domenica 3 dicembre 2017

“Come si scrive?”: guida completa agli errori della lingua italiana

     «Venghi, ragioniere, si segghi!», diceva Fantozzi al collega Filini, usando un congiuntivo esortativo non proprio corretto. Il nostro Fantozzi, però, era fermamente convinto che tutti i congiuntivi alla terza persona singolare terminassero in -i perché così avviene per i verbi di prima coniugazione (amare > che egli ami; cantare > che egli canti...) e in buona fede estendeva la regola anche alle altre coniugazioni. E il pubblico sorrideva.

     Chi scrive in ambito scolastico, lavorativo, o semplicemente chi deve compilare documenti per le normali attività burocratiche che affollano il quotidiano non gode però della licenza di Fantozzi & Co. e deve quindi padroneggiare bene la lingua italiana, conoscendo le sue “insidie”, in modo da saperle evitare e scongiurare il rischio di brutte figure. 

     La scrittura è infatti un biglietto da visita molto importante, soprattutto quando la usiamo con chi non ci conosce.
     Le righe che seguono costituiscono una vera e propria raccolta che elenca i più frequenti dubbi ed errori commessi da chi scrive in italiano: va intesa più come una guida da consultare che come un articolo da leggere, in quanto vi troverete cosa è lecito e cosa è vietato e anche le ragioni per cui si debba o non si debba fare qualcosa.

     A causa dell’intento “enciclopedico” del post ritengo opportuno premettere un piccolo indice con gli argomenti numerati, così che si possa più agevolmente trovare quello che interessa o ritrovarlo in caso di nuova consultazione.

INDICE
Premessa importante: accenti ed apostrofi 
1. Errori con accenti e apostrofi 
1.1. Un po’ o un pò
1.2. Be’ o beh 
   1.3. Piè o pie’
   1.4. Qual è o qual’è
   1.5. Tal azione o tal’azione
   1.6. Qui, qua, ,  
   1.7. C’è o ce
   1.8. Non c’entra o non centra
   1.9. Altre espressioni con l’apostrofo 
   1.10. Accento, apostrofo o niente? 
2. Errori con gli articoli 
   2.1. Il pneumatico o lo pneumatico? Uso di lo e gli 
   2.2. Un’idea o un idea? Uso di un e un’ 
3. Errori con le doppie 
   3.1. C, Q, CQ, o QQ? 
   3.2. Accelerare o accellerare
   3.3. Contrapasso o contrappasso
   3.4. Stazione o stazzione
   3.5. Stagione o staggione
3.6. Stabile o stabbile
4. Con la H o senza H? 
5. Sognamo o sogniamo? La 1° persona plurale con la I 
6. Egli o lui? Ella o lei
7. Gli dico o le dico
8. Se avessi o se avrei? L’eterno dilemma 
9. Ha piovuto o è piovuto? L’ausiliare dei verbi atmosferici 
10. Meglio o migliore? Peggio o peggiore
11. Ridondanze 
   11.1. Ma però 
   11.2. A me mi 
   11.3. Scendi giù e sali su 
   11.4. Puntini sospensivi: quanti sono? 
   11.5. Troppi punti esclamativi o interrogativi non vanno bene 
12. Pultroppo o purtroppo? Quale lettera usare? 
13. Si scrive attaccato o staccato?  
   13.1. Espressioni e parole da scrivere separate
   13.2. Espressioni e parole da scrivere attaccate
   13.3. Espressioni e parole che si possono scrivere in entrambi i modi
14. Errori sui plurali
   14.1. Sarcofagi o sarcofaghi? Il plurale dei nomi in -co e -go 
   14.2. Rocce o roccie? Ciliege o ciliegie? Fasce o fascie? Il plurale dei nomi terminanti in -cia, -gia e -scia 
   14.3. Carroarmati o carriarmati? Il plurale dei nomi composti 
   14.4. Nomi che al plurale cambiano genere 
   14.5. Nomi che hanno più di un plurale (plurali sovrabbondanti) 
   14.6. Nomi con doppio plurale e doppio singolare
   14.7. Altri plurali irregolari


Premessa importante: accenti ed apostrofi
     Accenti ed apostrofi vengono spesso confusi sia a livello grafico sia a livello concettuale. Molte persone finiscono la scuola senza sapere né quale sia la loro diversa funzione né come si scrivano e questo induce una gran confusione che porta ad usarli in modo improprio. Chiariamo questa differenza prima di vedere tutti gli esempi, così tutto sarà più semplice.
     L’apostrofo è una virgola scritta in alto (’) e serve a indicare una vocale o una sillaba finale che è caduta, ovvero che non c’è più. Ad esempio l’espressione Va be’ deriva da Va bene, ma la sillaba finale -ne è caduta e al suo posto rimane l’apostrofo.
     Poi c’è l’accento che in italiano fa due cose: da una parte indica dove deve fermarsi la voce (come nelle parole àncora e ancóra), dall’altra indica anche il tipo di suono per la E e la O. La E e la O infatti possono avere ciascuna due suoni, uno chiuso e uno aperto, come nelle parole pésca (suono chiuso), cioè l’atto di pescare, e pèsca (suono aperto), cioè il frutto; oppure lóro (suono chiuso), cioè il pronome personale complemento, e l’òro (suono aperto), cioè il metallo prezioso.
     Gli accenti acuti (´) danno un suono chiuso, quelli gravi (`) un suono aperto. Essi sono sempre dritti e mai curvi o “svolazzanti”.


1. Errori con accenti ed apostrofi

1.1. Un po’ o un pò?
     Si usa l’apostrofo, non l’accento. L’espressione infatti viene da un poco e quell’apostrofo si usa per sostituire la sillaba -co caduta. Si tratta di un raro caso di troncamento con apostrofo. L’accento qui sarebbe anche inutile, perché la parola po’ è composta da una sola sillaba, quindi il suono cade per forza sull’unica vocale che c’è.

1.2. Be’ o beh?
     A rigore be’ deriva da bene, con caduta della sillaba -ne, esattamente come avviene con po’. La scrittura beh vuole rendere l’aspirazione che segue la parola quando il tono è perplesso ma non è una grafia ufficiale. Si usi quindi l’apostrofo.

1.3. Piè o pie’?
     La parola piede perde la sillaba -de in alcune espressioni, quindi tecnicamente è soggetta al fenomeno del troncamento, che quasi sempre avviene senza aggiunta di segni grafici. L’unico caso di troncamento con accento è però proprio questo e si scrive piè.
     Avremo quindi la nota a piè di pagina, l’espressione a ogni piè sospinto (cioè “molto spesso”), a piè pari (cioè “in modo deciso, senza titubare”), Achille dal piè veloce ecc.

1.4. Qual è o qual’è?
     La parola quale non si apostrofa mai perché è soggetta al fenomeno del troncamento, ovvero la perdita di una vocale o sillaba finale: il troncamento si fa per ragioni di eufonia, ovvero per rendere il suono più scorrevole e la lingua italiana, essendo una lingua musicale, ricorre spesso a questo espediente per migliorare la gradevolezza della pronuncia.

1.5. Tal azione o tal’azione?
     Come quale, anche tale subisce il fenomeno del troncamento e non prende mai l’apostrofo, sia davanti a vocale che davanti a consonante. Si dirà quindi tal azione, tal opera, tal dei tali, tal capriccio...

1.6. Qui, qua, ,
     Sono tutti avverbi di luogo, ma i primi due si scrivono senza accento, come accade normalmente alle parole composte da una sillaba sola.
     Anche lì e là sono monosillabi, ma su di essi va l’accento solo per evitare di confonderli con li e la, rispettivamente pronomi complemento e articolo determinativo. Capiamo meglio con degli esempi.
È stato che li ho visti = È stato in quel luogo che ho visto loro.
La porto sempre = Porto lei sempre in quel luogo.

