lunedì 31 dicembre 2012

Saluto a Rita Levi Montalcini, 103 anni di Scienza


     Nell’ultimo post di quest’anno voglio chiudere con una notizia di poche ore fa che interesserà tutti gli amanti della scienza e, forse, non solo.
     È deceduta ieri, 30 dicembre 2012, a Roma, Rita Levi Montalcini, la neurologa italiana insignita del Premio Nobel per la Medicina nel 1986 per aver scoperto negli anni ’50 del ’900 il cosiddetto NGF (Nerve growth factor), ovvero il fattore di crescita neuronale. Aveva l’invidiabile età di 103 anni.

La consegna del Premio Nobel (assieme a Stanley Cohen)


     Questa curiosa scienziata, spesso scherzosamente associata a Maria Montessori presente sulla banconota da 1000 lire, dal look fortemente ispirato alla belle époque di inizio ’900, con quell’espressione sempre un po’ sorridente e che usava tenersi le tempie con le dita, ci ha fatto dono di una scoperta che ha permesso di identificare una famiglia di molecole che stanno alla base dello sviluppo delle cellule del sistema nervoso. Si tratta di un risultato straordinario non solo per la comprensione di quello che nel mondo animale è il sistema più complesso ed affascinante, ma anche e soprattutto per le implicazioni terapeutiche che ne sono derivate. Esistono infatti molti disturbi del sistema nervoso (come la sclerosi multipla o il morbo di Alzheimer) in cui le cellule nervose non crescono più o vengono lese: i fattori di crescita neuronali sono appunto uno dei più forti punti di indagine per curare questi disturbi.


     Rita Levi Montalcini è stata insignita di un gran numero di onoreficenze, compresa quella di senatrice a vita della Repubblica italiana, nel 2001. È autrice di un enorme numero di saggi a carattere scientifico ed etico e ha fondato delle associazioni di ricerca per il sostegno della scienza e per la tutela dei giovani studenti.
     Ha sempre creduto fortemente nella ricerca e ha fatto della curiosità il suo stile di vita come scienziata e come donna. Ha sostenuto dibattiti su molte tematiche, tra cui il rapporto tra la scienza e la tecnologia, o lo sviluppo e la crescita delle nuove generazioni o la battaglia contro le mine anti-uomo.
     Atea, così fine nei modi e nel parlare, questa donna straordinaria ha visto passare davanti a sé le forti trasformazioni di oltre un secolo di vita, accumulando un’esperienza invidiabile. Ha devoluto parte dei proventi del suo Premio Nobel alla Comunità ebraica di Roma.



     Rita ha scelto di andarsene assieme a questo 2012 così tumultuoso, fatto di rivelazioni sconvolgenti e di crisi economica. Credo che sia stato un bene per una donna che ha dato così tanto congedarsi da un mondo che non le ha reso affatto grazie del merito che ha avuto, un mondo ingrato che lei, nonostante tutto, ha provato in molti modi a migliorare.

     Grazie, Rita!

  
«Ho perso un po’ la vista, molto l’udito. Alle conferenze non vedo le proiezioni e non sento bene. Ma penso più adesso di quando avevo vent’anni. Il corpo faccia quello che vuole. Io non sono il corpo: io sono la mente!»

(Rita Levi Montalcini)

giovedì 20 dicembre 2012

Il “Cavaliere” oscuro: il ritorno… ma non è Batman


     Eh, no. Purtroppo non è il Batman di Nolan il “Cavaliere” che ritorna. È l’altro, quello “cattivo”, più subdolo… e anche più basso. Silvio Berlusconi ha nei giorni scorsi annunciato la sua ufficiale ridiscesa in campo. L’annuncio è arrivato dopo una serie di lunatiche e contraddittorie dichiarazioni che cambiavano e ricambiavano all’ordine del giorno: a partire dal 12 novembre 2011, infatti, quando Berlusconi ha “fatto un passo indietro” dando le sue dimissioni affinché la dittatura tecnocratica del governo Monti si prendesse le impopolarità che sarebbero toccate a lui, il Cavaliere ha cambiato più volte idea sull’ipotesi di ricandidarsi in politica, con una volubilità degna nemmeno di una pazza isterica.

     Avrebbe prima dichiarato di doversi “fare da parte per il bene del paese”, poi è scattato il progetto dell’ascesa del suo delfino Alfano, che avrebbe dovuto ereditare il suo trono («È ora di Alfano»), poi arriva la puntuale smentita («Non ho mai detto che Alfano sarà il mio erede»), poi ancora va in TV con il suo messaggio di commiato lo scorso 15 ottobre dove dice che “bisogna fare largo ai giovani” e che non avrebbe ripresentato la sua candidatura (la dichiarazione arrivava poche ore prima della sua condanna in primo grado a 4 anni di reclusione per il processo Mediaset), quindi, alfine, questo vecchietto lunatico che ha fatto il bello e il cattivo tempo anche con Monti, ora attaccandolo, ora appoggiandolo, ha deciso che solo il ricordo (deformato e plagiante) che i vecchi fedeli hanno di lui avrebbe potuto risollevare un po’ il PDL nei sondaggi.

