La scimmia che vedrete in questo video è una femmina di gorilla chiamata Koko. Nel video è nata da poco e una donna la sta nutrendo. La scena è
tenera, ma non è questa la cosa che la rende degna di nota, quanto piuttosto il
fatto che Koko sta “parlando” con la donna chiedendole di mangiare usando il linguaggio americano dei segni (ASL, American Sign Language), ovvero
il linguaggio gestuale che usano i sordo-muti! Per questo motivo Koko è uno
degli animali più famosi della letteratura scientifica psicologica.
Allo stadio in cui la si vede nel video
Koko è ancora molto piccola e conosce pochi segni: tuttavia, anche se in futuro
ne imparerà molti di più, già ora è in grado di dire alla sua caregiver quando
vuole mangiare, bere o quando vuole più cibo.
Guardando attentamente, infatti, si può
notare il segno che Koko fa mettendosi la mano davanti alla bocca, mimando il
segno per la parola “bere”. Nell’inquadratura successiva si nota chiaramente
anche il segno per la parola “mangiare”; più difficile da vedere è invece il
segno per dire “di più” (in inglese “more”) che consiste
nell’avvicinare la punta delle dita di entrambe le mani (lo si vede quando il
timer segna 0:20, 0:23 e 0:27)
Koko è l’abbreviazione della parola
giapponese Hanabiko, che vuol dire
“fuochi d’artificio per bambini”: questo nome le fu dato perché è nata il
giorno del 4 luglio, che per gli americani è il Giorno dell’Indipendenza. È
venuta al mondo in cattività, perché fu partorita nello zoo di San Francisco e
il prossimo 4 luglio compirà 41 anni (è nata nel 1971).
Una scimmia speciale
Perché Koko è una scimmia speciale?
Normalmente gli umani sono in grado di interpretare le varie forme di
comunicazione di molti animali: un cane che abbassi le orecchie e metta la coda
tra le gambe indica paura; un uccello che apre le penne vicino a una femmina e
mostra fiero il suo piumaggio si sta esibendo in un corteggiamento, indicando
appetito sessuale; una leonessa nel suo periodo di fertilità rilascia molecole
chimiche che vengono annusate dai leoni maschi (anche a molti chilometri di
distanza) i quali capiscono che la femmina è pronta per l’accoppiamento… Tutti
questi sono però esempi di comunicazione unilaterale
in cui un animale usa il suo proprio
codice comunicativo per mandare un messaggio a un altro animale. Il caso di
Koko invece è diverso: questa femmina di gorilla è stata addestrata in tanti
anni a comunicare non agli umani, ma con gli umani e non usando il suo codice comunicativo, bensì un
codice linguistico che è stato inventato dagli umani (quindi un codice che non è suo)! In questo modo la
comunicazione che avviene tra essa e gli umani è una comunicazione bilaterale, ovvero: gli uomini possono
comunicare con Koko e viceversa con una forma codificata di linguaggio che non
è propria dell’animale, ma che viene appresa dall’animale!
Koko in azione
In questa scena vediamo un esempio di come
Koko riesca a comunicare, avendo così un’idea generale di quello che questa
femmina di gorilla sa fare. La dott.ssa Patterson fornisce a Koko un libro
sugli animali, che Koko sfoglia con interesse (da notare il modo con cui Koko
gira le pagine!). Koko segnala subito le illustrazioni che la colpiscono mimandone
il concetto tramite gli appositi segni: quando vede dei fiori, per esempio,
mima il segno per “fiore” (quando il timer segna 0:11) che consiste nel toccarsi le narici con la punta
delle dita della mano; oppure quando vede l’immagine di un gatto rosso, si
tocca le labbra perché le viene in mente uno dei suoi gattini domestici che si
chiamava “Rossetto” (“Lipstick” in inglese, dove “lip” vuol dire “labbro”). Dopo
aver finito il libro, Koko apre anche la busta col biglietto di accompagnamento
(perché il libro era un regalo) che ha sulla copertina un gattino: anche qui
Koko segnala di aver capito e mima subito il segno di “gatto” (timer a 1:41).