1.7. C’è o ce?
     Significano due cose diverse.
  • C’è significa ci sta, sta qui, è presente (C’è qualcuno?). In questo caso è una breve frase col verbo essere.
  • Ce è una particella che può indicare due cose: o è un avverbio di luogo e indica quindi espressioni come , qui, da lì (es. Ce lo hai messo, l’aglio? = Hai messo l’aglio qui?; Ce ne sono diversi, di questi alberi = Qui sono presenti diversi alberi; Ce ne siamo andati = Siamo andati via da lì) oppure sostituisce il pronome personale ci / a noi (es. Non ce ne importa = A noi non importa di questo; Ce lo hanno detto = Lo hanno detto a noi).

1.8. Non c’entra o non centra?
     Non c’entra (e non c’entrano) si scrive con l’apostrofo, perché significa “non ci entra”, “non entra qui”, ovvero non è rilevante, non è importante. È importante ribadire questa differenza perché in italiano esiste effettivamente anche il verbo centrare (senza apostrofo) che vuol dire “fare centro”: se non si usa l’apostrofo, quindi, è come se si dicesse “non fa centro”, che ha tutt’altro significato.

1.9. Altre espressioni con l’apostrofo
all’incirca
d’accordo
d’altronde
l’altr’anno
poc’anzi
quant’altro
senz’altro 
tra l’altro 
tutt’altro 
tutt’e due 
tutt’oggi 
tutt’uno 

1.10. Accento, apostrofo o niente?
     Ci sono parole che si possono scrivere con accento, con apostrofo o con nulla, assumendo di volta in volta significati diversi. Ecco quali:

che – Può essere due cose: o congiunzione (Vorrei che ci vedessimo; Sento che ce la farai; Ho preso sia il pane che la farina) o pronome relativo e in tal caso sta per il quale / i quali / la quale / le quali ecc (Il libro che mi hai prestato era avvincente = Il libro il quale mi hai prestato era avvincente).
ché – È la forma abbreviata e di uso per lo più poetico di poiché (Come l’altre verrem per nostre spoglie, / ma non però ch’alcuna sen rivesta, / ché non è giusto aver ciò ch’om si toglie – Dante, Inferno, XIII, 103-105. Ovvero: Come le altre [anime] verremo a riprenderci i nostri corpi, ma non per ritornare in essi, poiché non è giusto riavere indietro ciò che ci si è tolti da soli).

da Preposizione semplice, come in Da qui non si passa o Vengo da te.
Verbo dare, presente indicativo, come nella frase Quel ragazzo mi soddisfazioni.
da’ Verbo dare, imperativo, forma abbreviata di dai. Esempio: Da’ (= Dai tu) a Marco il suo regalo. Nota: ricorda le forme dammi (= da’ a me), datti (= da’ a te stesso), dagli (= da’ a lui), dalle (= da’ a lei) e dacci (= da’ a noi).

di Preposizione semplice, come in L’auto è di Sandra o Il palazzo è quello di fronte.
Sostantivo, dal latino dies, vuol dire giorno: Buon (= Buongiorno) o Il e la notte.
di’Verbo dire, imperativo, forma abbreviata di dici. Esempio: Di’ (= Dici tu) la verità. Nota: ricorda le forme dimmi (= di’ a me), dicci (= di’ a noi) ecc.

eCongiunzione, serve a collegare due parole, due concetti o due frasi che sono parte di uno stesso discorso: Vestiti e raggiungici.
èVerbo essere, presente indicativo, con accento grave, mai acuto. Il pranzo è (= essere) ottimo.

fa – Può essere due cose: o verbo fare, indicativo presente (Egli fa un discorso) oppure avverbio che serve a dare un’indicazione di tempo (Tanto tempo fa, un’ora fa, tanti anni fa).
fa’Verbo fare, imperativo, forma abbreviata di fai. Esempio: Fa’ (= fai tu) quel che devi, ma fallo.

la – Può essere due cose: o articolo determinativo (La rosa) o pronome personale complemento femminile: La vedo (= Vedo lei – Compl. oggetto); La saluto (= Saluto lei – Compl. oggetto).
Avverbio di luogo, significa in quel luogo, lontano da chi parla e chi ascolta: Il tempio era , da qualche parte nella foresta.

li Pronome personale complemento maschile plurale: Non li ho visti (= Non avevo visto loro – Compl. oggetto).
Avverbio di luogo, significa in quel luogo, come , però indica un luogo più preciso rispetto a quello indicato da , sempre lontano da chi parla e chi ascolta: I calzini sono , in quel cassetto.

ne – Può essere due cose: o avverbio di luogo che significa da lì, da quel luogo (Ce ne siamo andati = Siamo andati via da lì; Partì per Milano e ne tornò molto cambiato = Partì per Milano e tornò molto cambiato da lì) oppure pronome che sostituisce alcuni complementi (Non ne voglio più = Non voglio più di questo; Ne sarei felice = Sarei felice di ciò; Ne parlerò in commissione = Parlerò di questo in commissione; Non gliene frega niente = Non gli frega niente di ciò).
n’è N’è rientra in ne (senza accento) e sta per ne è (Non ce n’è più = Non cè più nulla di ciò).
Congiunzione coordinante negativa, sta per e non o anche nemmeno. Si usa da sola (Non so chi tu sia mi importa saperlo) sia duplicata per coordinare due concetti negati (Questo matrimonio non s’ha da fare, domani mai, A. Manzoni, I promessi sposi, cap. I).

se 
– Congiunzione che serve a introdurre concetti di tipo ipotetico, sia reali che retorici: sta per nel caso cheammesso cheposto che (Se mai ci rivedremo te lo dirò = Nel caso in cui ci rivedremo mai te lo dirò).
 – Forma tonica del pronome personale di terza persona (Pensa solo a Ci è riuscito da Parla sempre di Era fuori di Prendersi cura di Ha portato tutto con ...). 
Attenzione! Spesso il se è accompagnato da stesso o medesimo (sé stesso, sé medesimo). A tal proposito non esiste una regola precisa su come vadano davvero scritti sé stesso e sé medesimo, se con l’accento acuto o senza accento: in generale, infatti, il criterio empirico per le parole monosillabe (sé è appunto monosillabo) è quello di evitare di scrivere l’accento il più possibile, quindi molti suggeriscono di scrivere se stesso e se medesimo senza accento, giacché in tal caso il pronome non rischia di essere confuso con la congiunzione ipotetica se; dall’altra parte c’è chi preferisce non introdurre eccezioni e variazioni alla regola per non indurre confusione o per amore di un certo purismo linguistico. Perciò, non esistendo al momento accordo unanime al riguardo, è lecito scrivere sia sé stesso / sé medesimo che se stesso / se medesimo, come confermato dall’Accademia della Crusca.

si – Quando non indica la nota musicale, è un pronome riflessivo e sta per sé stesso, a sé stesso (Non si rende conto = Non rende conto a sé stesso; Si considera un esteta = Considera sé stesso un esteta; Il bimbo si veste da solo = Il bimbo veste sé stesso da solo).
– È l’avverbio affermativo che usiamo per rispondere positivamente a qualcosa (Accetti? – , accetto). Talvolta, specie in poesia o in testi più antichi, è usato come abbreviazione di così (Chi è ’n quel foco che vien diviso? = Chi è in quel fuoco che viene così diviso?). La parola è un’evoluzione dell’avverbio latino sic (così) usato nell’espressione sic est (è così) per indicare appunto una risposta affermativa.

sta Verbo stare, presente indicativo, come in Sta (egli) sempre in compagnia.
sta’ Verbo stare, imperativo, forma abbreviata di stai. Esempio: Sta (stai tu) fermo o la foto verrà mossa.

te Pronome personale complemento, come in Vuole parlare con te; Un regalo per te; Te la sei cercata (= L’hai cercata per te). Talvolta è usato nella lingua parlata come soggetto mimando un uso dialettale, come in E te (= tu) che ci fai qui?. Si pronuncia come se ci fosse l’accento acuto (té), che indica il suono chiuso.
Sostantivo che indica la bevanda. Talvolta si trova scritto come thè o the, ricalcando la grafia francese thé. Si legge con la E aperta.

vaVerbo andare, presente indicativo, come in Marco va a scuola con l’autobus.
va’ Verbo andare, imperativo, forma abbreviata di vai. Esempio: Va’ (vai tu) in camera tua!