     Ed eccolo, dunque, lanciare l’ordine tassativo dalla villa di Arcore: «Dobbiamo saturare la TV prima che scatti la par condicio». E la par condicio, lo sappiamo, non è mai piaciuta a Berlusconi, lui che non è proprio abituato ad avere una controparte nei dibattiti, lui che ama troppo dominare la scena da solo, senza nessuno che lo possa contraddire.
     E la bulimia catodica (come l’avrebbe chiamata Luttazzi) è già cominciata: una serie di appuntamenti mediatici il cui obiettivo è quello di bombardare senza pietà e senza tregua tutte le reti televisive con la sua massiccia presenza, Mediaset e non. L’atteggiamento tipico di un disperato, un piazzista che raschia ormai il fondo e che ricorre ai (soliti) trucchi che lo lanciarono un tempo pur di arraffare quanti più punti possibili nei sondaggi.

     Proprio a Domenica Live, lo scorso 16 dicembre, Berlusconi è rimasto in video per quasi un’ora e mezza in una farsa vergognosa che di fatto si è ridotta a un indisturbato monologo, una auto-intervista fatta senza il minimo contraddittorio, di fronte a una Barbara D’urso che, non essendo nemmeno una giornalista, l’ha praticamente lasciato parlare senza rivolgergli nemmeno una domanda degna di questo nome, anzi, accondiscendendo alle richieste dell’“intervistato” che chiedeva nei fuori onda «Mi domandi anche...», una vicenda che ha sollevato molto sdegno e tante polemiche per la spudoratezza con cui è stata condotta. Topici i temi trattati in quel giorno, tutti segni ineluttabili del suo declino: la solita lotta alla magistratura, la solita lotta ai comunisti, la solita urgenza di riformare la Costituzione (questa brutta e comunistissima Costituzione), l’apologia del premierato assoluto per dare più poteri al premier che ora non ci sono, le solite promesse per comprare gli elettori («Vi tolgo l’Imu!!!»)… e anche la nuova fidanzata!

     Ma il mangiatutto mediatica non si ferma qui: altri appuntamenti sono a Quinta colonna da quel simpaticone di Paolo Del Debbio che, quando ti lascia parlare, pare ti faccia un favore, e dove ha presentato il nuovo “patto del parlamentare”, con cui promette che i parlamentari, per esempio, non potranno presentare più di due candidature e che verranno ridotti in numero ecc…; a Porta a porta dal fido Bruno Vespa (presso cui in passato ha vantato il famoso “patto con gli italiani”, patto, tra l’altro, firmato da solo e senza manco rispettarlo… devono proprio piacergli i patti!); non dimentichiamo poi la seconda capatina a Mediaset a Pomeriggio cinque, poi s’è presentato a Radio anch’io e mettiamoci anche l’incontro previsto domenica a Domenica In – L’arena di Giletti, e ancora su La7 a In onda, da Talese e Porro… Sono previsti altri incontri, tra cui uno anche con Michele Santoro, a Servizio pubblico, sperando che riesca a mantenere il contegno e a rispondere davvero alle domande, contrariamente a quanto ha fatto in passato, quando pretendeva “garanzie” per poter sottoporsi a un’intervista (traduzione: se mi fate domande scomode non vengo!)…

     La legge prevede che la par condicio scatti 45 giorni prima della data delle elezioni. E la data delle elezioni era stata fissata il 17 febbraio: con queste condizioni Berlusconi avrebbe avuto di tempo solo fino al 4 gennaio per poter invadere le reti televisive senza essere contraddetto. Quindi il colpo da maestro: si fanno pressioni sui vertici ed ecco che, col beneplacito di Napolitano, la data scivola al 24 febbraio… e Silvio guadagna una settimana di tempo per ammaliare gli elettori renitenti a rinnovargli la fiducia.

     Ora, diciamoci una cosa tra di noi. Parlo a coloro che hanno ancora un residuo di buon senso e che non hanno ancora “scelto” di appoggiare quest’uomo in via definitiva: gli sono state date innumerevoli occasioni, negli ultimi vent’anni ha governato quasi sempre lui, nel frattempo sono state rubate alla nostra democrazia importantissime conquiste: le riforme della scuola e dell’università (firmate Moratti e Gelmini) hanno impoverito gli istituti e distrutto la ricerca; la sanità sta diventando sempre più a pagamento e continuando così solo chi è ricco potrà permettersi di farsi curare; il mercato del lavoro è crollato, la disoccupazione dilaga, i giovani non possono progettare una vita propria perché non hanno le imprescindibili certezze su cui rendersi indipendenti; la lotta alla mafia è stata ostacolata e ci sono voluti vent’anni per cominciare il processo sulla trattativa che dovrebbe condannare i politici che cercarono l’aiuto dei mafiosi. Nel frattempo molte leggi sono state cambiate, sono stati depenalizzati molti reati che Berlusconi aveva commesso o sapeva di voler commettere, altri processi sono stati fatti cadere in prescrizione (e, lo ribadisco, la prescrizione è solo la rinuncia al processo, non è una sentenza di innocenza); per non parlare poi delle questioni e degli scandali “minori”, ultimo il processo Ruby dove le accuse sono prostituzione minorile e concussione…

