giovedì 23 febbraio 2012

Scripta manent, n. 13 - Potere di una carezza

     Uno degli aspetti più belli delle scienze della psiche è che grazie a esse possono essere compresi finissimi meccanismi che influiscono in maniera anche fortemente incisiva sull’agire quotidiano, sebbene la loro portata non sia immediatamente evidente nell’esperienza di chi osserva ingenuamente il comportamento umano. Eric Berne (1910-1970) è stato un importante psicologo autore di una teoria chiamata analisi transazionale, che è un modo di spiegare i legami e i rapporti sociali alla luce del concetto di “transazione”, ovvero lo scambio di forme di riconoscimento tra persone, dove per riconoscimento s’intende qualunque modo gestuale o verbale con cui un individuo A mostra a un individuo B di dargli la sua attenzione.
     Quest’argomento è molto affascinante, perché va a sviscerare molti meccanismi con cui noi costruiamo senza saperlo le relazioni col resto del mondo: le relazioni sociali, infatti, hanno un elevatissimo potere autopoietico sull’individuo, poiché tramite quelle forme l’individuo si forma una personalità sua, la quale a sua volta lo porterà a fare delle scelte che influenzeranno il mondo dal quale egli ha ricevuto stimoli. In uno dei suoi libri in cui si affronta l’argomento, Berne si concentra sui cosiddetti “giochi”, ovvero tutte quelle tacite regole che seguiamo involontariamente quando viviamo relazioni sociali: queste ultime sono classificate in “schemi tipici” (i giochi, appunto), che si ripetono con criteri ben precisi e da cui ci si dovrebbe poter liberare.
     Il seguente passo, tratto dalle prime pagine di A che gioco giochiamo (titolo originale: Games people play), contiene una breve esposizione del nucleo della teoria dell’analisi transazionale: l’autore parte proprio dall’origine, dalla causa prima da cui muove tutto il nostro bisogno di ricevere riconoscimenti dagli altri e ne sottolinea l’importanza e il ruolo nel nostro modo di instaurare legami con gli altri. Credo che rappresenti un interessante punto di partenza per chiunque voglia vivere in maniera meno inconsapevole e, quindi, più equilibrata il suo rapporto con gli altri.