     Tutti gli altri monosillabi si scrivono sempre senza accento, perché in generale non occorre l’accento su parole di una sillaba sola. Quindi si scrivono: su, blu, tre, io sto, io do, io so...


2. Errori con gli articoli
     Come tutti ricorderemo, gli articoli sono di due tipi:
  • determinativi: il, lo, la, i, gli, le e l’;
  • indeterminativi: un, uno, una, un’.

Le maggiori difficoltà riguardano l’uso dei determinativi lo / gli e dell’indeterminativo un / un’.

2.1. Il pneumatico o lo pneumatico? Uso di lo e gli
     L’articolo lo si usa davanti ai nomi singolari che iniziano per:
  • S impura (cioè S + consonante): lo spavantapasseri, lo stanzino, lo stupore, lo sfottò, lo scarto...
  • X: lo xilofono, lo xeno, lo xantelasma...
  • Y: lo yogurt, lo yacht, lo Yemen, lo yoga...
  • Z: lo zio, lo zoo, lo zaino, lo zombie, lo zenzero...
  • CH di origine straniera, per lo più francesi: lo champagne, lo chignon, lo chalet...
  • PN: lo pneumatico, lo pneumotorace, lo pneumococco...
  • GN: lo gnomo, lo gnorri, lo gnocco, lo gnu...
  • PS: lo psicologo, lo pseudonimo, lo psicoanalista...

     L’articolo gli si usa davanti ai nomi plurali inizianti per vocale (gli alberi, gli uomini, gli enti...) e in tutti gli stessi casi che valgono per l’articolo lo. Si avrà quindi: gli spaventapasseri, gli xilofoni, gli yogurt, gli zii, gli pneumatici, gli gnocchi, gli psicologi...

2.2. Un’idea o un idea? Uso di un e un’
     L’articolo un ha l’apostrofo solo quando accompagna una parola femminile e che inizia per vocale. Esempi: un’isola (isola è femminile e inizia per vocale); un’amica; un’eco; un’eclisse...
     Però si dice un orco, un astro, un elfo, un elettricista, perché sono tutti nomi maschili.
     Detto in breve: un è sempre maschile (viene da uno), un è sempre femminile (viene da una).


3. Errori con le doppie

3.1. C, Q, CQ o QQ?
     Cospicuo o Cospiquo? Promiscuo o Promisquo? E anche: acquisto o aqquisto?
     Intanto diamo una regola generale sicuramente valida: quando c’è il gruppo QU dopo troviamo sempre una vocale e mai una consonante (qua, que, qui, quo), quindi sappiamo già che, se dopo la U c’è una consonante di certo non possiamo usare QU, bensì dobbiamo usare il gruppo CU. Infatti si scrive lacunoso e non laqunoso.
     Se invece dopo la U c’è una vocale può trattarsi sia di CU che di QU, perciò ecco la grafia corretta di alcune parole che si scrivono con CU (e NON con QU): scuola, cuoco, cuore, cuoio, circuito, lacustre, vacuo, promiscuo, proficuo, cospicuo, innocuo, cui, percuotere, riscuotere, scuotere, cuocere, circuire, evacuare...
     Si scrivono invece con QU (e NON con CU): equo, equestre, liquame, liquore, liquido, quadrato, qui, inquinare...
     Quando il suono è doppio si può scrivere sia QQU sia CCU sia CQU e qui la regola è più semplice:
  • La sola parola italiana che si scrive con QQU è soqquadro.
  • La sola parola italiana che si scrive con CCU + vocale è taccuino.
  • In tutti gli altri casi si usa CQU. Esempi: acqua, acqueo, subacqueo, acquario, acquoso, acquazzone, acquisto, acquiescenza, piacqui, nacqui, acquattarsi...

     Una nota speciale per la parola acqua: quando essa è presente in parole inglesi la sua grafia riprende l’originale latina, ovvero aqua, senza C. Così abbiamo aquafun, aquagym, aquastep, aquaplaning...

3.2. Accelerare o accellerare?
     Il verbo accelerare è uno dei più fraintesi della grammatica italiana. Esso si scrive con una sola L: accelerare e non accellerare.
     Diciamo anche il perché: esso deriva dal latino celeris, che vuol dire “veloce”, e come si vede ha una sola L. Non c’è motivo di raddoppiarla in italiano.

3.3. Contrapasso o contrappasso?
     Si può scrivere in entrambi i modi.
     Per chi non lo sapesse, inoltre, il contrapasso è un modo di infliggere una pena che somigli molto o che richiami il danno ricevuto: gli esempi più famosi sono la legge del taglione o il contrapasso dantesco (i dannati nella Divina commedia ricevono punizioni che ricordano i loro peccati: ad esempio, i violenti contro il prossimo, che hanno sparso un mare di sangue di innocenti, ora passano l'eternità in un mare di sangue bollente). Il termine deriva dal latino contra (contro) + patior (io soffro), dove la P può subire un raddoppiamento dovuto all’uso della pronuncia.

3.4. Stazione o stazzione?
     Tutte le parole che terminano in -zione hanno una sola Z. Quindi si scrive: colazione, ambizione, direzione, circolazione, selezione, corruzione, azione... Tali parole derivano da analoghi latini terminanti in -tio, letto, in tardo latino, come [-zio]: ambitio, letto [ambìzio], in italiano diventa ambizione.

3.5. Stagione o staggione?
     Tutte le parole che terminano in -gione hanno una sola G. Quindi si scrive: guarigione, guarnigione, magione, cagione, impiccagione, regione, legione, religione... Tali parole derivano da analoghi latini terminanti in -gio, con una sola G.

3.6. Stabile o stabbile?
     Tutti gli aggettivi che terminano in -bile hanno una sola B. Quindi si scrive: mangiabile, scrivibile, potabile, malleabile, indimenticabile, tascabile, carrabile... Tali parole derivano da analoghi latini terminanti in -bilis, con una sola B.


4. Con la H o senza H?
     I principali errori con la H riguardano per lo più gli omofoni, ovvero parole che si pronunciano diverse scritte in modo diverso ma che si pronunciano allo stesso modo. Ecco gli esempi più famosi:

a Preposizione semplice, si usa per rendere vari complementi. Esempi: Vivo a Parigi (Dove? – Stato in luogo); Appartiene a te (A chi? – Comp. di termine); Parliamo a vanvera (Come? – Comp. di modo)...
ha Verbo avere, 3° persona singolare del presente indicativo: Marco ha (= avere) un grande talento.

annoSostantivo, nome comune di cosa: l’anno solare, l’anno sabbatico, l’anno accademico...
hannoVerbo avere, 3° persona plurale del presente indicativo: I ragazzi hanno (= avere) un grande talento.

o Congiunzione che serve a porre una scelta. Sta per “oppure”. Prenderò una pizza o (= oppure) un piatto di carne.
hoVerbo avere, 1° persona singolare del presente indicativo: Ho (= avere) voglia di viaggiare.


5. Sognamo o sogniamo? La 1° persona plurale con la I
     A scuola ci hanno sempre insegnato che col gruppo GN non va mai la I, quindi si scrive gnomo e non gniomo, agnello e non agniello, perché GN non ha bisogno della I per avere il suono che ha.
     Rassicuriamoci che questa regola non ha eccezioni, vale sempre, anche se non sembrerebbe da quello che stiamo per dire. Prendiamo infatti un verbo che termini in -gnare, come sognare.
     Alla prima persona plurale del presente indicativo esso si coniuga noi sogniamo, con la I. Ma come? La I non va mai col gruppo GN e in questa coniugazione verbale invece sì. Analogamente abbiamo noi disegniamo (e non noi disegnamo) e noi segniamo (e non noi segnamo)... Perché? Il motivo è semplice: quella I fa parte della desinenza (cioè la parte finale del verbo) tipica della prima persona plurale (noi) e quindi deve rimanere per indicare bene la “persona” che compie l’azione.
     Chiariamo meglio usando un verbo diverso: nella voce noi amiamo la parte am- (detta radice) indica il significato generale del verbo (cioè l’atto di amare), mentre la parte successiva (-iamo, la desinenza) indica che l’azione di amare è compiuta da una prima persona plurale (noi).
     Ripetendo il ragionamento sul verbo sognare abbiamo sogn-, che è la radice, la quale esprime il significato generale del verbo, ovvero l’azione di sognare, e la desinenza -iamo, che indica il noi. Quindi sogn + iamo = sogniamo.


