet componere magnis
[pronuncia scolastica: si parva licet compònere magnis]
[pronuncia restituita: si parva lichet compònere maghnis]

     Celeberrimo verso del poeta Virgilio (Andes, 15 ottobre 70 a.C. – Brindisi, 21 settembre 19 a.C.). Siamo nelle Georgiche, libro IV, verso 176: Virgilio mette a confronto il meticoloso lavoro delle api con quello dei Ciclopi e, rendendosi conto della sproporzione del confronto, quasi si scusa col lettore per l’esagerazione e dice “se è lecito paragonare le cose piccole a quelle grandi”. Il verbo licet ha il preciso significato di “essere concesso”, “essere permesso”, “essere lecito”. Il verso viene usato ogni volta che si vuole giustificare una messa a confronto tra due cose che tra loro sono molti (se non troppo) dissimili, come quando ci rendiamo conto di avere in comune qualcosa con un grande personaggio e, nel dirlo agli altri, aggiungiamo si parva licet componere magnis, come a dire «se mi concedete di fare questo paragone azzardato». In termini più tecnici questo è un espediente retorico chiamato excusatio, “scusa”, e serve a far accettare all’interlocutore, col pretesto dell’umiltà, un paragone che normalmente non sarebbe stato accettato.