     La teoria del rapporto sociale, abbastanza diffusamente trattata in Analisi transazionale, può essere così riassunta.
     Spitz ha notato che i neonati privati di cure manuali per un certo periodo di tempo alla lunga tendono a sprofondare in una irreversibile depressione per soccombere infine a disturbi intercorrenti. In sostanza questo significa che la privazione emotiva, come la chiama Spitz, può avere un esito fatale. Queste osservazioni portarono alla formulazione del concetto di fame di stimolo e indicarono che le forme di stimoli particolarmente desiderate sono quelle generate dall’intimità fisica; e alla luce dell’esperienza quotidiana non è difficile accettare questa conclusione.
     Un fenomeno analogo si nota negli adulti soggetti a privazione sensoria. Sperimentalmente essa può provocare una passeggera psicosi, o almeno disturbi mentali temporanei. Già in passato si era notato che la privazione sociale e sensoria aveva avuto effetti del genere sui detenuti condannati a lunghi periodi di isolamento. Infatti l’isolamento è una delle punizioni più temute anche dai detenuti incalliti alla brutalità fisica, e ai nostri giorni è diventato, come si sa, un sistema per ridurre all’obbedienza gli avversari politici. (Viceversa, l’arma migliore per combattere l’acquiescenza politica è l’organizzazione sociale).
     Dal punto di vista biologico, è probabile che la privazione emotiva e sensoria tenda a instaurare o almeno a favorire dei mutamenti organici. Se il sistema attivatorio reticolare del cervelletto non riceve abbastanza stimoli, si può avere una degenerazione delle cellule nervose, per lo meno indirettamente. Può darsi che si tratti di un effetto secondario dovuto a difetto d’alimentazione, ma questo a sua volta può derivare da apatia, come nei bambini sofferenti di marasma. Si può dunque postulare l’esistenza di una catena biologica che va dalla privazione emotiva e sensoria all’apatia e di qui alle modifiche degenerative e alla morte. In questo senso la fame di stimolo ha con la sopravvivenza dell’organismo umano lo stesso rapporto della fame di cibo.
     Difatti si può stabilire un parallelo tra fame di stimolo e fame di cibo non solo sotto l’aspetto biologico ma anche sotto l’aspetto psicologico e sociale. Certi termini come denutrizione o sazietà, goloso, buongustaio o parco, sono passati dal campo dell’alimentazione a quello delle sensazioni. Come ci si rimpinza di cibo ci si può anche rimpinzare di stimoli. Nell’uno e nell’altro caso, quando le provviste sono abbondanti ed è possibile variare il menu, la scelta viene notevolmente influenzata dalle idiosincrasie individuali. Può darsi che in parte più o meno cospicua le idiosincrasie abbiano una motivazione costituzionale, ma questo non riguarda i problemi qui trattati.
     Lo psichiatra sociale si occupa di ciò che accade dopo che il bambino viene separato dalla madre, nel corso normale della crescita. Quanto si è detto fin qui si può riassumere, alla buona, così: “Senza carezze, non si cammina a petto in fuori.” Perciò, finito il periodo di stretta intimità con la madre, l’individuo si trova per il resto della vita di fronte a un dilemma che mette in gioco il suo destino e la sua sopravvivenza. Un corno del dilemma è rappresentato dalle forze sociali, psicologiche e biologiche che si oppongono alla perpetuazione dell’intimità fisica di tipo infantile; l’altro dallo sforzo continuo che si fa per perpetuarla. L’individuo finisce col ricorrere quasi sempre ad un compromesso. Impara ad accontentarsi di forme di toccamento più sottili, simboliche perfino, al punto che un semplice cenno di saluto serve in qualche misura allo scopo, anche se non soddisfa la fame di contatto fisico originaria.
     Si possono dare più nomi al processo del compromesso: sublimazione, per esempio. Ma comunque lo si chiami, porterà ad una parziale trasformazione della fame di stimolo infantile in quella che si può chiamare fame di riconoscimento. Via via che il compromesso si arricchisce di complicazioni l’individuo diventa più personale nella scelta dei mezzi che gli procurano il riconoscimento; le differenziazioni producono la varietà dei rapporto sociali e determinano il destino individuale. Per andare a testa alta e petto in fuori, il divo del cinema ha bisogno di centinaia di carezze alla settimana da parte di ammiratori anonimi, mentre alla salute fisica e mentale dello scienziato basta una carezza all’anno da parte di un venerato maestro.
     Con “carezza” si indica generalmente l’intimo contatto fisico; nella pratica il contatto può assumere forme diverse. C’è chi accarezza il bambino, chi lo bacia, chi gli dà un buffetto o un pizzicotto. Tutti questi gesti hanno un corrispondente nella conversazione: basta sentir parlare una persona per capire come si comporta con i bambini. Per estensione, con la parola “carezza” si può indicare familiarmente ogni atto che implichi il riconoscimento della presenza di un’altra persona. La carezza perciò serve come unità fondamentale dell’azione sociale. Uno scambio di carezze costituisce una transazione, unità del rapporto sociale.

Eric Berne, A che gioco giochiamo, Introduzione, 1. Il rapporto sociale



mercoledì 22 febbraio 2012

Piantina preistorica russa ritorna in vita dopo 30 mila anni

     Ricordate il film Jurassic Park? In quella pellicola degli scienziati riportavano in vita diversi esemplari di dinosauri utilizzando i residui del loro DNA rinvenuti in fossili animali. «Fantascienza!», dicevamo allora sorridendo! Ora non più. Una cosa simile è stata infatti annunciata poche ore fa dal mondo della scienza: degli scienziati russi sono riusciti a riportare in vita una pianta preistorica, conservata nel ghiaccio per più di 30 mila anni!
     I protagonisti di questa vicenda sono un team di ricercatori dell’Accademia russa delle Scienze, il più importante centro di ricerca scientifica di questo paese: nel 2007 in una località remota della Siberia furono rinvenuti alcuni semi di una pianta molto diffusa nell’era del Pleistocene. Si tratta di Silene stenophylla, una pianta spermatofita, cioè una pianta che si riproduce tramite semi; nella fattispecie si tratta di un’angiosperma, ovvero una pianta che oltre a produrre fiori, produce anche frutti. È una piantina di tipo erbaceo, quindi non ad alto fusto, che può essere contenuta in un vaso.

Un pugno di semi
     Il ritrovamento risale a una zona dell’estremo nord-est siberiano, nei pressi del fiume Kolyma, nell’entroterra vicino al Mare di Bering: in quello sperduto luogo disabitato, una manciata di frutti e semi di Silene stenophylla giacevano da oltre 30 mila anni a 38 metri di profondità. L’eccezionalità della scoperta stava nel fatto che i semi non erano esposti all’ambiente esterno, in particolare alle infiltrazioni d’acqua e alle basse temperature tipiche di quelle terre glaciali, bensì nel fatto che essi erano stati fossilizzati, ovvero tenuti isolati dalle condizioni ambientali: sono stati infatti rinvenuti in quella che è parsa ai biologi come la tana di un roditore (un antenato dell’odierno scoiattolo) che potrebbe averli raccolti e messi da parte. In quella sacca i semi sono rimasti quasi intatti.