     Faccio appello, nel mio piccolo, alle persone che riescono ancora a fare un ragionamento, che non sono plagiate e che non hanno pregiudizi che impediscono loro di considerare altre vie: vi sembra più probabile che un individuo del genere possa giovare al nostro paese, che sia davvero innocente dal numero enorme di questioni giudiziarie in cui è coinvolto (numero di cui si vanta tra l’altro!), oppure credete che sia più probabile che voglia ricorrere ancora al potere per rendersi immune dalla sorte che la giustizia gli riserverebbe? Parliamo di un uomo che in assoluto più di tutti si è dato alla delinquenza collezionando un numero enorme di reati: falso in bilancio, corruzione giudiziaria, corruzione in atti giudiziari, falsa testimonianza, violazione delle leggi anti-trust, tangenti alla Guardia di Finanza, frode fiscale, appropriazione indebita, abuso d’ufficio, diffamazione, concorso esterno in associazione mafiosa (il suo amico e braccio destro Dell’Utri è stato condannato per lo stesso reato), traffico di droga, concorso in strage (le stragi mafiose del 1992-93) ecc…
     Abbiate il coraggio di cercare l’alternativa. Nuovi movimenti stanno nascendo, prendetevi il disturbo di informarvi e di guardare anche altro; ci sono nuovi volti… Comunque scegliate, non cadete nelle trappole retoriche e nelle forme di propaganda ingannevole, non credete alle promesse di chi ha già mentito, non fatevi ammaliare dai progetti grandiosi e non fatevi comprare in alcun modo. Il nostro paese sta morendo ed è anche colpa nostra. Non dobbiamo ripetere gli stessi sbagli! Non scegliete il non-Berlusconi e non scegliete nemmeno il non-Monti: quando si sceglie, si devono valutare gli interessi che possono essere apportati al paese, ovvero al maggior numero di persone possibili. Bisogna informarsi sui candidati, vedere che passato hanno e valutare se diffidare o no di loro: abbiamo i mezzi per farlo anche da soli, lontani dai TG parziali e dai giornali leccaculo.

lunedì 3 dicembre 2012

Contro la dittatura della finanza. È etico pagare il debito?

     Voglio lasciare una lucida e chiara riflessione di Alex Zanotelli sulle contraddizioni e le bugie legate allo spauracchio del debito pubblico. Si tratta di informazioni forse note a qualcuno, ma di certo i più ignorano le dinamiche qui presentate. Ritengo un sacrosanto dovere morale informarsi su queste cose che ci toccano sempre molto più di quanto siamo disposti a voler capire.


Ho riflettuto a lungo come cristiano e come missionario, nonché come cittadino, sulla crisi economico-finanziaria che stiamo attraversando, e sono riandato alla riflessione che noi missionari avevamo fatto sul debito dei paesi impoveriti del Sud. Per noi i debiti del Sud del mondo erano “odiosi” e “illegittimi” perché contratti da regimi dittatoriali per l’acquisto di armi o per progetti faraonici, non certo a favore della gente. E quindi non si dovevano pagare! «È immorale per noi paesi impoveriti pagare il debito», così affermava Nyerere, il “padre della patria” della Tanzania, in una conferenza che ho ascoltato nel 1989 a Nairobi  (Kenya). «Quel debito», spiegava Nyerere «non lo pagava il governo della Tanzania, ma il popolo tanzaniano con mancanza di scuole e ospedali». La nota economista inglese N. Hertz nel suo studio Pianeta in debito, affermava che buona parte del debito del Sud del mondo era illegittimo e odioso.

Perché abbiamo ora paura di applicare gli stessi parametri al debito della Grecia o dell’Italia? Nel 1980 il debito pubblico italiano era di 114 miliardi di euro, nel 1996 era salito a 1.150 miliardi di euro ed oggi a quasi duemila miliardi di euro. «Dal 1980 ad oggi gli interessi sul debito», afferma F. Gesualdi «hanno richiesto un esborso in interesse pari a 2.141 miliardi di euro!» Lo stesso è avvenuto nel Sud del mondo. Dal 1999 al 2004 i paesi del Sud  hanno rimborsato in media 81 miliardi di dollari in più di quanto non ne  avessero ricevuto sotto forma di nuovi prestiti.

È la finanziarizzazione dell’economia che ha creato quella “bolla finanziaria” dell’attuale crisi. Una crisi scoppiata nel 2007-08 negli USA con il fallimento delle grandi banche, dalla Goldman Sachs alla Lehman Brothers, e poi si è diffusa in Europa attraverso le banche tedesche che ne sono state i veri agenti, imponendola a paesi come l’Irlanda, la Grecia… «Quello che è successo dal 2008 ad oggi», ha scritto l’economista americano James Galbraith «è la più gigantesca truffa della storia».

Purtroppo la colpa di questa truffa delle banche è stata addossata al debito pubblico dei governi allo scopo di imporci politiche di austerità e conseguente svendita del patrimonio pubblico. Queste politiche sono state imposte all’Unione Europea dal “Fiscal Compact” o Patto Fiscale, firmato il 2 marzo 2012 da 25 dei 27 capi di Stato della UE. Con il Fiscal Compact  si rendono permanenti i piani di austerità che mirano a tagliare  salari, stipendi, pensioni, a intaccare il diritto al lavoro, a privatizzare i beni comuni. Per di più impone il pareggio in bilancio negli ordinamenti nazionali. I governi nazionali dovranno così attuare, nelle politiche di bilancio, le decisioni del Consiglio Europeo, della Commissione Europea e soprattutto della Banca Centrale Europea (BCE) che diventa così il vero potere “politico” della UE. Il potere passa così nelle mani delle banche e dei mercati. La democrazia è cancellata. L’ha affermato la stessa Merkel: «La democrazia deve essere in accordo con il mercato». Siamo in piena dittatura delle banche.