6. Egli o lui? Ella o lei?
     Anche se ormai l’uso improprio comincia a essere tollerato sempre più, a rigore funziona così.
  • Egli si usa solo per indicare il soggetto, cioè una persona che compie o subisce un’azione o qualcuno di cui si parla (Es. Egli è mio fratello; Egli scrive; Egli viene chiamato).
  • Lui invece è complemento, cioè si usa per indicare il complemento oggetto o per i complementi con le preposizioni.
Esempi:
  • Hanno chiamato lui (Chi hanno chiamato? Lui. – Compl. oggetto).
  • Questo è per lui (Per chi è questo? Per lui. – Compl. di vantaggio).
  • Ho visto del bene in lui (In chi ho visto del bene? In lui. – Compl. di stato in luogo).
     Non si dovrebbe quindi dire Lui è mio amico, ma Egli è mio amico.
     La stessa differenza vale tra ella e lei: il primo è soggetto, il secondo complemento.


7. Gli dico o le dico?
     Gli, a meno che non sia articolo determinativo (es. Gli occhi), significa a lui, o a loro. Esempi: Gli ho telefonato = Ho telefonato a lui; Gli hanno sparato = Hanno sparato a lui; Gli hanno detto = Hanno detto a lui; Gli voglio bene = Voglio bene a lui; Gli ho aperto la porta = Ho aperto la porta a lui...
     Le, a meno che non sia articolo determinativo (es. Le rose), significa a lei. Esempi: Le ho telefonato = Ho telefonato a lei; Le hanno sparato = Hanno sparato a lei; Le hanno detto = Hanno detto a lei; Le voglio bene = Voglio bene a lei; Le ho aperto la porta = Ho aperto la porta a lei...

     Attenzione! Siccome gli, con luso, ha finito per significare sia a lui che a loro, potrebbero nascere ambiguità nel caso di frasi come Gli ho fatto un gran favore, che potrebbe significare contemporaneamente sia Ho fatto a lui un gran favore sia Ho fatto a loro un gran favore. In genere il contesto aiuta a chiarire il senso, ma se questo non fosse possibile si ricordi che per dire a loro si può usare anche il pronome loro (che vale quindi sia come complemento oggetto che come complemento di termine): così la frase può diventare Ho fatto loro (= a loro) un grande favore.


8. Se avessi o se avrei? L’eterno dilemma
     Il dubbio amletico della grammatica italiana, l’errore per eccellenza, quello probabilmente più “denunciato” e corretto nella storia dellistruzione: l’uso del modo verbale con la particella se.
Chiariamo intanto una cosa fondamentale, a scanso di equivoci:
  • io abbia e io abbia avuto sono congiuntivi (presente e passato);
  • io avessi e io avessi avuto sono congiuntivi (imperfetto e trapassato);
  • io avrei e io avrei avuto sono condizionali (presente e passato).
      Detto questo, i falsi sapienti al riguardo non avrebbero dubbi, per loro la regola è chiara: il se vuole sempre il congiuntivo. Basta.
     In realtà non è così, perché a seconda del valore che ha il se si deve usare un modo verbale o l'altro. Chiariamo tutto con appositi esempi...

Se avessi più tempo, andrei a trovarlo.
     In questo caso la frase Se avessi più tempo esprime unipotesi e il se è detto “se ipotetico”, nel senso che la frase si potrebbe intendere come Nellipotesi in cui avessi più tempo [ma non ce lho], andrei a trovarlo.

Se avessi saputo del tuo arrivo, ti sarei venuto a prendere.
     Anche qui si esprime unipotesi e la frase è da intendere come Nellipotesi in cui avessi saputo del tuo arrivo [ma non lo sapevo], ti sarei venuto a prendere. Anche qui cè un se ipotetico.

Ti aiuterei se me lo permettessi.
     Idem qui. Nellipotesi in cui me lo permettessi [ma non me lo permetti], ti aiuterei. Se ipotetico.

     Tutte queste frasi sono esempi di periodi ipotetici, ovvero frasi in cui si pone unipotesi (se studiassi di più…) e si dice cosa si farebbe se quellipotesi fosse vera (… verresti promosso).
     Ma ecco la regola: quando si esprimono ipotesi, quindi col se ipotetico, si usa il congiuntivo (imperfetto – se avessi, se fossi… – o trapassato – se avessi avuto, se fossi stato…).

     Il se, tuttavia, può essere usato anche per esprimere altro oltre ad unipotesi e in questi casi diversi si deve usare il condizionale, come nei seguenti esempi...

Non so se accetterebbe il mio invito.
     In questo caso non si esprime unipotesi, bensì un dubbio, unincertezza. Il se non è ipotetico.
     Tuttavia lipotesi è sottintesa al dubbio: infatti la frase può essere resa in forma diretta e intesa come “Non so: accetterebbe il mio invito se glielo facessi?”, con un periodo ipotetico nascosto con tanto di se col suo bel congiuntivo.

Chiedigli se ci potrebbe aiutare.
     Anche in questo caso il se non è ipotetico, perché non si esprime unipotesi, ma si sta facendo una domanda indiretta, nel senso che si pone indirettamente una domanda, che in forma diretta sarebbe “Ci potresti aiutare, se te lo chiedessimo?”, anche qui con unipotesi sottintesa (= nellipotesi in cui te lo chiedessimo).

     Quando non ci sono periodi ipotetici, non si fanno ipotesi, ma si esprimono dubbi, incertezze o si pongono domande indirette con ipotesi sottintese si può usare anche il condizionale con il se.


9. Ha piovuto o è piovuto? L’ausiliare dei verbi atmosferici
     I verbi atmosferici indicano fenomeni meteorologici e di norma non hanno soggetto, nel senso che non esiste nessuno in particolare che compie l’azione. Si dice in questi casi che si tratta di verbi impersonali. Come confermato dall’Accademia della Crusca, esistono due casi possibili al riguardo.
     Nel caso in cui il verbo indichi il fenomeno atmosferico vero e proprio sono ammessi entrambi gli ausiliari, essere e avere, nei tempi composti. Si può dire quindi equivalentemente è piovuto o ha piovuto, è albeggiato o ha albeggiato, è tuonato o ha tuonato...
     Se si vuole indicare che è piovuta una cosa specifica allora il verbo non è più impersonale, perché esiste una “persona” che compie l’azione. In tal caso si usa sempre e solo l’ausiliare essere (questo caso si verifica per lo più solo col verbo piovere). Esempi: È piovuta una sfortuna su di noi; Una pioggia di applausi gli è piovuta addosso.


10. Meglio o migliore? Peggio o peggiore?
     Facciamo innanzitutto ordine:
  • migliore è aggettivo e significa “più buono di”;
  • peggiore è aggettivo e significa “più cattivo di”;
  • meglio è avverbio e significa “più bene di” o “in modo migliore”;
  • peggio è avverbio e significa “più male di” o “in modo peggiore”.
     Detto questo, a rigor di grammatica, si devono usare gli aggettivi quando si descrivono le cose e le persone, mentre gli avverbi quando si descrive il modo con cui viene fatta un’azione.
     Alcuni esempi chiariranno meglio tutto ciò.

La tua auto è migliore (= più buona) della mia.
     In questo caso si vuole descrivere una cosa, quindi occorre l’aggettivo (migliore).
     Dire La tua auto è meglio della mia avrebbe significato La tua auto è più bene della mia, che non avrebbe avuto senso.

Il peggiore (= il più cattivo) di tutti è il capo della banda.
     In questo caso si descrive una persona, quindi occorre l’aggettivo (peggiore).
     Dire Il peggio di tutti è il capo della banda avrebbe significato Il più male di tutti è il capo della banda.

Per favore, scrivi meglio (= in modo migliore).
     In questo caso ci si riferisce a un’azione, l’azione di scrivere: occorre quindi usare l’avverbio (meglio) che precisa appunto il modo con cui viene fatta un’azione.