Nota sui semi
     In generale il seme è l’equivalente vegetale dell’embrione animale, ma, a differenza di questi ultimi, che seguono un percorso di tempo prestabilito per la gestazione, poiché fin da subito si trovano in un ambiente favorevole alla crescita (l’utero della madre), i semi dei vegetali, essendo esposti fin da subito all’ambiente esterno, non si sviluppano se non quando sussistono le giuste condizioni (in particolare una temperatura adatta e la giusta quantità di acqua). Nella sacca sotterranea dove sono stati scoperti, i semi di Silene erano conservati a una temperatura di appena –7° C, che è niente in confronto alle temperature glaciali siberiane. Inoltre il ghiaccio che ricopre quelle terre è eterno, non si scioglie mai nel corso dell’anno (quel terreno è definito tecnicamente permafrost), e questo ha evitato che acqua liquida entrasse nel seme. I semi hanno infatti al loro interno delle strutture che cominciano a funzionare solo dopo che l’organismo ha ricevuto una precisa serie di segnali chimici e fisici dall’ambiente che testimonino l’esistenza di quelle condizioni favorevoli alla vita: e un forte ingresso di acqua può appunto rappresentare lo stimolo che fa partire tutti i meccanismi biochimici al suo interno deputati alla crescita del vegetale.
     I semi vegetali, quindi, hanno un’intrinseca capacità di restare “in letargo” (per un periodo di tempo variabile in base alla specie e alle condizioni in cui si trovano), o meglio, di rallentare il loro metabolismo biochimico, come avviene nell’ibernazione. E in questo i semi di Silene stenophylla si sono dimostrati dei veri e propri highlander!

Un nuovo record
     Ai semi è stata fatta una datazione col metodo del carbonio-14 e la loro età è stata stimata essere compresa tra i 31.500 e i 32.100 anni: questo ne ha fatto l’esemplare di essere vivente più antico mai riportato alla vita! Il record precedente risale infatti al 2005 ed era di un seme di palma da dattero rinvenuto in Israele, nella fortezza di Masada e datato 2000 anni. Stanislav Gubin, uno degli autori di questo studio, ha dichiarato che, per le condizioni in cui ha tenuto al riparo i semi, questo terreno siberiano si è rivelato essere una vera e propria «criobanca naturale». Esattamente come un caveau di una banca, infatti, questa sacca scavata nel permafrost ha custodito un vero e proprio “tesoro”: una finestra spalancata su un’epoca che non tornerà più.

Bentornata, stenophylla!
Esemplare di Silene stenophylla preistorico.
     Sebbene la fossilizzazione dei semi sia stata eccellente, rimane il fatto che riattivare un organismo rimasto per oltre 30 mila anni in stallo metabolico non è un’impresa facile! I semi sono molto fragili e andavano trattati con molta cura; inoltre bisognava riabituare la pianta a vivere in condizioni diverse da quella in cui si è trovata tutto quel tempo ed è questa la parte difficile della questione: riattivare una vita che si è mantenuta sul punto di spegnersi.
     In principio lo studio aveva previsto la riattivazione dei semi contenuti nei frutti di questa pianta, ma la cosa non è riuscita; si è passato quindi al tessuto dei frutti stessi, grazie al quale è stato possibile far ricominciare a girare gli ingranaggi biologici di questo vegetale plurimillenario. I tessuti rimasti intatti sono stati messi sotto coltura e sono stati trapiantati, creando nuovi semi, che poi sono germogliati, sotto una strettissima sorveglianza. Questi scienziati dal pollice verde hanno dovuto usare tecniche sofisticatissime per quest’operazione, tecniche che chiamano in causa l’istologia, la biologia e la genetica.
     Il team, guidato da David Gilichinsky (deceduto poco dopo la scoperta), ha usato il materiale proveniente da circa 70 cunicoli di tane scavate nei pressi del Kolyma.
     Dopo l’impianto dei tessuti, il team di ricercatori ha tenuto sotto stretta osservazione la coltura per oltre un anno, allo scadere del quale, la lieta novella: la pianta vive! Svetlana Yashina, del dipartimento di Biofisica dell’Accademia, a capo di questo studio, ha dichiarato che la pianta è «molto vitale e si adatta molto bene»: gli scienziati sono riusciti infatti a far germogliare ben 36 esemplari di questa piantina, riuscendo nel 100% dei tentativi.