È il potere finanziario che ha imposto come presidente della BCE Mario Draghi, già vicepresidente della Goldman Sachs (fallita nel 2008!) e a capo del governo italiano Mario Monti, consulente della Goldman Sachs e Coca-Cola, nonché membro nei consigli di amministrazione di Generali e Fiat (Monti fa parte anche della Trilaterale e del Club Bilderberg). Nel governo Monti poi molti dei ministri siedono nei consigli di amministrazione dei principali gruppi di affari della Penisola: Passera, ministro dello sviluppo economico, è amministratore delegato di Intesa San Paolo; Fornero, ministro del lavoro, è vicepresidente di Intesa San Paolo; F. Profumo, ministro dell’istruzione, è amministratore di Unicredit Private Bank e di Telecom Italia; P. Gnudi, ministro del Turismo, è amministratore di Unicredit Group; Piero Giarda, incaricato dei Rapporti con il Parlamento, è vicedirettore del Banco Popolare e amministratore di Pirelli. Altro che “governo tecnico”: è la dittatura della finanza!

Infatti sotto la spinta di questo governo delle banche, il Parlamento italiano ha votato il “Patto Fiscale”, il Trattato UE che impone di ridurre il debito pubblico al 60% del PIL in vent’anni. Così dal 2013 al 2032, i governi italiani, di destra o sinistra che siano, dovranno fare manovre economiche di 47-48 miliardi di euro all’anno, per ripagare il debito. «Noi italiani siamo polli in una macchina infernale», commenta giustamente F. Gesualdi «messa a punto dall’oligarchia finanziaria per derubarci dei nostri soldi con la complicità della politica». E ancora più incredibile è il fatto che sia stato proprio il Parlamento, massima istituzione della democrazia, a mettere il sigillo «a una interpretazione del tutto errata della crisi finanziaria, ponendola nell’eccesso di spesa dello Stato, soprattutto della spesa sociale», così pensa L. Gallino. «La crisi, nata dalle banche, è stata mascherata da crisi del debito pubblico».

Il problema non è il debito pubblico (anche se bisogna riflettere per capire perché siamo arrivati a tali cifre!), ma il salvataggio delle banche europee che ci è costato almeno 4mila miliardi di dollari, a detta dello stesso presidente della UE, Barroso (sembra che il salvataggio delle “banche americane” fatto da Obama sia costato su 14mila miliardi di dollari!).

È chiaro che non possiamo accettare né il Patto fiscale della UE, né la sua ratifica fatta dal Parlamento italiano, né la modifica costituzionale dell’articolo 81, perché a pagarne le spese sarà il popolo italiano.

C’è in Europa una nazione che ha scelto un’altra strada: l’Islanda. La nostra stampa non ne parla. L’Islanda pittosto che salvare le banche (non avrebbe neanche potuto farlo, dato che i suoi debiti si erano gonfiati fino a dieci volte del suo PIL!), ha garantito i depositi bancari della gente ed ha lasciato il suo sistema bancario fallire, lasciando l’onere ai creditori del settore piuttosto che ai contribuenti. E la tutela del sistema di welfare, come scudo contro la miseria per i disoccupati, ha contribuito a riportare la nazione dal collasso economico verso la guarigione. È vero che l’Islanda è un piccolo paese ma può aiutarci a trovare una strada per tentare di uscire dalla dittatura delle banche.
Per questo suggeriamo alcune piste per una seria riflessione e conseguente azione:
  1. Richiesta di una moratoria per il pagamento del debito pubblico;
  2. Indagine popolare (audit) sulla formazione del nostro debito pubblico allo scopo di annullare la parte illegittima, rifiutando di pagare i debiti “odiosi” o “illegittimi”, come ha fatto l’Ecuador di R. Correa nel 2007;
  3. Sospensione dei piani di austerità che, oltre essere ingiusti, fanno aumentare la crisi;
  4. Divieto di transazioni finanziarie con i paradisi fiscali e lotta alla massiccia evasione fiscale delle grandi imprese e degli straricchi;
  5. Messa al bando dei “pacchetti tossici” e della speculazione finanziaria sul cibo;
  6. Divisione delle banche “troppo grandi per fallire” in entità più controllabili, imponendo una chiara distinzione tra banche commerciali e banche di investimento;
  7. Apertura di banche di credito totalmente pubbliche;
  8. Imposizione di una tassa sulle transazioni finanziarie per la “tracciabilità” dei trasferimenti e un’altra sui grandi patrimoni;
  9. Rifondazione della BCE riportandola sotto controllo politico (democratizzazione), consentendole di effettuare prestiti direttamente ai governi europei a tassi di interesse molto bassi.


Sono solo dei suggerimenti per preparare un piano serio ed efficace per uscire dalla dittatura delle banche.

Per chi è interessato alle campagne in atto per un’altra uscita dal debito, consulti:


Se ci impegniamo, partendo dal basso e mettendoci in rete, a livello italiano ed europeo, il nuovo può fiorire anche nel vecchio Continente.

Da parte mia rifiuto di accettare un Sistema di Apartheid mondiale dove il 20% della popolazione mondiale consuma l’80% delle risorse: un pianeta con un miliardo di obesi tra i ricchi, e un miliardo di affamati tra gli impoveriti, e dove ogni minuto si spendono tre milioni di dollari in armamenti e nello stesso minuto muoiono per fame la morte di quindici bambini.