Poi la dott. Patterson chiede esplicitamente
a Koko di scegliere la sua immagine preferita («Show your favourite picture») e
Koko non ci pensa due volte: riapre il libro (sfogliandolo non più pagina per
pagina, ma come facciamo noi umani quando cerchiamo una pagina in particolare),
trova l’immagine del gattino rosso, lo bacia, lo indica e si ritocca di nuovo
il labbro per dire che gli ricorda il suo gattino “Rossetto”. Come dirò più
avanti, infatti, Koko aveva una forte predilezione per i gattini domestici.
E quando a Koko viene chiesto di trovare
un’immagine per Ron (si tratta di Ronald
Cohn, un ricercatore che ha collaborato con la dott.ssa Patterson e che ha
documentato la gran parte delle sessioni di addestramento e della vita di Koko),
il gorilla sceglie il disegno di un alligatore con la bocca aperta che mostra i
denti. Appena Ron arriva Koko gli mostra di avergli attribuito la figura e, capendo
che forse la cosa non è lusinghiera, si scusa dicendo di sé che è una scimmia
educata mimando il segno di “educato” (timer a 3:56) che si fa indicando col dito pollice il centro del proprio
petto; infine, con una buffissima mossa che vi farà cadere dalla sedia per le
risate, si copre il volto con le mani dalla vergogna!
Una lunga tradizione
sperimentale
Quello di Koko non è il primo caso di
primate in grado di comunicare con gli umani nella letteratura scientifica:
prima di lei altri esperimenti simili furono condotti e con diverse specie di
scimmie. Famoso e degno di nota più di tutti è forse il caso della scimpanzé Washoe (morta nel 2007) che dalla fine
degli anni ’60 del 1900 cominciò a essere istruita nel linguaggio dei segni dai
coniugi Allen e Beatrix Gardner e che imparò circa 350 segni. Washoe fu perfino
in grado di insegnare alcuni segni ai suoi simili, che quindi comunicavano col
linguaggio dei segni tra loro!
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Lo scimpanzé Washoe (a sinistra) con uno dei suoi caregiver, Allen Gardner; e la scimmia bonobo Kanzi (a destra) con la sua primatologa Sue Savage-Rumbaugh. |
Altro caso famoso di primate istruito al
linguaggio ASL è lo scimpanzé bonobo chiamato Kanzi che imparò a comunicare con gli umani usando i simboli di
un’apposita tastiera dotata di simboli geometrici: la madre di Kanzi non riuscì
mai a imparare questa forma di linguaggio, perché era troppo adulta, invece
Kanzi imparò osservando i ricercatori che tentavano a insegnare a sua madre.
Questo avvenne perché gli animali hanno dei periodi in cui posso imparare certe
abilità che invece non sono in grado di apprendere una volta che quel periodo è
scaduto (questo vale anche per gli umani ovviamente: bambini a cui non viene
insegnato a parlare durante l’infanzia non sono in grado di farlo più o di
farlo correttamente se glielo si insegna dopo quel periodo). Tra l’altro Kanzi,
fu capace di imparare anche un po’ di linguaggio ASL guardando proprio i video
di Koko!
Perché proprio il
linguaggio dei segni?
I primi esperimenti in cui si addestrarono
i primati non umani a comunicare con gli umani miravano a ottenere al
linguaggio di tipo verbale, ovvero si voleva insegnare alle scimmie a produrre
parole vere e proprie. Tuttavia questa idea dovette essere abbandonata per
almeno due motivi: innanzitutto perché per articolare suoni verbali come quelli
umani (che non sono versi, ma suoni complessi e molto vari), occorre coordinare
una serie di muscoli in un modo altamente preciso e questo a sua volta richiede
una parte di cervello capace di organizzare la contrazione corretta di quei
muscoli, una caratteristica che non è presente nei primati non umani; inoltre
le scimmie sono anatomicamente sprovviste di quelle strutture fonatorie con cui
noi umani riusciamo ad articolare i nostri fonemi linguistici (occorre una
certa dentatura, la presenza di seni paranasali fatti in un certo modo, una
certa lingua e una certa laringe per parlare come noi facciamo).
