mercoledì 9 novembre 2011

Scripta manent, n. 11 - L’exul immeritus


     Nel 1302 il Sommo Poeta Dante Alighieri, da tempo entrato in politica e sostenitore di tesi scomode per l’attuale governo fiorentino, veniva condannato in contumacia all’esilio con ben due sentenze grazie a una lurida trappola politica organizzata dal papa Bonifacio VIII e dall’allora podestà di Firenze Cante Gabrielli. Con la condanna, piovuta addosso all’improvviso e senza che potesse fare nulla, Dante non potette mai più ritornare in patria, quella patria che gli aveva fatto tanto male e che gli aveva procurato tante ingiustizie, ma che egli, nonostante tutto, amava pur nel suo disprezzo. Nel giorno 19 maggio1315, dopo 12 anni di peregrinazioni passati a elemosinare ospitalità e riparo in giro per l’Italia, il Comune di Firenze approva un’amnistia per coloro che erano stati esiliati o carcerati negli anni addietro, nessuno escluso. Il Poeta viene prontamente informato e riceve diverse lettere, di cui una da uno sconosciuto “amico fiorentino” che egli chiama pater (padre), forse poiché si tratta di un religioso avente legami con la famiglia di Dante (alcuni pensano al nipote Niccolò di Fusino di Manetto Donati, figlio di un fratello di Gemma Donati, moglie del Poeta); nelle lettere Dante è avvisato che i condannati negli anni precedenti sarebbero potuti ritornare a Firenze, ma alle seguenti condizioni: i “colpevoli” avrebbero dovuto pagare una multa e, il giorno 24 giugno, in occasione della festa del patrono di Firenze, avrebbero compiuto un tragitto in processione dal carcere fino al Battistero di San Giovanni, a piedi scalzi, vestiti con un sacco e con in testa una mitra fatta di carta su cui sarebbe stato scritto il reato che avevano compiuto; in una mano avrebbero portato un cero acceso, nell’altra una borsa piena di denaro; se al momento dell’emanazione del provvedimento i rei non erano in carcere (come Dante), avrebbero dovuto simbolicamente toccare col piede la soglia del carcere e presentarsi al tempio, senza la mitra in testa.
     Dante sa bene di essere innocente e che il suo esilio è frutto di una macchinazione fatta per allontanarlo da Firenze al fine di evitare che persone come lui potessero ostacolare il programma dei guelfi neri. Egli è un exul immeritus, un esule che non meritava l’esilio… Tuttavia, vuole anche ritornare a casa: è stanco di girovagare per la penisola, nella disonorevole condizione di apolide, lontano dalla famiglia, senza una casa sua e privato dei suoi affetti. La sola strada che gli viene proposta è affrontare la vergogna e chiedere scusa davanti a tutti per una colpa mai commessa. Il Poeta deve decidere e non ci pensa due volte: rifiuta! Mai un uomo come lui si sarebbe sporcato la dignità a scendere a patti così vili: non avrebbe fatto come Ciolo degli Abati, condannato nel 1291 contumace proprio come Dante, ma che a differenza del Poeta fu assolto proprio grazie a un’amnistia simile a questa.
     Decide di rispondere a questo amico comunicandogli la sua decisione in una lettera. Si tratta della prima lettera che lessi di Dante al Liceo e fu quella che mi fece innamorare del Dante uomo. L’incredibile dedizione ai propri valori, difesi così strenuamente, esercitarono su di me un enorme fascino! La lettera, conosciuta come Epistula XII, scritta in latino, è nota solo grazie a Giovanni Boccaccio che la riportò nel più antico codice epistolario di Dante, noto come Zibaldone Laurenziano (perché conservato nella Biblioteca Medicea Laurenziana a Firenze) in cui sono scritte anche le Egloghe del Sommo Poeta. Ecco come Dante Alighieri rispondeva alla proposta dei suoi avversari…

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[All’amico fiorentino]

