giovedì 15 novembre 2012

Latine loquimur, n. 8


     Tutto preso da temi di cronaca politica, ho trascurato la rubrica Latine loquimur. Ecco subito tre massime per rimediare!
     Nota: la pronuncia scolastica è quella usata (e insegnata) in Italia; la pronuncia restituita è quella che, secondo le ricostruzioni, veniva realmente usata dai Romani.

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Cicero pro domo sua
[pronuncia scolastica: Cìcero pro domo sua]
[pronuncia restituita: Chìchero pro domo sua]

     Letteralmente significa “Cicerone a favore della sua casa”, intendendo proprio la casa come edificio. L’aneddoto è ben noto: il celebre senatore e avvocato Cicerone era riuscito a far condannare Catilina e i suoi complici dopo la famosa congiura, ma gli avversari politici di Cicerone riuscirono a vendicarsi approvando una legge che mandava in esilio chiunque avesse fatto condannare un cittadino romano senza concedergli l’appello al popolo (ciò che Cicerone aveva appunto fatto con Catilina). Cicerone va in esilio a Salonicco, ma quando torna la sua casa sul colle Palatino non c’è più: il tribuno della plebe Publio Clodio, che aveva fatto appunto approvare quella legge, l’ha fatta radere al suolo e al suo posto ha fatto costruire una statua alla dea Libertas.
     Cicerone non ci pensa due volte: nel 57 a.C. si appella al collegio dei pontefici e fa subito un’arringa, intitolata De domo sua ad Pontifices (“Riguardo la propria casa ai pontefici”), in cui riesce a dimostrare l’illegittimità della legge e a farsi ricostruire la casa a spese dello stato.
     L’espressione è usata per indicare quelle persone che difendono con convinzione e con zelo la propria causa, un proprio interesse, anche al di fuori dell’ambito giurisdizionale. Nell’ambito di una discussione, di una disputa, di un litigio, chiunque si impegni per difendere la sua tesi è un “Cicerone a favore della sua casa”. L’espressione viene usata anche in senso dispregiativo, per indicare quegli amministratori e quei politici che intendono nascondere pubblicamente le proprie mosse fatte con l’esplicito scopo di lucrare illecitamente a danno della collettività.


Corruptissima re publica plurimae leges
[pronuncia scolastica: corruptìssima re pùblica plùrime leges]
[pronuncia restituita: corruptìssima re pùblica plùrimae leghes]

     “Quando lo stato è molto corrotto” (corruptissima re publica) le leggi [sono] tantissime (plurimae leges), col verbo “essere” sottinteso, come spesso avviene in latino. Un proverbio pieno di verità che fornisce un eccellente criterio per giudicare il livello di corruzione di un paese. Quando infatti la corruzione dilaga e si delinque in molti modi, è anche perché chi sta ai vertici del potere ha interesse che questo venga fatto e resti impunito; quindi, invece di combattere il problema agendo concretamente con indagini, controlli, arresti, ci si limita a far finta di disincentivare i reati aggiungendo leggi su leggi, commi su commi, rimpinzando i codici di emendamenti che inaspriscono le pene senza però estinguere i reati.
     L’Italia in queste cose è un esempio perfetto in questo momento: montagne di articoli e norme, molte delle quali si contraddicono l’un l’altra, risultano ben poco efficaci per contrastare la corruzione. Appena si fa una norma, subito si trova il modo di aggirarla e compiere lo stesso reato in un altro modo; allora si finge di rimediare facendo un’altra norma che impedisca questo, ma le scappatoie continuano ad esserci. Un esempio a caso: fino al 1993 per i partiti politici erano previsti dei finanziamenti con denaro pubblico; in quello stesso anno un referendum abrogativo impediva questo finanziamento pubblico, ma i parlamentari non si persero d’animo: giacché il “finanziamento” era stato abolito introdussero il “rimborso elettorale”, in pratica i soldi entravano lo stesso ma si chiamavano con un altro nome. Non a caso proprio in questo periodo si stanno raccogliendo firme proprio per impedire anche questa forma di introiti di fondi pubblici ai partiti. Chissà cosa si inventeranno se il prossimo referendum dovesse abolire anche questo!


Pecunia non olet
[pronuncia scolastica: pecùnia non olet]
[pronuncia restituita: pecùnia non olet]

     Vogliono le cronache storiche di Svetonio (De vita Caesarum, VIII, 23, 3) e Cassio Dione Cocceiano (Historia Romana, LXV, 14, 5) che quando l’imperatore Vespasiano mise una tassa sull’urina raccolta dagli orinatoi pubblici, detta centesima venalium, prevedeva grosse entrate di denaro nelle casse dello stato. L’urina infatti veniva usata per molti scopi nell’età antica: solo le lavanderie ne usavano tantissima per lavare gli abiti, sfruttando, senza saperlo, l’ammoniaca che essa contiene; e anche i conciatori di pelli ne facevano largo uso, rendendola un vero e proprio business. Il figlio di Vespasiano, Tito, restò perplesso da questa forma di tassazione un po’ imbarazzante e rimproverò il padre per quella sua scelta di cattivo gusto. Vuole allora la cronaca svetoniana (e cito letteralmente) che Vespasiano portò «sotto il naso [a Tito] il denaro proveniente dalla prima riscossione, chiedendogli se fosse infastidito dall’odore; e quando quello disse di no, lui rispose: “Eppure viene dal piscio”». “I soldi non puzzano”, pecunia non olet, dunque: come a dire che il denaro è denaro! La frase viene quindi usata per giustificare (a volte cinicamente) il modo poco ortodosso con cui ci si procura soldi, con la scusa che la provenienza del denaro non ha importanza davanti al fine con cui lo si vuole usare.