Il mercato, la dittatura della finanza si trasformano allora «in armi di distruzione di massa», dice giustamente J. Stiglitz, premio Nobel dell’economia. «Il potere economico-finanziario lascia morire», afferma F. Hinkelammert «e il potere politico esegue… Entrambi sono assassini».
Diamoci da fare perché vinca invece la vita!

Alex Zanotelli

Napoli, 18 novembre 2012

giovedì 15 novembre 2012

Latine loquimur, n. 8


     Tutto preso da temi di cronaca politica, ho trascurato la rubrica Latine loquimur. Ecco subito tre massime per rimediare!
     Nota: la pronuncia scolastica è quella usata (e insegnata) in Italia; la pronuncia restituita è quella che, secondo le ricostruzioni, veniva realmente usata dai Romani.

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Cicero pro domo sua
[pronuncia scolastica: Cìcero pro domo sua]
[pronuncia restituita: Chìchero pro domo sua]

     Letteralmente significa “Cicerone a favore della sua casa”, intendendo proprio la casa come edificio. L’aneddoto è ben noto: il celebre senatore e avvocato Cicerone era riuscito a far condannare Catilina e i suoi complici dopo la famosa congiura, ma gli avversari politici di Cicerone riuscirono a vendicarsi approvando una legge che mandava in esilio chiunque avesse fatto condannare un cittadino romano senza concedergli l’appello al popolo (ciò che Cicerone aveva appunto fatto con Catilina). Cicerone va in esilio a Salonicco, ma quando torna la sua casa sul colle Palatino non c’è più: il tribuno della plebe Publio Clodio, che aveva fatto appunto approvare quella legge, l’ha fatta radere al suolo e al suo posto ha fatto costruire una statua alla dea Libertas.
     Cicerone non ci pensa due volte: nel 57 a.C. si appella al collegio dei pontefici e fa subito un’arringa, intitolata De domo sua ad Pontifices (“Riguardo la propria casa ai pontefici”), in cui riesce a dimostrare l’illegittimità della legge e a farsi ricostruire la casa a spese dello stato.
     L’espressione è usata per indicare quelle persone che difendono con convinzione e con zelo la propria causa, un proprio interesse, anche al di fuori dell’ambito giurisdizionale. Nell’ambito di una discussione, di una disputa, di un litigio, chiunque si impegni per difendere la sua tesi è un “Cicerone a favore della sua casa”. L’espressione viene usata anche in senso dispregiativo, per indicare quegli amministratori e quei politici che intendono nascondere pubblicamente le proprie mosse fatte con l’esplicito scopo di lucrare illecitamente a danno della collettività.


Corruptissima re publica plurimae leges
[pronuncia scolastica: corruptìssima re pùblica plùrime leges]
[pronuncia restituita: corruptìssima re pùblica plùrimae leghes]

     “Quando lo stato è molto corrotto” (corruptissima re publica) le leggi [sono] tantissime (plurimae leges), col verbo “essere” sottinteso, come spesso avviene in latino. Un proverbio pieno di verità che fornisce un eccellente criterio per giudicare il livello di corruzione di un paese. Quando infatti la corruzione dilaga e si delinque in molti modi, è anche perché chi sta ai vertici del potere ha interesse che questo venga fatto e resti impunito; quindi, invece di combattere il problema agendo concretamente con indagini, controlli, arresti, ci si limita a far finta di disincentivare i reati aggiungendo leggi su leggi, commi su commi, rimpinzando i codici di emendamenti che inaspriscono le pene senza però estinguere i reati.
     L’Italia in queste cose è un esempio perfetto in questo momento: montagne di articoli e norme, molte delle quali si contraddicono l’un l’altra, risultano ben poco efficaci per contrastare la corruzione. Appena si fa una norma, subito si trova il modo di aggirarla e compiere lo stesso reato in un altro modo; allora si finge di rimediare facendo un’altra norma che impedisca questo, ma le scappatoie continuano ad esserci. Un esempio a caso: fino al 1993 per i partiti politici erano previsti dei finanziamenti con denaro pubblico; in quello stesso anno un referendum abrogativo impediva questo finanziamento pubblico, ma i parlamentari non si persero d’animo: giacché il “finanziamento” era stato abolito introdussero il “rimborso elettorale”, in pratica i soldi entravano lo stesso ma si chiamavano con un altro nome. Non a caso proprio in questo periodo si stanno raccogliendo firme proprio per impedire anche questa forma di introiti di fondi pubblici ai partiti. Chissà cosa si inventeranno se il prossimo referendum dovesse abolire anche questo!


Pecunia non olet
[pronuncia scolastica: pecùnia non olet]
[pronuncia restituita: pecùnia non olet]

     Vogliono le cronache storiche di Svetonio (De vita Caesarum, VIII, 23, 3) e Cassio Dione Cocceiano (Historia Romana, LXV, 14, 5) che quando l’imperatore Vespasiano mise una tassa sull’urina raccolta dagli orinatoi pubblici, detta centesima venalium, prevedeva grosse entrate di denaro nelle casse dello stato. L’urina infatti veniva usata per molti scopi nell’età antica: solo le lavanderie ne usavano tantissima per lavare gli abiti, sfruttando, senza saperlo, l’ammoniaca che essa contiene; e anche i conciatori di pelli ne facevano largo uso, rendendola un vero e proprio business. Il figlio di Vespasiano, Tito, restò perplesso da questa forma di tassazione un po’ imbarazzante e rimproverò il padre per quella sua scelta di cattivo gusto. Vuole allora la cronaca svetoniana (e cito letteralmente) che Vespasiano portò «sotto il naso [a Tito] il denaro proveniente dalla prima riscossione, chiedendogli se fosse infastidito dall’odore; e quando quello disse di no, lui rispose: “Eppure viene dal piscio”». “I soldi non puzzano”, pecunia non olet, dunque: come a dire che il denaro è denaro! La frase viene quindi usata per giustificare (a volte cinicamente) il modo poco ortodosso con cui ci si procura soldi, con la scusa che la provenienza del denaro non ha importanza davanti al fine con cui lo si vuole usare.