     Nelle vostre lettere ricevute con la debita riverenza e affetto, ho con animo riconoscente e con diligente attenzione appreso quanto vi stia a cuore il mio ritorno in patria; e quindi tanto più strettamente mi avete obbligato, quanto più raramente agli esuli accade di trovare amici. In particolare richiedo affettuosamente che la mia risposta al comunicato di quelli sia vagliata sotto il vostro parere, prima che sia giudicata, anche se forse non sarà quale la pusillanimità di qualcuno vorrebbe.
     Ecco dunque ciò che per mezzo delle lettere vostre e di mio nipote e di parecchi altri amici mi fu comunicato per mezzo del decreto da poco emanato in Firenze riguardo l’assoluzione dei banditi: che se volessi pagare una certa quantità di denaro e volessi sopportare la vergogna dell’offerta, potrei essere assolto e rientrare con effetto immediato. In verità nella comunicazione ci sono, o padre, due cose degne di derisione e mal consigliate; dico mal consigliate a causa di coloro che hanno esposto tali cose, infatti le vostre lettere redatte con più discrezione e con più meditazione non contenevano nulla di tutto ciò.
     È dunque questa l’assoluzione concessa con la quale è richiamato in patria Dante Alighieri, che per quasi tre lustri ha patito l’esilio? Questo ha meritato un’innocenza nota a tutti? Questo ha meritato il sudore e la fatica ininterrotta nello studio? Sia lontana da un uomo imparentato alla filosofia una bassezza d’animo tanto sconsiderata da sopportare di consegnarsi quasi fosse un galeotto, a mo’ di un Ciolo qualunque e di altri infami! Sia lontano da un uomo che predica la giustizia che, dopo aver patito fior fior di offese, paghi il suo denaro a quelli stessi che l’hanno offeso, come se lo meritassero!
     Non è questa la via del ritorno in patria, padre mio; ma se prima o poi per mezzo di voi o di altri ne verrà trovata un’altra che non deroghi alla fama e all’onore di Dante, quella accetterò a passi svelti; di conseguenza se per nessuna tale via s’entra a Firenze, a Firenze non entrerò mai. E perché no? Non ammirerò forse dovunque l’immagine del sole e delle stelle? Non potrò forse indagare le dolcissime verità dovunque sotto il cielo, a meno che prima non mi restituisca disonorato e ignominioso all’infimo popolo e alla città di Firenze? Né di certo mi mancherà il pane.

Dante Alighieri, Epistulae, XII



     La versione originale della lettera, così come fu scritta da Dante.

[Amico Florentino]

     In litteris vestris et reverentia debita et affectione receptis, quam repatriatio mea cure sit vobis et animo, grata mente ac diligenti animadversione concepi; et inde tanto me districtuis obligastis, quantum rarium exules invenire amicos contingit. Ad illarum vero significata responsio, etsi non erit qualem forsan pusillanimitas appeteret aliquorum, ut sub examine vestri consilii ante iudicium ventiletur, affectuose deposco.
     Ecce igitur quod per litteras vestras meique nepotis nec non aliorum quamplurium amicorum, significatum est michi per ordinamentum nuper factum Florentie super absolutione bannitorum quod si solvere vellem certam pecunie quantitatem vellemque pati notam oblationis, et absolvi possem et redire ad presens. In qua quidem duo ridenda et male preconsiliata sunt, pater; dico male preconsiliata per illos qui talia expresserunt, nam vestre littere discretius et consultius clausulate nichil de talibus continebant.
     Estne ista revocatio gratiosa qua Dantes Alagherii revocatur ad patriam, per trilustrium fere perpessus exilium? Hocne meruit innocentia manifesta quibuslibet? hoc sudor et labor continuatus in studio? Absit a viro phylosophie domestico temeraria tantum cordis humilitas, ut more cuiusdam Cioli et aliorum infamium quasi vinctus ipse se patiatur offerri! Absit a viro predicante iustitiam ut perpessus iniurias, iniuriam inferentibus, velut benemerentibus, pecuniam suam solvat!
     Non est hec via redeundi ad patriam, pater mi; sed si alia per vos ante aut deinde per alios invenitur que fame Dantisque honori non deroget, illam non lentis passibus acceptabo; quod si per nullam talem Florentia introitur, numquam Florentia introibo. Quidni? nonne solis astrorumque specula ubique conspiciam? nonne dulcissimas veritates potero speculari ubique sub celo, ni prius inglorium ymo ignominiosium populo florentineque civitati me reddam? Quippe nec panis deficiet.

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