Differenze generazionali: stenophylla ieri e oggi
Fiore di Silene stenophylla.
     Silene è una pianta altamente adattativa ed è tipica delle regioni glaciali della Siberia, al punto che esiste ancora oggi in una grande varietà di esemplari. Quando lo studio è stato completato, gli esemplari “resuscitati” sono stati confrontati con quelli odierni e sono state notate delle piccole differenze: è stato visto in particolare che le dimensioni della Silene preistorica sono leggermente inferiori; le radici crescono meno velocemente; la pianta produce meno gemme; e la forma dei petali è un po’ più ampia; nel complesso, però, la pianta è rimasta quasi del tutto intatta nel corso dell’evoluzione e questo ha un significato biologico ben preciso: vuol dire che l’organismo aveva già allora in sé le caratteristiche giuste per sopravvivere. Quando un organismo è inadatto al suo ambiente, infatti, deve cambiare se non vuole estinguersi: è la selezione naturale di cui parlava Darwin. Di conseguenza, se nel corso di parecchie ere un organismo non muta molto sulla sua scala evolutiva, vuol dire che non ha avuto bisogno di “aggiustamenti” perché “andava già bene così”. È questo il caso degli squali, per esempio, o dei coccodrilli, rimasti quasi gli stessi da quando hanno fatto la loro comparsa sulla Terra. Ora sta all’interpretazione dei biologi elaborare teorie che possano spiegare questi cambiamenti: infatti, poiché i mutamenti adattativi degli esseri viventi sono risposte a stimoli ambientali, allora le differenze morfologiche della pianta sono un riflesso delle differenze climatico-ambientali di quell’epoca. L’esemplare di Silene fornirà così alla scienza preziose informazioni su come fosse la Siberia ai tempi del Pleistocene.

Alcune tappe della crescita in laboratorio di Silene stenophylla.

Aspetti etici
     Non sono mancate critiche di carattere etico. Del resto, c’era da aspettarselo in uno studio in cui si maneggia la vita di un essere vivente. Infatti, al di là del caso specifico, una ricerca come questa ha reso il mondo scientifico molto fiducioso nel portare a termine imprese analoghe ma di portata maggiore, come il tentativo di riportare in vita un esemplare di mammut utilizzando tessuti di questo animale e impiantandoli in quelli di un elefante odierno (una ricerca già cominciata da un gruppo di giapponesi dell’Università di Kinki), o di lavorare sull’attivazione dei microrganismi intrappolati nei ghiacci di Marte!
     E prima che qualcuno possa pensare che imprese simili siano degne di nota solo in quanto molto vicine alla spettacolarità fantascientifica, è bene ricordare che dietro di esse può esserci un fine nobile: basti pensare alle specie ingiustamente estinte dall’uomo che potrebbero essere riportate in vita con lo sviluppo di queste tecniche di trattamento di tessuto placentari, come lo erano quelli dei frutti di Silene.
     Dall’altra parte, un uso improprio di questo strumento può riservare brutte sorprese. Le accuse di “giocare a fare Dio” sono una routine in questo settore di ricerca e infatti il ruolo della bioetica dovrebbe essere tutt’altro che marginale. È giusto riportare in vita un essere vivente che la natura ha espressamente selezionato per l’estinzione? O si dovrebbe limitare questa probabile applicazione solo alle specie scomparse a causa dell’uomo? E se queste ultime venissero riportate in vita, sapremmo tutelarle? O nascerebbe un nuovo business legato alla caccia di questi animali, ancora più feroce di prima, proprio perché esiste la possibilità di rigenerare quegli organismi? Gli interrogativi possono essere tanti e il rischio di fare la scelta sbagliata è alto. Anche questo insegnava il film Jurassic Park: usare male una simile conoscenza può significare creare qualcosa che si ritorce contro l’uomo stesso.