Canti peggio (= più male) di una campana stonata.
     Anche qui si descrive unazione, l’azione di cantare, e occorre quindi l’avverbio (peggio).

     L’errore tipico qui risiede nel fatto di usare l’avverbio al posto dell’aggettivo: è un uso per lo più parlato o dialettale, ma si deve evitare nella scrittura e nell’eloquio ufficiale.
Sono quindi da evitare frasi come Sei il meglio di tutti o I meglio anni della nostra vita.

     Essendo però questo uso improprio molto frequente, ci sono casi in cui esso viene tollerato e ufficializzato. Per esempio si può dire:
Questo è il meglio che c’è (a rigore sarebbe Questo è la cosa migliore che c’è).
Mi hai dato il peggio che c’era (si dovrebbe dire Mi hai dato la cosa peggiore che c’era).
La meglio gioventù, opera di Pasolini, che riprende la poesia Sul ponte di Perati.
E non dimentichiamo il gatto della Disney Romeo, “er mejo (= meglio) der Colosseo”.


11. Ridondanze

11.1 Ma però
     Ma però è una ridondanza, ovvero una ripetizione inutile, perché le due parole indicano entrambe una frase avversativa, cioè una frase che esprime un concetto contrario o in contrasto con quando detto prima. Esempio: Questo dolce non è ottimo, ma (però) lo mangio lo stesso.

11.2. A me mi piace
     Anche a me mi piace è ridondante: mi in questo caso significa proprio a me. Si dice o a me piace o mi piace. In particolare la prima forma si usa preferibilmente quando si vuole sottolineare la persona, magari ribadendo una differenza con qualcun altro. Esempio: Non so a te, ma a me piace la cioccolata ribadisce una contrapposizione tra te e me, cosa che non si sente in modo altrettanto netto nella frase Non so a te, ma mi piace la cioccolata.
     Lo stesso vale per a te ti, a lui gli, a lei le, a noi ci, a voi vi.

11.3. Scendi giù e sali su
     Salire, per definizione, è unazione che si fa sempre verso lalto, quindi è inutile precisare con lavverbio su. Si dice quindi o Sali! oppure Vieni su!
     Scendere, per definizione, è unazione che si fa sempre verso il basso, quindi è inutile precisare con lavverbio giù. Si dice quindi o Scendi! oppure Vieni giù!

11.4. Puntini sospensivi: quanti sono?
     I punti sospensivi vogliono sottintendere qualcosa che si intuisce anche se non scritto o per indicare un discorso che viene troncato.
     Molti ne abusano pesantemente mettendone in quantità industriali, come Totò quando scrive con Peppino la lettera alla “malafemmina”, ma la regola vuole che essi siano sempre e solo tre (...).
     Gli unici casi in cui il numero può aumentare sorgono da esigenze puramente tipografiche o estetiche, come i famosi spazi bianchi da compilare con dei dati o i puntini che uniscono gli argomenti di un indice (posti a sinistra) con la relativa pagina (a destra).

11.5. Troppi punti esclamativi o interrogativi non vanno bene
     I punti esclamativi (!) o interrogativi (?) vengono sempre più spesso usati in serie da due, tre o più di tre (!!! e ???): è un uso nato dal linguaggio dei fumetti, dove il testo lavora in sinergia con le immagini e serve a caratterizzare meglio ciò che il disegno mostra, per poi estendersi sulle chat e sui social fino ad approdare agli spot pubblicitari.
     Tuttavia in una scrittura ufficiale o nelle opere letterarie la ripetizione di questi segni finisce per enfatizzare il messaggio in modo eccessivo e conferisce pesantezza al testo, che invece dovrebbe mantenere una certa sobrietà formale. Tali segni sono quindi da evitare.

     Tolleranza leggermente maggiore si ha per le combinazioni ?! e !? che hanno un ruolo diverso perché servono a mischiare la funzione enfatica con quella interrogatoria. Nella frase Ma dici sui serio?!, ad esempio, cè una domanda ma anche dello stupore. Le forme ?! e !? vengono quindi tollerate leggermente di più, ma è buona norma limitarne l’uso il più possibile.


12. Pultroppo o purtroppo? Quale lettera usare?
     Un altro tipico errore della lingua italiana riguarda una lettera che viene scritta (e pronunciata) al posto di unaltra. Questo errore nasce tipicamente come errore di ascolto e si ripercuote poi anche nella grafia. Ecco alcuni esempi.
  • entusiasta (non entusiasto): l’aggettivo entusiasta finisce in -a anche in riferimento a nomi maschili: Marco ne sarà entusiasta; Giulia ne sarà entusiasta. Al plurale invece fa entusiasti (maschile) ed entusiaste (femminile).
  • purtroppo (non pultroppo), perché deriva da pure + troppo.
  • cerebrale (non celebrale), perché viene dal latino cerebrum, che vuol dire “cervello”.
  • meteorologia (non metereologia), perché deriva dal greco metèora, cioè “cose del cielo”.
  • aeroporto (non areoporto), perché deriva dal latino aer, cioè “aria”.
  • interpretare (non interpetrare).


13. Si scrive attaccato o staccato?
     Alcune parole sono il frutto dellunione di più vocaboli che, a forza di essere usati insieme, finiscono col tempo per diventare un vocabolo solo. Per questo a volte delle parole si scrivono attaccate e altre volte staccate.

13.1. Espressioni e parole da scrivere separate
a volte
sotto forma
tutto a posto
a parte il fatto che
a fianco (a meno che non si tratti di io affianco, dal verbo affiancare)
a proposito 
al di là (a meno che non si tratti dell’aldilà inteso come il regno dei morti) 
al di sopra 
al di sotto 
in quanto 

13.2. Espressioni e parole da scrivere attaccate
allorché 
almeno
apposta
benché 
bensì 
buonasera 
buongiorno 
chissà 
dappertutto
dinanzi/dinnanzi 
dopodomani 
dovunque 
ebbene 
eppure 
finché 
finora 
giacché 
invano 
laggiù 
lassù 
neanche 
nemmeno 
neppure 
nonché 
ossia 
ovvero 
ovverosia 
perché
perciò 
perfino 
pertanto 
poiché
pressappoco
quaggiù 
qualora 
quassù 
sebbene 
senonché/sennonché 
seppure 
sicché 
siccome 
sissignore 
soprattutto 
sottosopra 
talora 
talvolta 
tuttavia 
tuttora

13.3. Espressioni e parole che si possono scrivere in entrambi i modi
ancorché oppure ancor che
buongiorno oppure buon giorno
buonanotte oppure buona notte
buonasera oppure buona sera
ciononostante oppure ciò nonostante
fintantoché oppure fintanto che
granché oppure gran che
ogniqualvolta oppure ogni qualvolta
oltremodo oppure oltre modo
perlomeno oppure per lo meno
perlopiù oppure per lo più
quantomai oppure quanto mai


14. Errori sui plurali

14.1. Sarcofagi o sarcofaghi? Il plurale dei nomi in -co e -go
     I nomi che terminano in -co e -go si sono evoluti secondo due strane, di cui una tende a conservare il suono “duro” della C e della G e forma quindi il plurale in -chi e -ghi, mentre laltra addolcisce il suono delle consonanti e forma plurali in -ci e -gi.
     Queste due forme coesistono, formando quindi due categorie distinte tra questi vocaboli. Non è esistita una regola univoca nel tempo, quindi si daranno qui delle linee guida generali fondate più sull'uso attuale che su una norma teorica universalmente valida.
     In generale, dunque, funziona così...

     Le parole piane, che hanno cioè l’accento sulla penultima sillaba, tendono a formare i plurali in -chi e -ghi. Avremo quindi: cuòchi, fuòchi, macàchi, fìchi, ciùchi, bùchi, màrchi, òrchi, luòghi, àghi, màghi, làghi, collèghi, chirùrghi, demiùrghi, dittònghi, fùnghi, alberghi... (l’accento evidenzia la penultima sillaba).