lunedì 5 novembre 2012

Quando lo Stato uccide: storia di un precario che si toglie la vita


     Dopo l’arrivo “ufficiale” della crisi, ovvero quando il governo Berlusconi non ha potuto più nasconderlo agli italiani a causa degli effetti sempre più forti che essa produceva, l’insediamento del governo Monti ha rappresentato per l’Italia l’esordio della tagliola dell’austerità, la politica del rigore, come la chiamano oggi, con una dicitura che fa raggelare il sangue. Gli effetti di questa politica completamente dimentica dei valori della democrazia e dei reali bisogni delle persone sono arrivati a produrre di tutto: povertà, paura, licenziamenti, calo del potere d’acquisto, fallimenti… e suicidi!
     Il 2012 si è aperto, come tutti ricorderemo, con una serie di eventi luttuosi in cui decine di imprenditori onesti si sono visti costretti a togliersi la vita (qualcuno l’ha fatto dopo aver prima pagato tutti i debiti). E ora, purtroppo, la storia di ripete. Ma a rinunciare alla vita non è stato un “ricco” imprenditore, bensì un precario.

Carmine Cerbera
     Il suo nome è Carmine Cerbera, docente di Storia dell’Arte formatosi all’Accademia della Belle Arti di Napoli. Carmine era precario da anni: grazie alla soppressione del mercato del lavoro doveva accontentarsi di incarichi parziali e temporanei, quando capitavano. Ma dopo l’ennesimo provvedimento del ministro Profumo, che ha portato le ore settimanali di insegnamento da 18 a 24, senza aumento di stipendio, Carmine ha perso le speranze: perché aumentare di un terzo le ore di lezione per chi è già assunto significa poter fare a meno di un terzo di quelli che non sono assunti. Traduzione: migliaia di precari non sarebbero stati assunti più, neanche in via temporanea. Lo stesso Carmine, che appena pochi giorni fa, il 22 ottobre 2012, aveva conseguito la Laurea Specialistica, proprio per aumentare la completezza della sua formazione e poter così “competere” (che termine disumano) meglio nel mercato del lavoro, ha commentato la cosa sulla sua bacheca di Facebook: «Oggi dovrei essere gioioso perché ho conseguito la laurea specialistica ma sono triste perché il ministro Profumo ci sta distruggendo il futuro... siamo precari a vita ammettendo di essere fortunati».

     Un uomo che non si voleva dare per vinto, quindi, che voleva giocarsi fino all’ultima carta. Carmine però viveva con la consapevolezza che il precariato è una cosa voluta e calcolata, una cosa fatta apposta, non un imprevisto; Carmine sapeva bene che non erano le cattedre a mancare (altrimenti perché il MIUR stipulerebbe tutte quelle decine di migliaia di contratti a tempo indeterminato ogni anno?); Carmine viveva in un mondo dove le uniche persone che potevano dargli la capacità di immaginarsi un futuro gliela toglievano ogni giorno, con una nuova decisione “austera”. E quindi si sentiva impotente, condannato, come uno che davanti a sé ha solo la certezza del peggio. Chi vive così non scappa dalla depressione… e se non riesce a vivere neanche quella, la strada che gli resta è una sola: la morte.

     E io me lo immagino, Carmine Cerbera, quel giorno, il giorno dei morti (scelta voluta o curiosa coincidenza?), entrare in bagno, afferrare il coltello con cui tagliava le sue tele, proprio “quel” coltello, quello con cui esprimeva il suo lavoro, avvicinarlo alla gola, esitare qualche istante, magari chiudendo gli occhi, prendere un respiro, l’ultimo respiro, quello del coraggio, e conficcarlo di netto nella carne.

     Così è stato ritrovato il suo corpo, bagnato nel suo sangue.

     Ma il suicidio di Carmine non è un semplice atto di disperazione, che riguarda solo lui e basta. Carmine è stato ucciso. Il suo assassino è lo Stato. Non lo Stato come istituzione (in cui bisogna credere!), ma “questo” Stato, che con il suo operato lo ha indotto a non vedere altra via d’uscita. Sul web si è subito cominciato a parlare di omicidio di Stato. E secondo me il termine si adatta benissimo al caso presente. E indignazione a parte, la cosa è molto più letterale di quanto sembri: la legge italiana riconosce questo tipo di reato nel codice penale sotto la dicitura “Istigazione o aiuto al suicidio”:

«Chiunque determina altri al suicidio o rafforza l'altrui proposito di suicidio, ovvero ne agevola in qualsiasi modo l'esecuzione, è punito, se il suicidio avviene, con la reclusione da cinque a dodici anni.»
 
(Codice penale, art. 580, comma 1)

     Lo Stato colpevole di omicidio, dunque. Lo Stato che uccide. Lo Stato che non si limita a chiedere favori alla Mafia, che non si limita a far entrare i mafiosi in politica, che fa uccidere i magistrati che vogliono far conoscere la verità… ma che va oltre e ammazza anche senza armi e senza mandanti, con una forma più sottile, più subdola, più vile: inducendo al suicidio.