lunedì 5 novembre 2012

Quando lo Stato uccide: storia di un precario che si toglie la vita


     Dopo l’arrivo “ufficiale” della crisi, ovvero quando il governo Berlusconi non ha potuto più nasconderlo agli italiani a causa degli effetti sempre più forti che essa produceva, l’insediamento del governo Monti ha rappresentato per l’Italia l’esordio della tagliola dell’austerità, la politica del rigore, come la chiamano oggi, con una dicitura che fa raggelare il sangue. Gli effetti di questa politica completamente dimentica dei valori della democrazia e dei reali bisogni delle persone sono arrivati a produrre di tutto: povertà, paura, licenziamenti, calo del potere d’acquisto, fallimenti… e suicidi!
     Il 2012 si è aperto, come tutti ricorderemo, con una serie di eventi luttuosi in cui decine di imprenditori onesti si sono visti costretti a togliersi la vita (qualcuno l’ha fatto dopo aver prima pagato tutti i debiti). E ora, purtroppo, la storia di ripete. Ma a rinunciare alla vita non è stato un “ricco” imprenditore, bensì un precario.

Carmine Cerbera
     Il suo nome è Carmine Cerbera, docente di Storia dell’Arte formatosi all’Accademia della Belle Arti di Napoli. Carmine era precario da anni: grazie alla soppressione del mercato del lavoro doveva accontentarsi di incarichi parziali e temporanei, quando capitavano. Ma dopo l’ennesimo provvedimento del ministro Profumo, che ha portato le ore settimanali di insegnamento da 18 a 24, senza aumento di stipendio, Carmine ha perso le speranze: perché aumentare di un terzo le ore di lezione per chi è già assunto significa poter fare a meno di un terzo di quelli che non sono assunti. Traduzione: migliaia di precari non sarebbero stati assunti più, neanche in via temporanea. Lo stesso Carmine, che appena pochi giorni fa, il 22 ottobre 2012, aveva conseguito la Laurea Specialistica, proprio per aumentare la completezza della sua formazione e poter così “competere” (che termine disumano) meglio nel mercato del lavoro, ha commentato la cosa sulla sua bacheca di Facebook: «Oggi dovrei essere gioioso perché ho conseguito la laurea specialistica ma sono triste perché il ministro Profumo ci sta distruggendo il futuro... siamo precari a vita ammettendo di essere fortunati».

     Un uomo che non si voleva dare per vinto, quindi, che voleva giocarsi fino all’ultima carta. Carmine però viveva con la consapevolezza che il precariato è una cosa voluta e calcolata, una cosa fatta apposta, non un imprevisto; Carmine sapeva bene che non erano le cattedre a mancare (altrimenti perché il MIUR stipulerebbe tutte quelle decine di migliaia di contratti a tempo indeterminato ogni anno?); Carmine viveva in un mondo dove le uniche persone che potevano dargli la capacità di immaginarsi un futuro gliela toglievano ogni giorno, con una nuova decisione “austera”. E quindi si sentiva impotente, condannato, come uno che davanti a sé ha solo la certezza del peggio. Chi vive così non scappa dalla depressione… e se non riesce a vivere neanche quella, la strada che gli resta è una sola: la morte.

     E io me lo immagino, Carmine Cerbera, quel giorno, il giorno dei morti (scelta voluta o curiosa coincidenza?), entrare in bagno, afferrare il coltello con cui tagliava le sue tele, proprio “quel” coltello, quello con cui esprimeva il suo lavoro, avvicinarlo alla gola, esitare qualche istante, magari chiudendo gli occhi, prendere un respiro, l’ultimo respiro, quello del coraggio, e conficcarlo di netto nella carne.

     Così è stato ritrovato il suo corpo, bagnato nel suo sangue.

     Ma il suicidio di Carmine non è un semplice atto di disperazione, che riguarda solo lui e basta. Carmine è stato ucciso. Il suo assassino è lo Stato. Non lo Stato come istituzione (in cui bisogna credere!), ma “questo” Stato, che con il suo operato lo ha indotto a non vedere altra via d’uscita. Sul web si è subito cominciato a parlare di omicidio di Stato. E secondo me il termine si adatta benissimo al caso presente. E indignazione a parte, la cosa è molto più letterale di quanto sembri: la legge italiana riconosce questo tipo di reato nel codice penale sotto la dicitura “Istigazione o aiuto al suicidio”:

«Chiunque determina altri al suicidio o rafforza l'altrui proposito di suicidio, ovvero ne agevola in qualsiasi modo l'esecuzione, è punito, se il suicidio avviene, con la reclusione da cinque a dodici anni.»
 
(Codice penale, art. 580, comma 1)

     Lo Stato colpevole di omicidio, dunque. Lo Stato che uccide. Lo Stato che non si limita a chiedere favori alla Mafia, che non si limita a far entrare i mafiosi in politica, che fa uccidere i magistrati che vogliono far conoscere la verità… ma che va oltre e ammazza anche senza armi e senza mandanti, con una forma più sottile, più subdola, più vile: inducendo al suicidio.

     Carmine aveva 48 anni; morendo, lascia una moglie e due bambine, anche loro senza futuro oltre che senza padre. Ma l’omicidio di Stato di Carmine non susciterà di certo alcun senso di colpa negli autori di questo scempio. Ha richiamato, invece, l’attenzione dei suoi colleghi, precari e non, che si sono mobilitati con un sit in a Roma, davanti al Ministero dell’Istruzione. Gli striscioni recitano «Il precariato uccide», «Di precarietà si muore!» e «Ciao Carmine, continueremo la lotta anche per te!». Parole di sdegno che si intingono nella rabbia della gente e nell’indifferenza di chi non sa governare.

     Vergogna!