     Le parole sdrucciole, che hanno cioè l’accento sulla terzultima sillaba, tendono a formare i plurali in -ci e -gi. Avremo quindi: collèrici, fàrmaci, mònaci, mèdici, àlluci, equìvoci, pòrtici, pànici, lìbici, anestètici, aspàragi... (l’accento evidenzia la terzultima sillaba).

     Discorso leggermente diverso meritano i nomi che sono composti dai suffissi -logo e -fago, tutti nomi sdruccioli.
     In tali casi, l’uso prevede che, se il nome indica una persona, il plurale sia in -ci -gi, se indica una cosa o un aggettivo il plurale sia di preferenza in -chi / -ghi.
     Quindi avremo...
  • Nomi indicanti persone: psicòlogi, antròpologi, sociòlogi, fisiòlogi, antropòfagi, teòlogi...
  • Nomi indicanti cose o aggettivi: catàloghi, omòloghi, diàloghi, anàloghi, monòloghi, pròloghi, epìloghi, esòfaghi, sarcòfaghi (per questi ultimi due è molto usata anche la forma in -gi).

Eccezioni
     Anche se non avrebbe senso parlare di eccezioni, in quanto non esiste una regola unica che preveda a priori come regolarsi, rispetto alle norme appena elencate i seguenti sostantivi sembrano comportarsi diversamente.
  • Àbachi, càrichi, pìzzichi, vàlichi, ad esempio, sono sdruccioli, ma hanno il plurale in -chi.
  • Òbblighi, poi, è sdrucciolo, ma ha il plurale in -ghi.
  • Adàgi, amìci, grèci, inoltre, sono piani, ma hanno il plurale in -ci / -gi.

     Citiamo infine i nomi che hanno un plurale doppio: esofagi esofaghi, sarcofagi / sarcofaghi, stomaci / stomachi, manici / manichi (più raro il secondo) ecc.

14.2. Rocce o roccie? Ciliege o ciliegie? Fasce o fascieIl plurale dei nomi in -cia, -gia e -scia
     I nomi che terminano in -cia (camicia), -gia (pioggia) e -scia (ganascia) sono particolarmente insidiosi perché non si sa mai se mantenere quella I anche al plurale.
     Partiamo dai nomi che terminano in -cia e -gia. Per regolarsi fino a qualche anno fa bastava guardare la lettera che sta subito prima di -cia e -gia e seguire una semplice regola ben esposta anche dall’Accademia della Crusca e che risulta sempre “sicura”:
  • se prima di -cia e -gia c’è una vocale il plurale si fa in -cie o -gie. Esempi: camicia / camicie (camice invece indica la divisa del medico); acacia / acacie; ciliegia / ciliegie; grigia / grigie...
  • se prima di -cia e -gia c’è una consonante il plurale si fa in -ce o -ge. Esempi: roccia / rocce; arancia / arance; frangia / frange; pioggia / piogge...
     Tuttavia l’evoluzione della lingua, che notoriamente tende alla progressiva semplificazione e ad eliminare usi superflui, ha portato a tollerare anche i plurali in -ce e -ge per i nomi uscenti in vocale + cia gia. Il motivo è che al plurale quella I viene da molti ritenuta superflua rispetto al singolare: al singolare infatti, la I serve solo a far pronunciare le lettere C e G come “dolci” (camicia, ciliegia), fungendo da semplice segno grafico, ma al plurale quelle stesse lettere C e G si leggerebbero dolci lo stesso, anche senza la I, che quindi verrebbe percepita come di troppo. Per cui alcuni sostengono che sia utile semplificare la grafia eliminando questa I “inutile”: questa è la ragione per cui le ortografie oscillano tra due forme e molti dizionari presentano forme in -cie / -gie e forme in -ce / -ge (vedi al riguardo questo articolo dell’Accademia della Crusca).
     Nel dubbio, tuttavia, specie quando non è possibile consultare un dizionario, è bene affidarsi alla regola sopraelencata, nella consapevolezza che non si sbaglierà.

Attenzione! Se la I del gruppo -cia / -gia è accentata ed è quindi una vocale “forte”, essa si conserva anche al plurale. Esempi: magia / magie; bugia / bugie; farmacia / farmacie...

     Passiamo a esaminare i nomi uscenti in -scia. Hanno il plurale in -scie o -sce?
     Qui la regola generale è più netta: la I al plurale sarebbe superflua, quindi i plurali sono in -sce.
Esempi: ascia / asce; biscia / bisce; fascia / fasce; striscia / strisce; coscia / cosce...

     La I si mantiene solo in due casi:
  1. Se la I è accentata (come per i nomi in -cia / -gia). Esempio: scia / scie.
  2. Se il suono -scie- fa parte della parole scienza o dei suoi derivati: scienza, scienziato, scientifico, fantascienza, coscienzioso, incosciente, coscientemente, conscie (di questo viene tollerata anche la grafia consce) ecc... La ragione è semplice: tutte queste parole derivano da un verbo latino, scio, che vuol dire “sapere” e la sua I era parte integrante del tema, dunque si è conservata anche in italiano.


14.3. Carroarmati o carriarmati? Il plurale dei nomi composti
     Unendo parole diverse si formano parole nuove: ad esempio, piano + fortepianoforte. Quando si fa questo si ottiene un nome composto. Siccome i nomi composti possono essere formati in molte combinazioni, essi formano il plurale in vari modi. Ecco una classifica con i casi più frequenti (per casi più specifici è utile consultare un dizionario o un manuale di grammatica).

Nome + nome (di genere uguale, cioè entrambi maschili o entrambi femminili)
     Solo il secondo nome va al plurale. Esempio: il cavolfiore / i cavolfiori; l’arcobaleno / gli arcobaleni; il melograno / i melograni; la cassapanca / le cassapanche.

Nome + nome (di genere diverso, ovvero maschile + femminile oppure femminile + maschile)
     Solo il primo nome va al plurale. Esempio: il pescespada / i pescispada; il grillotalpa / i grillitalpa.
     Eccezioni ormai divenute di uso comune sono: il boccaporto / i boccaporti; la banconota / le banconote; la ferrovia / le ferrovie.

Aggettivo + aggettivo
     Solo il secondo aggettivo va al plurale. Esempio: il sordomuto / i sordomuti; il pianoforte / i pianoforti; il chiaroscuro / i chiaroscuri; il sacrosanto / i sacrosanti; l’agrodolce / gli agrodolci; il bianconero / i bianconeri; il nazionalpopolare / i nazionalpopolari; il cerebrospinale / i cerebrospinali; il sociopolitico / i sociopolitici.

Verbo + verbo
     Il plurale è uguale al singolare. Esempio: il saliscendi / i saliscendi; il dormiveglia / i dormiveglia; il fuggifuggi / i fuggifuggi; il lasciapassare / i lasciapassare.

Nome + aggettivo
     Entrambi si volgono al plurale. Esempio: il carroarmato / i carriarmati; il pellerossa / i pellirosse; il caposaldo / i capisaldi; la cassaforte / le casseforti; la terracotta / le terrecotte; la gattamorta / le gattemorte; il camposanto / i campisanti; il ficosecco / i fichisecchi; la cartapesta / le cartepeste.
     Eccezioni a questa regola, create l’uso parlato, sono: il palcoscenico / i palcoscenici; la pastasciutta / le pastasciutte; il girotondo / i girotondi.

Aggettivo + nome
     In genere si volge al plurale solo il nome. Esempio: il francobollo / i francobolli; il bassorilievo / i bassorilievi; l’altopiano / gli altopiani; la falsariga / le falsarighe; la vanagloria / le vanaglorie.
     Alcuni nomi si sono stabilizzati come eccezioni a questa regola e fanno il plurale di entrambi gli elementi. Esempi: il bassofondo / i bassifondi; l’altoforno / gli altiforni; il mezzobusto / i mezzibusti; la mezzaluna / le mezzelune; la mezzamanica / le mezzemaniche.

Aggettivo + verbo
     Il plurale è uguale al singolare. Esempio: il belvedere / i belvedere.