Vita di un gorilla
parlante
Il “progetto Koko” fu gestito dalla
dott.ssa Francince “Penny” Patterson,
PhD., una psicologa laureatasi all’Università di Stanford, che ha compiuto un
lavoro eccelso sia per quanto riguarda l’addestramento di Koko sia per la delicatezza
e il tatto dimostrati nel trattamento dell’animale. Il progetto infatti è
durato parecchi anni, al punto che la dott.ssa Patterson è praticamente
invecchiata assieme a Koko!
La
Patterson infatti ha trattato Koko come se fosse un vero e proprio bambino: l’ha
fatta vivere in un ambiente che fosse il più possibile ricco di caratteristiche
umane e per questo almeno nei primi tempi è stata scelta una roulotte appositamente
allestita con tutto il necessario (stoviglie per mangiare, coperte, un armadio,
frigorifero, un televisore…); ogni mattina quando Koko faceva pipì in un
apposito vasino, la dott.ssa ne raccoglieva un campione per monitorare la sua
salute; nei periodi di freddo a Koko venivano fatti indossare dei vestiti (il
suo preferito era un maglioncino rosso); l’alimentazione era soprattutto a base
di frutta (i gorilla sono vegetariani); quando Koko faceva qualche marachella
veniva “sgridata” ed educata quindi sulle norme comportamentali da tenere in
certi contesti (non rompere gli oggetti, per esempio); ma soprattutto Penny
Patterson ha avuto la felicissima intuizione di insegnare a Koko il linguaggio
dei segni accompagnandolo con il linguaggio parlato. Penny parla a Koko come se
fosse un bambino piccolo e questa è una cosa da non sottovalutare.
Se questa psicologa si fosse comportata
come i coniugi Gardner che parlavano a Washoe usando i soli segni gestuali,
avrebbe limitato molto la sua capacità comunicativa: accompagnando invece all’uso
dei segni anche le parole, la dott.ssa Patterson ha dato a Koko un numero
enorme di stimoli, e questo ha avuto come conseguenza un grande ampliamento del
suo lessico. Koko è stata così in grado di produrre
oltre 1000 segni gestuali e di comprendere
oltre 2000 parole in lingua inglese. Domanda: perché Koko comprende più parole
di quante ne sappia produrre?
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La psicologa dott.ssa Francine Patterson mentre addestra Koko nell'uso del linguaggio dei segni. |
Mentre la comprensione di parole è un atto puramente mentale (se c’è l’udito
è il cervello a elaborare automaticamente i suoni delle parole e ad associargli
un significato), pronunciare parole
(o comunque produrre segni gestuali
che le rappresentino) è qualcosa di performativo, ovvero che richiede l’uso di
una serie di muscoli che funzionino in maniera coordinata: questo vale per il
linguaggio verbale, perché per parlare usiamo molti muscoli – muscoli
intercostali e diaframma per la respirazione (ci serve aria per parlare),
muscoli delle labbra, lingua, muscoli per muovere la mandibola -, ma anche nel
caso di linguaggio dei segni, dal momento che per produrre segni si usano le
mani e le braccia. A loro volta i muscoli sono mossi grazie all’azione di
specifiche aree cerebrali che, funzionando volontariamente, richiedono uno
sforzo mentale molto maggiore per essere attivate.
Poiché quindi capire parole è più facile
che produrle, è normale che Koko conosca il significato di un numero di parole
doppio rispetto a quelle che sa produrre: questo avviene anche coi bambini
umani, del resto, i quali comprendono molte delle richieste e delle frasi
semplici dei loro genitori, pur non essendo ancora in grado di produrre quelle
parole. Se la dott.ssa Patterson non avesse parlato a Koko, questa femmina di
gorilla non avrebbe imparato a comunicare in un modo così straordinariamente
cosciente e preciso.
Consapevolezza
comunicativa o automatismi indotti?