     Carmine aveva 48 anni; morendo, lascia una moglie e due bambine, anche loro senza futuro oltre che senza padre. Ma l’omicidio di Stato di Carmine non susciterà di certo alcun senso di colpa negli autori di questo scempio. Ha richiamato, invece, l’attenzione dei suoi colleghi, precari e non, che si sono mobilitati con un sit in a Roma, davanti al Ministero dell’Istruzione. Gli striscioni recitano «Il precariato uccide», «Di precarietà si muore!» e «Ciao Carmine, continueremo la lotta anche per te!». Parole di sdegno che si intingono nella rabbia della gente e nell’indifferenza di chi non sa governare.

     Vergogna!

sabato 27 ottobre 2012

Processo Mediaset: Berlusconi condannato a 4 anni. Epilogo di una parabola antidemocratica?


     Quattro anni di reclusione. Cinque anni di interdizione dai pubblici uffici. 10 milioni di euro a titolo di provvisionale da risarcire all’Agenzia delle Entrate. È la pena contenuta nella sentenza di primo grado che condanna, tra gli altri, Silvio Berlusconi, accusato di riciclaggio e frode fiscale al termine del processo Mediaset, sulla compravendita dei diritti televisivi.
     La sentenza, di qualche ora fa, arriva dopo dieci anni di indagine e sei anni di processo, anni in cui la Magistratura ha dovuto fare lo slalom tra i vari provvedimenti salva-premier (legittimo impedimento, lodo Alfano…) che Berlusconi si è fatto in questi anni. Ma, ed è quello che importa di più, arriva anche (guarda caso) pochissime ore dopo il videomessaggino stile “Scendo in campo 1994” che il Cavaliere si è fatto mandare in onda sulle sue reti, per annunciare la sua “libera” scelta di non ricandidarsi alle prossime politiche.

     La Magistratura ha scoperto un sofisticato sistema di evasione che serviva a creare fondi neri per Silvio Berlusconi attraverso un passaggio dei diritti dei film a una catena di intermediari e società schermo che aveva il solo scopo di far gonfiare i costi dei diritti televisivi dei film trasmessi in TV: Silvio Berlusconi non comprava dalle major americane da cui provenivano i film, ma da altre persone giuridiche (intermediari e società, di cui alcune di sua stessa proprietà!) a prezzi superiori; in questo modo, da una parte, riusciva ad avere agevolazioni fiscali aumentando il passivo dei suoi bilanci, dall’altra creava fondi neri perché si metteva da parte i soldi della “cresta” che provenivano dal pompaggio dei costi. Secondo i PM che hanno seguito la vicenda, in particolare Fabio De Pasquale, i fondi neri creati e andati tutti esclusivamente a carico di Berlusconi arriverebbero a 270 milioni di euro.

     Tra gli altri imputati figurano Frank Agramo (condannato a 3 anni), il «socio occulto» del Cavaliere in questa faccenda; Fedele Confalonieri (assolto), Daniele Lorenzano (3 anni e 8 mesi), Gabriella Galetto (1 anno e 6 mesi), Paolo Del Bue (prescritto) e altri dirigenti. Ma il «dominus indiscusso», come l’ha definito la Magistratura, è e resta sempre lui: Silvio Berlusconi, a cui i giudici hanno dovuto riconoscere una «naturale capacità a delinquere»; l’ex premier è rimasto «al vertice della gestione dei diritti […] anche dopo la discesa in campo».

     In seguito alla vicenda, Berlusconi ha provato a salvare il salvabile. Ovvero, quel po’ di faccia che crede essergli rimasta. E per farlo ha sfoggiato ancora una volta il suo solito repertorio di dichiarazioni “indignate”: finge di sentirsi sorpreso della condanna, parla di una «accusa totalmente fuori dalla realtà», accusa ancora la Magistratura di fare «accanimento giudiziario» nei suoi confronti ai fini di lotta politica, ma soprattutto non ci ha privati (no, neanche stavolta) dell’invidiabile corredo estate-autunno-inverno di processi giudiziari di cui sarebbe stato vittima in tutti questi anni, citando numeri di processi subiti, spese per avvocati, udienze tenute a suo carico, perquisizioni (ovviamente gonfiando e reinventando un po’ le cifre per rifinire bene la sua immagine di martire delle Toghe Rosse)… Insomma, le solite cose. Un repertorio che dovrebbe aggiornare.

     E dire che si era sforzato anche alcune ora prima, quando volle riandare in onda sul TG5 per farsi trasmettere il videoclip con cui si “congedava” (almeno formalmente) dalla scena politica. Un video un po’ fiacco (molto più passionale quello del 1994), dove si vede un vecchietto consapevole dell’imminente colpo che stanno per infliggergli, che ha parlato delle «follie» che ha fatto per amore dell’Italia (e ne ha fatte eccome, di follie!) e di quanto sia «fiero e consapevole dei limiti della sua opera» (fiero???), che sceglie “liberamente” di fare un passo indietro per fare largo ai giovani che devono continuare a “fare goal” al posto suo. Dà poi la colpa alla “sinistra accentratrice”: dice che in questi 19 anni ha portato l’Italia alla rovina e ha provocato il debito pubblico (anche se poco prima aveva detto, ed è vero, che per quegli stessi 19 anni c’è stato lui per quasi tutto il tempo…).