Verbo + nome singolare maschile
     Solo il nome maschile va al plurale. Esempio: il passaporto / i passaporti; il copriletto / i copriletti; il grattacapo / i grattacapi; il coprifuoco / i coprifuochi; il passatempo / i passatempi; il segnalibro / i segnalibri.
     Attenzione: nel caso in cui la parola composta funga da apposizione che possa essere riferita sia a maschio che femmina, il suo plurale segue la regola se riferito a maschio, resta invariato se riferito a femmina. Esempio: il ficcanaso / i ficcanasi; ma la ficcanaso / le ficcanaso. Il motivo risiede nel fatto che si creerebbe ambiguità di genere (non si può d’altronde dire le ficcanase!).

Verbo + nome singolare femminile
     Il plurale è uguale al singolare. Esempio: il posacenere / i posacenere; il cavalcavia / i cavalcavia; lo spazzaneve / gli spazzaneve; l’aspirapolvere / gli aspirapolvere; il battistrada / i battistrada.
     Eccezioni a questa regola consolidatesi nell’uso sono i sostantivi formati col nome mano, che hanno lo stesso comportamento del caso precedente (forse perché nel parlato la terminazione in -o fa nascere un’analogia coi nomi maschili): l’asciugamano / gli asciugamani; il baciamano / i baciamani; il corrimano / i corrimani.
     Attenzione anche alle eccezioni il cacciavite / i cacciaviti o il salvagente / i salvagenti.

Verbo + nome plurale
     Il plurale è uguale al singolare. Esempio: il portapenne / i portapenne; l’acchiappafantasmi / gli acchiappafantasmi; il cercapersone / i cercapersone; il temperamatite / i temperamatite.

Verbo + avverbio
     Il plurale è uguale al singolare. Esempio: il posapiano / i posapiano.

Avverbio + verbo
     Il plurale è uguale al singolare. Esempio: il benestare / i benestare.

Preposizione o avverbio + nome
     In tal caso la regola prevede di confrontare il genere del nome composto con il genere del nome che compone il nome composto. Se i generi dei due nomi coincidono, allora il plurale si forma cambiando il genere del nome componente, se sono diversi, allora il plurale è uguale al singolare.
Esempi:
  • Il soprammobile è un nome composto ed è maschile; esso è composto col nome componente mobile, anch’esso maschile. Siccome sono maschili entrambi il plurale si rende col plurale del nome componente: i soprammobili.
  • L’anticamera è un nome composto ed è femminile; esso è composto col nome componente camera, anch’esso femminile. Anche qui i generi coincidono e il plurale si fa volgendo al plurale il nome componente: le anticamere.

     Analogamente si comportano nomi come: il sottufficiale / i sottufficiali; il surgelato / i surgelati; il contrordine / i contrordini; il contrabbando / i contrabbandi; il sottopassaggio / i sottopassaggi; il lungomare / i lungomari; la soprascarpa / le soprascarpe; la soprattassa / le soprattasse.

     Se invece consideriamo il sottobottiglia, nome composto maschile, ci accorgiamo che il suo nome componente, cioè bottiglia, è femminile. I generi sono diversi, quindi il plurale è uguale al singolare: i sottobottiglia.
     Analogo comportamento hanno i nomi: il sottopancia / i sottopancia; il sottoscala / i sottoscala; il retroscena / i retroscena; il retroterra / i retroterra; il doposcuola / i doposcuola.

Nome + preposizione + nome
     In tal caso il plurale dipende da quanto nella lingua parlata si continui a sentire il primo nome come nome principale: se esso è sentito ancora come indipendente allora sarà esso a declinarsi al plurale, altrimenti sarà il secondo.
     Esempi: il ficodindia (fico + di + India) al plurale è i fichidindia, perché si sente che si parla di un fico (il primo nome è quello principale); ma il pomodoro (pomo + di + oro) al plurale è i pomodori (e non i pomidoro) perché il parlante non sente più che la parola principale è pomo (come di fatto era in origine), quindi, perdendosi la percezione della natura composta del nome, lo si tratta come un nome semplice, cambiando solo la desinenza finale.

Nomi composti con più di due parole
     Il plurale è uguale al singolare. Esempio: il tiramisù / i tiramisù; il nontiscordardime / i nontiscordardime.

Nomi composti con la parola capo
     Una riflessione a parte meritano i nomi composti con la parola capo
     Essi formano il plurale a seconda del significato che ha la parola capo. Per comprendere questa differenza esaminiamo le parole capostazione e capocuoco: nel primo caso la parola capo significa “persona che è a capo di” ed è quindi la parola principale del nome composto (“la persona che è a capo della stazione”, quindi stazione è solo una specificazione), mentre nel secondo caso significa “principale”, “il più importante” e quindi la parola principale è l'altra (cuoco) perché qui capo si comporta come se fosse aggettivo (il capocuoco è da intendere come “il cuoco più importante”).
     Ed ecco la regola:
  • quando capo significa “a capo di”, il nome composto forma il plurale volgendo al plurale solo la parola capo – perché è esso il soggetto principale – e lasciando invariata la specificazione: il capoclasse / i capiclasse; il caposquadra / i capisquadra; il capotreno / i capitreno; il capofamiglia / i capifamiglia; il capofila / i capifila; il caporeparto / i capirepartoAttenzione: se il nome composto si riferisce a un individuo femminile il plurale rimane uguale al singolare, perché è chiaro che non si può dire “cape” in quanto capo è un sostantivo solo maschile: le caporeparto; le capofila; le caposquadra ecc.
  • quando capo significa “principale”, “il più importante”, il nome composto forma il plurale volgendo al plurale l'altro nome – che è il soggetto principale – e lasciando invariato la parola capo, che funge da specificazione: il capotecnico / i capotecnici; il capocomico / i capocomici; il caporedattore / i caporedattori; il capoluogo / i capoluoghi; il capoverso / i capoversi. La regola vale anche al femminile: la capocomica / le capocomiche; la caporedattrice / le caporedattrici ecc.

14.4. Nomi che al plurale cambiano genere
     La lingua italiana ha due generi: maschile e femminile. Taluni nomi cambiano il genere quando passano dal singolare al plurale. Ecco quelli più frequenti:

il centinaio (maschile) / le centinaia (femminile)
il migliaio (m.) / le migliaia (f.)
il miglio (m.) / le miglia (f.)
il paio (m.) / le paia (f.) 
il prelio (m.) / le prelia (f.)
il riso (m.) / le risa (f.)
l’uovo (m.) / le uova (f.) 
il dito (m.) / le dita (f.)
l’orecchio (m.) / le orecchie (f.)
il paio (m.) / le paia (f.)
il carcere (m.) / le carceri (f.)
la eco (femminile) / gli echi (maschile) – Eco, in particolare, era il nome di una ninfa greca che, secondo un mito, fu condannata a ripetere sempre le ultime parole di chi udiva. Il genere femminile si è trasmesso al sostantivo.

14.5. Nomi che hanno più di un plurale (plurali sovrabbondanti)
     Altri sostantivi, invece, hanno sviluppato nella storia due tipi di plurali, che a volte non indicano esattamente lo stesso concetto, ma sfumature diverse di quel concetto.      Quasi sempre l’uso di questi plurali multipli è così radicato nella lingua che difatti non è possibile usare uno o l’altro indifferentemente, bensì bisogna tener conto dell’ambito, del registro linguistico e della sfumatura che si vuole rendere.
     Li vediamo elencati qui, con delle precisazioni che specificano l’ambito in cui si possono usare.

Il braccio
  • i bracci (di una bilancia, di una gru, di un fiume...);
  • le braccia (parti del corpo o antica unità di misura).

Il budello
  • i budelli (piccoli tubi stretti o gallerie strette e tortuose);
  • le budella (gli intestini).

Il calcagno
  • i calcagni (parte anatomica, i talloni);
  • le calcagna (usato solo nelle locuzioni mettere alle calcagna, cioè “far seguire qualcuno”, menare levare battere le calcagna, cioè “darsi alla fuga”).

Il cervello
  • i cervelli (organi del corpo o, in senso metaforico, le persone ingegnose – Es. fuga dei cervelli);
  • le cervella (materia di cui è composto il cervello; oppure il piatto da mangiare, per lo più proveniente da animali – Es. mangiare le cervella fritte; oppure ancora termine usato in espressioni idiomatiche come farsi saltare le cervella).