La prima obiezione della parte più
scettica del mondo scientifico ad essere sollevata riguardò il fatto che Koko
possa non essere per nulla consapevole di quello che fa quando usa il
linguaggio ASL: per molti scienziati cioè Koko sarebbe stata addestrata a
produrre quei gesti in maniera meccanica, automatica e senza davvero
comprendere il significato che rappresentano. Questo modo di addestrare gli
animali ha un nome preciso: si chiama condizionamento
operante ed è un tipo di apprendimento in cui un soggetto (anche umano) viene
invogliato a produrre un certo tipo di comportamento attraverso la
somministrazione di “ricompense” (chiamate tecnicamente rinforzi) che hanno lo scopo di “premiare” l’esecuzione corretta di
quel comportamento e aumentare così la probabilità che quello stesso
comportamento sia ripetuto nel futuro. Questo accade, per esempio, tutte le
volte che si addestrano animali come i cani nei film: attraverso palline di
cibo (rinforzi) si premia l’animale quando esso riesce a eseguire certi
movimenti in modo da spingerlo a farlo anche in futuro sotto l’aspettativa di
quella stessa ricompensa. O, citando un famoso esperimento della scuola
psicologica comportamentista, col condizionamento operante lo psicologo Burrhus Skinner addestrò molti animali
a fare molte cose “particolari”, come i piccioni addestrati a giocare a una
variante del ping-pong:
in quello spassosissimo esperimento si vedevano due piccioni che si lanciavano
una pallina e il piccione che riusciva a lanciare la pallina verso il suo “avversario”
senza fargliela rimandare indietro aveva diritto a mangiare un pezzo di cibo.
Ora, nel condizionamento operante non
importa quanto l’animale sia consapevole di ciò che fa e, poiché a Koko
venivano insegnati i segni ASL proprio attraverso l’uso di questa tecnica, è
lecito pensare che essa li esegua senza sapere cosa significhino. Alcune evidenze,
tuttavia, hanno demolito questo tipo di dubbi, dando la dimostrazione che
invece la consapevolezza del significato dei segni c’è eccome. Se Koko,
infatti, fosse stata semplicemente “vittima passiva” del condizionamento
operante, avrebbe dovuto riprodurre i segni solo quando a essi fosse seguita
una ricompensa (la risposta si estingue infatti se non viene più seguita dal
rinforzo): invece nel corso di tanti anni di vita assieme alla dott.ssa
Patterson, Koko ha usato molte volte quei segni autonomamente senza ricevere
alcuna ricompensa per comunicare cose precise (sentimenti, giudizi, bisogni),
spesso sotto esplicita richiesta (dimostrando così di “capire” la richiesta) e
addirittura in maniera autonoma e creativa, arrivando perfino ad inventare
segni nuovi con quelli che già conosceva per indicare nuovi oggetti o nuovi
pensieri, come quando, per esempio, non conoscendo il segno per dire “anello”,
usò i due segni “dito” e “bracciale” per dire “bracciale da dita”: esempi come
questo dimostrano che il linguaggio dei segni, imparato sì tramite le tecniche
del condizionamento operante, è tuttavia usato in maniera autonoma e
consapevole una volta appreso il suo significato, il che è proprio ciò che sta
alla base della comunicazione. Esiste un coinvolgimento mentale che non è
puramente “automatico”, una forma di introiezione del concetto che permette all’animale
di usarlo adeguatamente e autonomamente, una volta appresa la sequenza di
movimenti per produrlo: questo, tra l’altro, avviene anche nell’apprendimento
umano, in cui la consapevolezza viene dopo.
Una prova
In questo video possiamo avere molte prove
di quanto appena detto: la dott.ssa Patterson fornisce a Koko un palloncino
giallo e le chiede di lavorare di fantasia («Be imaginative!») con quell’oggetto
e di giocarci o farci qualcosa di creativo (da notare che la richiesta, eseguita
in pieno, viene fatta verbalmente, e questo prova il fatto che Koko comprende
anche il linguaggio parlato): Koko inizia a giocherellare col pallone, ma poi
le viene in mente una cosa e si tocca la bocca. Si tratta di una rievocazione
mnemonica riferita al giorno prima in cui Koko si era colorata di giallo la
lingua con un pennarello con inchiostro non tossico: il colore del palloncino è
lo stesso del pennarello e Koko indica spontaneamente
che la sua lingua è dello stesso colore del palloncino (l’episodio viene
mostrato nello stesso video). Con questo gesto Koko dimostra di rievocare coscientemente
un ricordo recente, di avere coscienza di sé (la lingua colorata è la sua) e di
esprimere un giudizio (nel caso specifico una comparazione tra due oggetti che
hanno qualcosa in comune).