giovedì 2 febbraio 2012

Koko, il gorilla che parla con gli umani

     La scimmia che vedrete in questo video è una femmina di gorilla chiamata Koko. Nel video è nata da poco e una donna la sta nutrendo. La scena è tenera, ma non è questa la cosa che la rende degna di nota, quanto piuttosto il fatto che Koko sta “parlando” con la donna chiedendole di mangiare usando il linguaggio americano dei segni (ASL, American Sign Language), ovvero il linguaggio gestuale che usano i sordo-muti! Per questo motivo Koko è uno degli animali più famosi della letteratura scientifica psicologica.
     Allo stadio in cui la si vede nel video Koko è ancora molto piccola e conosce pochi segni: tuttavia, anche se in futuro ne imparerà molti di più, già ora è in grado di dire alla sua caregiver quando vuole mangiare, bere o quando vuole più cibo.
     Guardando attentamente, infatti, si può notare il segno che Koko fa mettendosi la mano davanti alla bocca, mimando il segno per la parola “bere”. Nell’inquadratura successiva si nota chiaramente anche il segno per la parola “mangiare”; più difficile da vedere è invece il segno per dire “di più” (in inglese “more”) che consiste nell’avvicinare la punta delle dita di entrambe le mani (lo si vede quando il timer segna 0:20, 0:23 e 0:27)


     Koko è l’abbreviazione della parola giapponese Hanabiko, che vuol dire “fuochi d’artificio per bambini”: questo nome le fu dato perché è nata il giorno del 4 luglio, che per gli americani è il Giorno dell’Indipendenza. È venuta al mondo in cattività, perché fu partorita nello zoo di San Francisco e il prossimo 4 luglio compirà 41 anni (è nata nel 1971).

Una scimmia speciale
     Perché Koko è una scimmia speciale? Normalmente gli umani sono in grado di interpretare le varie forme di comunicazione di molti animali: un cane che abbassi le orecchie e metta la coda tra le gambe indica paura; un uccello che apre le penne vicino a una femmina e mostra fiero il suo piumaggio si sta esibendo in un corteggiamento, indicando appetito sessuale; una leonessa nel suo periodo di fertilità rilascia molecole chimiche che vengono annusate dai leoni maschi (anche a molti chilometri di distanza) i quali capiscono che la femmina è pronta per l’accoppiamento… Tutti questi sono però esempi di comunicazione unilaterale in cui un animale usa il suo proprio codice comunicativo per mandare un messaggio a un altro animale. Il caso di Koko invece è diverso: questa femmina di gorilla è stata addestrata in tanti anni a comunicare non agli umani, ma con gli umani e non usando il suo codice comunicativo, bensì un codice linguistico che è stato inventato dagli umani (quindi un codice che non è suo)! In questo modo la comunicazione che avviene tra essa e gli umani è una comunicazione bilaterale, ovvero: gli uomini possono comunicare con Koko e viceversa con una forma codificata di linguaggio che non è propria dell’animale, ma che viene appresa dall’animale!

Koko in azione
     In questa scena vediamo un esempio di come Koko riesca a comunicare, avendo così un’idea generale di quello che questa femmina di gorilla sa fare. La dott.ssa Patterson fornisce a Koko un libro sugli animali, che Koko sfoglia con interesse (da notare il modo con cui Koko gira le pagine!). Koko segnala subito le illustrazioni che la colpiscono mimandone il concetto tramite gli appositi segni: quando vede dei fiori, per esempio, mima il segno per “fiore” (quando il timer segna 0:11) che consiste nel toccarsi le narici con la punta delle dita della mano; oppure quando vede l’immagine di un gatto rosso, si tocca le labbra perché le viene in mente uno dei suoi gattini domestici che si chiamava “Rossetto” (Lipstick” in inglese, dove “lip” vuol dire “labbro”). Dopo aver finito il libro, Koko apre anche la busta col biglietto di accompagnamento (perché il libro era un regalo) che ha sulla copertina un gattino: anche qui Koko segnala di aver capito e mima subito il segno di “gatto” (timer a 1:41).
     Poi la dott. Patterson chiede esplicitamente a Koko di scegliere la sua immagine preferita («Show your favourite picture») e Koko non ci pensa due volte: riapre il libro (sfogliandolo non più pagina per pagina, ma come facciamo noi umani quando cerchiamo una pagina in particolare), trova l’immagine del gattino rosso, lo bacia, lo indica e si ritocca di nuovo il labbro per dire che gli ricorda il suo gattino “Rossetto”. Come dirò più avanti, infatti, Koko aveva una forte predilezione per i gattini domestici.
     E quando a Koko viene chiesto di trovare un’immagine per Ron (si tratta di Ronald Cohn, un ricercatore che ha collaborato con la dott.ssa Patterson e che ha documentato la gran parte delle sessioni di addestramento e della vita di Koko), il gorilla sceglie il disegno di un alligatore con la bocca aperta che mostra i denti. Appena Ron arriva Koko gli mostra di avergli attribuito la figura e, capendo che forse la cosa non è lusinghiera, si scusa dicendo di sé che è una scimmia educata mimando il segno di “educato” (timer a 3:56) che si fa indicando col dito pollice il centro del proprio petto; infine, con una buffissima mossa che vi farà cadere dalla sedia per le risate, si copre il volto con le mani dalla vergogna!