     Ma rivediamolo, questo videomessaggino, ultimo atto formale della sua discesa in campo. Anzi, rivediamoli entrambi: il primo e l’ultimo. Così chiudiamo il cerchio. Ecco dunque a voi, a mo’ di monito, l’inizio e la fine di questa sgradevole, corrotta, snaturata, manipolatrice, diseducativa e catastrofica avventura politica. L’alpha e l’omega di un politico coinvolto da scandali di mafia, di un presidente illegittimo che secondo la legge (l. n.361 del 1957, art.10) non è mai stato nemmeno eleggibile, di un imprenditore oggetto di indagini di frode fiscale, riciclaggio di denaro sporco e una lunga serie di incalcolabili reati. L’alba e il tramonto di un mito al negativo degno solo della fine che ha fatto.


Annuncio della discesa in campo
(26 gennaio 1994)




Annuncio di addio alla politica
(15 ottobre 2012)




     E, per chi non vuole rinunciare ai particolari della vicenda, ecco la lettura completa della sentenza, dove vengono spiegati tutti i reati e i meccanismi della frode:


giovedì 25 ottobre 2012

Scripta manent, n. 15 – Lingua come identità

     Una delle massime espressioni dell’identità di un popolo è indubbiamente la sua lingua. La lingua dice tanto di un popolo. I dialetti non fanno eccezioni: in particolare, in Italia possiamo vantare da sempre un’enorme varietà di idiomi dialettali, ognuno portatore di una straordinaria ricchezza culturale, che si esprime sotto forma di proverbi, modi di dire, maniere particolare di pronunciare parole, declinare i verbi sotto forma di neologismi che non trovano riscontro nemmeno nella lingua ufficiale.
     Nel dialetto il popolo trova la sua identità… e quando un dialetto si accompagna all’uso della lingua ufficiale le cose vanno bene. Ma se si prova a sopprimere il dilaletto, si mina l’identità stessa di un popolo, lo si rende “orfano” della propria madre… Questo è ciò di cui vuole parlare il poeta siciliano Ignazio Buttitta (1899-1997) in una delle sue poesie più famose, intitolata Lingua e dialettu. Le belle immagini intrise di maternità, tenere ma decise, permettono al poeta di dipingere il suo rammarico per la sorte che sta subendo il dialetto ai suoi tempi.
     Segue al testo parafrasato in italiano il testo originale e un video.


Un popolo
mettetelo in catene
spogliatelo
tappategli la bocca,
è ancora libero.

Levategli il lavoro
il passaporto
la tavola dove mangia
il letto dove dorme,
è ancora ricco.

Un popolo
diventa povero e servo
quando gli rubano la lingua
ricevuta dai padri:
è perso per sempre.

Diventa povero e servo
quando le parole non figliano parole
e si mangiano tra di loro.

Me ne accorgo ora,
mentre accordo la chitarra del dialetto
che perde una corda al giorno.

Mentre rappezzo
la tela tarmata
che tesserono i nostri avi
con lana di pecore siciliane.

E sono povero:
ho i danari
e non li posso spendere;
i gioielli
e non li posso regalare;
il canto
nella gabbia
con le ali tagliate.

Un povero
che allatta dalle mammelle aride
della madre putativa,
che lo chiama figlio
per scherno.

Noialtri l’avevamo, la madre,
ce la rubarono;
aveva le mammelle a fontana di latte
e ci bevvero tutti,
ora ci sputano.

Ci restò la voce di lei,
la cadenza,
la nota bassa
del suono e del lamento:
queste non ce le possono rubare.

Ci restò la somiglianza,
l’andatura,
i gesti,
i lampi negli occhi:
questi non ce li possono rubare.

Non ce le possono rubare,
ma restiamo poveri
e orfani lo stesso.

Ignazio Buttitta, Lingua e dialettu


     La versione in dialetto siciliano:



Un populu
mittitulu a catina
spugghiatulu
attuppatici a vucca,
è ancora libiru.

Livatici u travagghiu
u passaportu
a tavola unni mancia
u lettu unni dormi,
è ancora riccu.

Un populu
diventa poviru e servu,
quannu ci arrobbanu a lingua
addutata di patri:
è persu pi sempri.

Diventa poviru e servu
quannu i paroli non figghianu paroli
e si manciunu tra d'iddi.

Mi nn'addugnu ora,
mentri accordu a chitarra du dialettu
ca perdi na corda lu jornu.

Mentri arripezzu
a tila camuluta
chi tesseru i nostri avi
cu lana di pecuri siciliani.

E sugnu poviru:
haiu i dinari
e non li pozzu spènniri;
i giuielli
e non li pozzu rigalari;
u cantu
nta gaggia
cu l'ali tagghiati.

Un poviru,
c'addatta nte minni strippi
da matri putativa,
chi u chiama figghiu
pi nciuria.

Nuàtri l'avevamu a matri,
nni l'arrubbaru;
aveva i minni a funtani di latti
e ci vippiru tutti,
ora ci sputanu.

Nni ristò a vuci d'idda,
a cadenza,
a nota vascia
du sonu e du lamentu:
chissi non nni ponnu rubari.

Nni ristò a sumigghianza,
l'annatura,
i gesti,
i lampi nta l'occhi:
chissi non ni ponnu rubari.

Non nni ponnu rubari,
ma ristamu poviri
e orfani u stissu.