Dopo un’altra richiesta di giocherellare
col palloncino («Can you juggle it?») e di trattarlo come se fosse un bambino («Can
you pretend it’s a baby?»), entrambe eseguite correttamente, il giorno dopo
Koko compie sullo stesso palloncino un atto creativo. Le viene dato un
pennarello nero e sul palloncino viene disegnata una faccina: Koko comincia a
scriverci sopra (stando perfino attenta a non farlo scoppiare!). Apparentemente
non sta facendo nulla, ma quando la dott.ssa Patterson le si avvicina Koko fa
capire che sta disegnando dei peli sulla faccina per farla assomigliare a un
gorilla (lo fa quando si tocca i peli del braccio destro). Finita l’opera d’arte
e soddisfatta del suo lavoro, Koko esprime un giudizio su se stessa mimando il
segno per dire “buono” e saluta mandando dei baci.
Tutti questi esempi, assieme a tanti altri
accumulati nel tempo, dimostrano l’uso consapevole e autonomo da parte di Koko
del linguaggio che ha imparato.
Gli amici di Koko
Per garantire il rispetto della natura di
Koko, la dott.ssa Patterson si è guardata bene dall’isolarla completamente dai
suoi simili. Molte sono state le gite fatte fuori all’aria aperta e Koko ha
avuto nel corso della vita anche dei compagni di giochi: si tratta in
particolare dei due gorilla maschi chiamati Michael (morto nel 2000) e Ndume.
Michael, in particolare è stato il primo compagno di Koko e le è rimasto vicino
per molti anni, condividendo i suoi giochi nella sua gabbia, arrampicandosi con
lei sugli alberi, prendendosi a scappellotti con lei, ma soprattutto imparando
da lei molti dei segni con cui comunicava.
In questo video la dott.ssa Patterson
mostra a Koko dei gorilla maschi dello zoo e Koko “sceglie” il suo preferito
(che è Ndume) dando un grosso bacio sullo schermo. Si tratta di una modalità di
scelta del partner chiamata video dating (appuntamento tramite video).
Le emozioni di un
gorilla
Uno dei gradi più alti di evoluzione
psichica nel mondo animale è rappresentato dalle emozioni. Si discute spesso se
gli animali ne possiedano e, se sì, fino a che punto. Una delle maggiori
testimonianze della sfera emotiva di Koko viene dalla sua personale esperienza
coi gattini. Koko ha sempre amato avere animali domestici da coccolare e il suo
preferito è arrivato nel 1984: fu proprio Koko a chiederne uno alla dott.ssa
Patterson e lei glielo portò. Si trattava di un esemplare di Manx (o gatto dell’isola
di Man), che hanno la caratteristica di avere la coda corta a causa di una
mutazione della colonna vertebrale: questo gatto fu scelto dalla stessa Koko,
che le diede il nome di “All Ball” (“Tutta Palla”).
Koko giocava e coccolava i gattini con
sincero coinvolgimento: spesso li prendeva in braccio, li stringeva a sé con
entrambe le mani, altre volte si sdraiava a terra con loro, li accarezzava. E
All Ball era il suo preferito. Quando un giorno All Ball fu investito da un’automobile,
la dott.ssa Patterson andò a dirlo a Koko (che conosce anche il concetto di
morte) e la sua reazione fu più esplicita che mai: dopo aver compreso i segni
della sua Penny, Koko comunicò immediatamente il suo stato d’animo segnando le
parole “brutto”, “triste” e “piangere”.
Lasciata da sola nella sua gabbia, è stata anche udita emanare dei versi simili
a un pianto.