Una lunga tradizione sperimentale
     Quello di Koko non è il primo caso di primate in grado di comunicare con gli umani nella letteratura scientifica: prima di lei altri esperimenti simili furono condotti e con diverse specie di scimmie. Famoso e degno di nota più di tutti è forse il caso della scimpanzé Washoe (morta nel 2007) che dalla fine degli anni ’60 del 1900 cominciò a essere istruita nel linguaggio dei segni dai coniugi Allen e Beatrix Gardner e che imparò circa 350 segni. Washoe fu perfino in grado di insegnare alcuni segni ai suoi simili, che quindi comunicavano col linguaggio dei segni tra loro!
Lo scimpanzé Washoe (a sinistra) con uno dei suoi caregiver,
Allen Gardner; e la scimmia bonobo Kanzi (a destra) con la sua
primatologa Sue Savage-Rumbaugh.
     Altro caso famoso di primate istruito al linguaggio ASL è lo scimpanzé bonobo chiamato Kanzi che imparò a comunicare con gli umani usando i simboli di un’apposita tastiera dotata di simboli geometrici: la madre di Kanzi non riuscì mai a imparare questa forma di linguaggio, perché era troppo adulta, invece Kanzi imparò osservando i ricercatori che tentavano a insegnare a sua madre. Questo avvenne perché gli animali hanno dei periodi in cui posso imparare certe abilità che invece non sono in grado di apprendere una volta che quel periodo è scaduto (questo vale anche per gli umani ovviamente: bambini a cui non viene insegnato a parlare durante l’infanzia non sono in grado di farlo più o di farlo correttamente se glielo si insegna dopo quel periodo). Tra l’altro Kanzi, fu capace di imparare anche un po’ di linguaggio ASL guardando proprio i video di Koko!

Perché proprio il linguaggio dei segni?
     I primi esperimenti in cui si addestrarono i primati non umani a comunicare con gli umani miravano a ottenere al linguaggio di tipo verbale, ovvero si voleva insegnare alle scimmie a produrre parole vere e proprie. Tuttavia questa idea dovette essere abbandonata per almeno due motivi: innanzitutto perché per articolare suoni verbali come quelli umani (che non sono versi, ma suoni complessi e molto vari), occorre coordinare una serie di muscoli in un modo altamente preciso e questo a sua volta richiede una parte di cervello capace di organizzare la contrazione corretta di quei muscoli, una caratteristica che non è presente nei primati non umani; inoltre le scimmie sono anatomicamente sprovviste di quelle strutture fonatorie con cui noi umani riusciamo ad articolare i nostri fonemi linguistici (occorre una certa dentatura, la presenza di seni paranasali fatti in un certo modo, una certa lingua e una certa laringe per parlare come noi facciamo).