Il ciglio
  • i cigli (intesi come bordi, lembi di una strada, di un fosso, di un canale o di un precipizio; nel linguaggio poetico significava anche per metonimia “sguardo” o “occhi”);
  • le ciglia (degli occhi; oppure gli organuli sporgenti che hanno alcune cellule).

Il corno
  • i corni (strumenti musicali; oppure le parti appuntite o sporgenti di un oggetto – Es. i corni di un incudine);
  • le corna (coppia di organi di animali).

Il cuoio
  • i cuoi (inteso come plurale del materiale o come pluralità di oggetti fatti di cuoio);
  • le cuoia (usato col significato di “pelle di uomo” solo nelle locuzioni tirare le cuoia, cioè “morire”, e, più raro, non star nelle cuoia, cioè “non star più nella pelle”).

Il dito
  • i diti (se considerati separatamente o singolarmente – Es. i diti pollici sono i più corti);
  • le dita (se considerate tutte insieme; oppure le dita in generale).

Il filo
  • i fili (d’erba, fili elettrici, di cotone...);
  • le fila (inteso come elementi guida e di orientamento, come nelle espressioni le fila di un discorso, reggere le fila di qualcosa, cioè essere a capo di qualcosa; oppure le fila di una trama di stoffa).

Il fondamento
  • i fondamenti (gli elementi teorici di base di una scienza o di un concetto, di un discorso);
  • le fondamenta (di un edificio).

Il fuso
  • i fusi (attrezzi da pesca; corna del cervo non ancora ramificate; particolare taglio di carne del pollame; particolare tipo di tecnica di coltivazione di alberi);
  • le fusa (di un gatto: usato ormai solo nell’espressione fare le fusa, con significato ormai indipendente dal termine da cui deriva).

Il gesto
  • i gesti (le azioni mimiche eseguite con le mani; le azioni in senso generico);
  • le gesta (le imprese, per lo più grandiose ed eroiche, di un personaggio importante).

Il ginocchio ha due plurali, che si possono usare indifferentemente senza particolari slittamenti di significato:
  • i ginocchi;
  • le ginocchia.

Il grido ha due plurali, che si possono usare indifferentemente senza particolari slittamenti di significato:
  • i gridi;
  • le grida.

L’interiore (che al singolare non è un nome, ma solo aggettivo) ha due plurali che possono essere usati indifferentemente senza particolari slittamenti di significato:
  • gli interiori;
  • le interiora.

Il labbro
  • i labbri (se considerati separatamente o singolarmente – Es. i labbri superiori sono più carnosi di quelli inferiori);
  • le labbra (se considerate in coppia; oppure le labbra in generale).

Il lenzuolo
  • i lenzuoli (se considerati singolarmente);
  • le lenzuola (se considerate in coppia).

Il membro
  • i membri (i componenti di qualcosa – Es. i membri di una squadra; oppure plurale per indicare gli organi genitali maschili);
  • le membra (parti del corpo intese in generale).

Il midollo
  • i midolli (parte anatomica);
  • le midolla (usato in espressioni idiomatiche nell’accezione di “la parte più interna o più intima” – Es. essere raffinato fin nelle midolla; essere bagnati fino alle midolla).

Il muro
  • i muri (intesi come pareti di un edificio);
  • le mura (intese come le mura protettive di una città antica).

L’osso
  • gli ossi (se considerati singolarmente – Es. gli ossi dell’orecchio interno);
  • le ossa (se considerate in generale).

Il rene
  • i reni (parte del corpo anatomicamente intesa);
  • le reni (usato solo nell’espressione spezzare le reni).

Lo strido ha due plurali, che si possono usare indifferentemente senza particolari slittamenti di significato:
  • gli stridi;
  • le strida.

Lo strillo ha due plurali, che si possono usare indifferentemente senza particolari slittamenti di significato:
  • gli strilli;
  • le strilla.

Il tergo, nel significato di dorso, schiena, ha due plurali, che si possono usare indifferentemente senza particolari slittamenti di significato:
  • i terghi;
  • le terga.

L’urlo ha due plurali, che si possono usare indifferentemente senza particolari slittamenti di significato:
  • gli urli;
  • le urla.

Il vestigio ha due plurali, che si possono usare indifferentemente senza particolari slittamenti di significato:
  • i vestigi;
  • le vestigia;

Il viscere ha due plurali, che si possono usare indifferentemente senza particolari slittamenti di significato:
  • i visceri;
  • le viscere.

14.6. Nomi con doppio plurale e doppio singolare
     Pochi nomi in italiano presentano, oltre che un doppio plurale, anche un doppio singolare. Li vediamo elencati nelle loro diverse sfumature di significato.

il frutto / i frutti (prodotti delle piante; oppure i risultati ottenuti)
la frutta / le frutta (usato per indicare i frutti in generale o quelli che si servono in tavola)
Nota: l’uso del femminile plurale le frutta è oggi molto più raro che in passato, in particolare lo si incontra in toscana, dove la frutta è usato per indicare il frutto singolo, da cui la necessità di fare il plurale con le fruttai’ son quel da le frutta del mal orto, dice frate Alberigo nel XXXIII canto dellInferno di Dante (verso 119).

il gesto / i gesti (movimenti della mano o comunque del corpo)
la gesta / le gesta (imprese di gran rilievo: il singolare è usato raramente)

il legno (parte specifica del tronco; oppure il materiale) / i legni (usato per lo più per indicare, per metonimia, oggetti fatti in legno, come navi o carrozze)
la legna / le legne o le legna (la legna da ardere)

l’orecchio / gli orecchi e l’orecchia / le orecchie (usati tutti indifferentemente col significato della parte del corpo, senza distinzione per uomini e animali, contrariamente a certe voci).

il palmo / i palmi e la palma / le palme (usati tutti indifferentemente col significato della parte del corpo, senza distinzione per uomini e animali, contrariamente a certe voci).

lo sterpaio / gli sterpai e la sterpaia / le sterpaie (usati tutti indifferentemente col significato di luogo pieno di sterpi).

il tomaio / i tomai e la tomaia / le tomaie (usati tutti indifferentemente per indicare la parte superiore delle scarpe).


14.7. Altri plurali irregolari
     A causa della loro derivazione da lingue classiche (greco antico e latino), alcune parole italiane possono presentare plurali apparentemente irregolari.

Ampio (dal latino amplus)
Ampli o ampi (dal latino ampli; la variante ampi è nata in analogia col singolare)

Il belga (dal latino Belga)
I belgi (dal latino plurale Belgae doveva derivare “belge”, ma la desinenza -i si è imposta di necessità per chiarire che si tratta di un genere maschile)

Il bue (dal latino bovem)
I buoi (dal latino boves, volgarizzato in buovi, da cui, per apocope, buoi)

Il dio (dal latino deus)
Gli dei (dal latino dei)

Il tempio (dal latino templum, a sua volta derivato da un verbo greco, tèmno)
I templi o i tempi (dal latino templa; la variante i tempi nasce imitando il singolare ma è poco usata per evitare ambiguità col plurale di tempo)

L’uomo (dal latino homo)
Gli uomini (dal latino homines)


     I casi fin qui proposti hanno voluto essere – e spero che siano stati – una raccolta dei dubbi più frequenti, spiegati con l'approccio più divulgativo possibile.
     Per ogni altro dubbio non chiarito in questo articolo sarà gradita la segnalazione nei commenti.

     In generale, tuttavia, è bene che si tenga sempre a mente il valore insostituibile che ha in questi casi la consultazione di un dizionario, il quale solo può davvero chiarire i dubbi relativi a questo genere di perplessità. Un manuale di grammatica, inoltre, può fare ancor più quando si tratta di ricordare regole più complesse.
     Con le lingue non esistono mai regole universali, che valgano per sempre. Questo perché le lingue sono entità vive, costantemente in trasformazione nellarco dei secoli, spesso nellarco dei decenni. In quanto tali sono continuamente suscettibili di cambiamenti ed è quindi necessario sempre restare aggiornati.