All Ball non è stato l’unico animale di
Koko. Molti altri le hanno tenuto compagnia nel corso della sua vita.
Altro esempio della capacità di Koko di
esprimere emozioni può essere dato da quest’altro video in cui Koko guarda uno
dei suoi film preferiti. Si tratta della pellicola Un tè con Mussolini (di Franco Zeffirelli, 1999). Durante la
visione Koko dimostra empatia emotiva segnalando come triste la scena in cui il
piccolo Luca deve salire sul treno e separarsi da coloro che si sono prese cura
di lui. Si volta dando le spalle allo schermo e quando la dott.ssa Patterson
dice a Koko che è coraggiosa, lei segnale “buono” per dire che è contenta che
venga considerata così. Ma poi, comprendendo il disagio dell’animale, la
Patterson le chiede «C’è qualcosa che posso fare per te?» Koko risponde “sorriso”.
Vuole che la sua caregiver sorrida e spiega anche perché, comunicando come si
sente in quel momento: “triste”, “piangere”, “brutto”, “guaio”. E subito dopo
aggiunge ciò che vorrebbe per “correggere” quello stato d’animo: “madre”, “amore”.
In quest’ultimo esempio la capacità emotive
di Koko si è dimostrata ancora più acuta che nel caso precedente: mentre nel
video precedente infatti Koko ha comunicato un
suo stato d’animo, in questo ha dimostrato empatia per gli stati d’animo altrui.
Koko oggi
Koko fu “prestata” nel 1972 (quando aveva
un anno) alla dott.ssa Patterson dallo zoo di San Francisco, che aveva sul
gorilla diritti di proprietà a tutti gli effetti. Tuttavia, nel corso di tanti
anni di vita comune vissuta quotidianamente, tra Koko e la psicologa è nato un
legame che forse non si esagera a definire del tipo madre-figlia. Per questo
motivo la dott.ssa Patterson ha fondato nel 1976 (assieme al succitato Ronald
Cohn) la fondazione no profit The Gorilla Foundation per acquistare Koko
dallo zoo in cui è nata.
Koko
vive attualmente alla fondazione, sempre assistita dalla sua caregiver e nei
pressi della casa di questa, in una struttura allestita appositamente per lei.
La fondazione si propone di raccogliere fondi per aprire una riserva per i
gorilla nell’isola di Maui, la seconda isola delle Hawaii per estensione. Si spera
anche di far accoppiare Koko con il suo amichetto Ndume.
Riferimenti
Quanto esposto fin qui è solo un ingiusto
sunto di questa commovente vicenda scientifica. Perciò, per chi fosse
interessato ad approfondire, lascio alcuni riferimenti che possano fungere da
fonti di informazioni.
In primis non posso non citare il
documentario girato nel 1978 sulla vita di Koko intitolato Koko: a talking gorilla,
diretto da Barbet Schroeder: il documentario parla del lavoro e della vita
della dott.ssa Patterson, dura appena 1 ora e 20 minuti, è ricco di interviste alla dott.ssa Patterson e di scene di vita quotidiana di Koko, ed è visibile attualmente su YouTube su questo link.
Inoltre sono da citare i libri scritti su
Koko proprio dalla dott.ssa Patterson:
- The education of Koko;
- Koko’s kitten;
- Koko-Love: conversations with a
signing gorilla;
- Koko’s story.
Infine, siete liberi di sbirciare su
Youtube o in rete dove vogliate cercando i video di questo gorilla prodigio… e
vi assicuro che la cosa vi divertirà molto.
Curiosità
Nel film L’alba del pianeta delle scimmie (di Rupert Wyatt, 2011) viene
ripresa questa vicenda con numerose citazioni: allo scimpanzé Cesare
(realizzato interamente al computer) viene insegnato il linguaggio non verbale per
comunicare con gli umani e con i suoi simili e in una scena del film indossa un
maglioncino rosso simile a quello che Koko preferiva tra quelli del suo guardaroba (come mostrato
nel documentario). Il riferimento è ovviamente molto vicino anche al caso dello
scimpanzé Washoe.