Vita di un gorilla parlante
     Il “progetto Koko” fu gestito dalla dott.ssa Francince “Penny” Patterson, PhD., una psicologa laureatasi all’Università di Stanford, che ha compiuto un lavoro eccelso sia per quanto riguarda l’addestramento di Koko sia per la delicatezza e il tatto dimostrati nel trattamento dell’animale. Il progetto infatti è durato parecchi anni, al punto che la dott.ssa Patterson è praticamente invecchiata assieme a Koko!
     La Patterson infatti ha trattato Koko come se fosse un vero e proprio bambino: l’ha fatta vivere in un ambiente che fosse il più possibile ricco di caratteristiche umane e per questo almeno nei primi tempi è stata scelta una roulotte appositamente allestita con tutto il necessario (stoviglie per mangiare, coperte, un armadio, frigorifero, un televisore…); ogni mattina quando Koko faceva pipì in un apposito vasino, la dott.ssa ne raccoglieva un campione per monitorare la sua salute; nei periodi di freddo a Koko venivano fatti indossare dei vestiti (il suo preferito era un maglioncino rosso); l’alimentazione era soprattutto a base di frutta (i gorilla sono vegetariani); quando Koko faceva qualche marachella veniva “sgridata” ed educata quindi sulle norme comportamentali da tenere in certi contesti (non rompere gli oggetti, per esempio); ma soprattutto Penny Patterson ha avuto la felicissima intuizione di insegnare a Koko il linguaggio dei segni accompagnandolo con il linguaggio parlato. Penny parla a Koko come se fosse un bambino piccolo e questa è una cosa da non sottovalutare.
     Se questa psicologa si fosse comportata come i coniugi Gardner che parlavano a Washoe usando i soli segni gestuali, avrebbe limitato molto la sua capacità comunicativa: accompagnando invece all’uso dei segni anche le parole, la dott.ssa Patterson ha dato a Koko un numero enorme di stimoli, e questo ha avuto come conseguenza un grande ampliamento del suo lessico. Koko è stata così in grado di produrre oltre 1000 segni gestuali e di comprendere oltre 2000 parole in lingua inglese. Domanda: perché Koko comprende più parole di quante ne sappia produrre?
La psicologa dott.ssa Francine Patterson mentre addestra Koko
nell'uso del linguaggio dei segni.
     Mentre la comprensione di parole è un atto puramente mentale (se c’è l’udito è il cervello a elaborare automaticamente i suoni delle parole e ad associargli un significato), pronunciare parole (o comunque produrre segni gestuali che le rappresentino) è qualcosa di performativo, ovvero che richiede l’uso di una serie di muscoli che funzionino in maniera coordinata: questo vale per il linguaggio verbale, perché per parlare usiamo molti muscoli – muscoli intercostali e diaframma per la respirazione (ci serve aria per parlare), muscoli delle labbra, lingua, muscoli per muovere la mandibola -, ma anche nel caso di linguaggio dei segni, dal momento che per produrre segni si usano le mani e le braccia. A loro volta i muscoli sono mossi grazie all’azione di specifiche aree cerebrali che, funzionando volontariamente, richiedono uno sforzo mentale molto maggiore per essere attivate.
     Poiché quindi capire parole è più facile che produrle, è normale che Koko conosca il significato di un numero di parole doppio rispetto a quelle che sa produrre: questo avviene anche coi bambini umani, del resto, i quali comprendono molte delle richieste e delle frasi semplici dei loro genitori, pur non essendo ancora in grado di produrre quelle parole. Se la dott.ssa Patterson non avesse parlato a Koko, questa femmina di gorilla non avrebbe imparato a comunicare in un modo così straordinariamente cosciente e preciso.

Consapevolezza comunicativa o automatismi indotti?
     La prima obiezione della parte più scettica del mondo scientifico ad essere sollevata riguardò il fatto che Koko possa non essere per nulla consapevole di quello che fa quando usa il linguaggio ASL: per molti scienziati cioè Koko sarebbe stata addestrata a produrre quei gesti in maniera meccanica, automatica e senza davvero comprendere il significato che rappresentano. Questo modo di addestrare gli animali ha un nome preciso: si chiama condizionamento operante ed è un tipo di apprendimento in cui un soggetto (anche umano) viene invogliato a produrre un certo tipo di comportamento attraverso la somministrazione di “ricompense” (chiamate tecnicamente rinforzi) che hanno lo scopo di “premiare” l’esecuzione corretta di quel comportamento e aumentare così la probabilità che quello stesso comportamento sia ripetuto nel futuro. Questo accade, per esempio, tutte le volte che si addestrano animali come i cani nei film: attraverso palline di cibo (rinforzi) si premia l’animale quando esso riesce a eseguire certi movimenti in modo da spingerlo a farlo anche in futuro sotto l’aspettativa di quella stessa ricompensa. O, citando un famoso esperimento della scuola psicologica comportamentista, col condizionamento operante lo psicologo Burrhus Skinner addestrò molti animali a fare molte cose “particolari”, come i piccioni addestrati a giocare a una variante del ping-pong: in quello spassosissimo esperimento si vedevano due piccioni che si lanciavano una pallina e il piccione che riusciva a lanciare la pallina verso il suo “avversario” senza fargliela rimandare indietro aveva diritto a mangiare un pezzo di cibo.
     Ora, nel condizionamento operante non importa quanto l’animale sia consapevole di ciò che fa e, poiché a Koko venivano insegnati i segni ASL proprio attraverso l’uso di questa tecnica, è lecito pensare che essa li esegua senza sapere cosa significhino. Alcune evidenze, tuttavia, hanno demolito questo tipo di dubbi, dando la dimostrazione che invece la consapevolezza del significato dei segni c’è eccome. Se Koko, infatti, fosse stata semplicemente “vittima passiva” del condizionamento operante, avrebbe dovuto riprodurre i segni solo quando a essi fosse seguita una ricompensa (la risposta si estingue infatti se non viene più seguita dal rinforzo): invece nel corso di tanti anni di vita assieme alla dott.ssa Patterson, Koko ha usato molte volte quei segni autonomamente senza ricevere alcuna ricompensa per comunicare cose precise (sentimenti, giudizi, bisogni), spesso sotto esplicita richiesta (dimostrando così di “capire” la richiesta) e addirittura in maniera autonoma e creativa, arrivando perfino ad inventare segni nuovi con quelli che già conosceva per indicare nuovi oggetti o nuovi pensieri, come quando, per esempio, non conoscendo il segno per dire “anello”, usò i due segni “dito” e “bracciale” per dire “bracciale da dita”: esempi come questo dimostrano che il linguaggio dei segni, imparato sì tramite le tecniche del condizionamento operante, è tuttavia usato in maniera autonoma e consapevole una volta appreso il suo significato, il che è proprio ciò che sta alla base della comunicazione. Esiste un coinvolgimento mentale che non è puramente “automatico”, una forma di introiezione del concetto che permette all’animale di usarlo adeguatamente e autonomamente, una volta appresa la sequenza di movimenti per produrlo: questo, tra l’altro, avviene anche nell’apprendimento umano, in cui la consapevolezza viene dopo.

Una prova
     In questo video possiamo avere molte prove di quanto appena detto: la dott.ssa Patterson fornisce a Koko un palloncino giallo e le chiede di lavorare di fantasia («Be imaginative!») con quell’oggetto e di giocarci o farci qualcosa di creativo (da notare che la richiesta, eseguita in pieno, viene fatta verbalmente, e questo prova il fatto che Koko comprende anche il linguaggio parlato): Koko inizia a giocherellare col pallone, ma poi le viene in mente una cosa e si tocca la bocca. Si tratta di una rievocazione mnemonica riferita al giorno prima in cui Koko si era colorata di giallo la lingua con un pennarello con inchiostro non tossico: il colore del palloncino è lo stesso del pennarello e Koko indica spontaneamente che la sua lingua è dello stesso colore del palloncino (l’episodio viene mostrato nello stesso video). Con questo gesto Koko dimostra di rievocare coscientemente un ricordo recente, di avere coscienza di sé (la lingua colorata è la sua) e di esprimere un giudizio (nel caso specifico una comparazione tra due oggetti che hanno qualcosa in comune).
     Dopo un’altra richiesta di giocherellare col palloncino («Can you juggle it?») e di trattarlo come se fosse un bambino («Can you pretend it’s a baby?»), entrambe eseguite correttamente, il giorno dopo Koko compie sullo stesso palloncino un atto creativo. Le viene dato un pennarello nero e sul palloncino viene disegnata una faccina: Koko comincia a scriverci sopra (stando perfino attenta a non farlo scoppiare!). Apparentemente non sta facendo nulla, ma quando la dott.ssa Patterson le si avvicina Koko fa capire che sta disegnando dei peli sulla faccina per farla assomigliare a un gorilla (lo fa quando si tocca i peli del braccio destro). Finita l’opera d’arte e soddisfatta del suo lavoro, Koko esprime un giudizio su se stessa mimando il segno per dire “buono” e saluta mandando dei baci.
     Tutti questi esempi, assieme a tanti altri accumulati nel tempo, dimostrano l’uso consapevole e autonomo da parte di Koko del linguaggio che ha imparato.


Gli amici di Koko
     Per garantire il rispetto della natura di Koko, la dott.ssa Patterson si è guardata bene dall’isolarla completamente dai suoi simili. Molte sono state le gite fatte fuori all’aria aperta e Koko ha avuto nel corso della vita anche dei compagni di giochi: si tratta in particolare dei due gorilla maschi chiamati Michael (morto nel 2000) e Ndume. Michael, in particolare è stato il primo compagno di Koko e le è rimasto vicino per molti anni, condividendo i suoi giochi nella sua gabbia, arrampicandosi con lei sugli alberi, prendendosi a scappellotti con lei, ma soprattutto imparando da lei molti dei segni con cui comunicava.
     In questo video la dott.ssa Patterson mostra a Koko dei gorilla maschi dello zoo e Koko “sceglie” il suo preferito (che è Ndume) dando un grosso bacio sullo schermo. Si tratta di una modalità di scelta del partner chiamata video dating (appuntamento tramite video).


Le emozioni di un gorilla
     Uno dei gradi più alti di evoluzione psichica nel mondo animale è rappresentato dalle emozioni. Si discute spesso se gli animali ne possiedano e, se sì, fino a che punto. Una delle maggiori testimonianze della sfera emotiva di Koko viene dalla sua personale esperienza coi gattini. Koko ha sempre amato avere animali domestici da coccolare e il suo preferito è arrivato nel 1984: fu proprio Koko a chiederne uno alla dott.ssa Patterson e lei glielo portò. Si trattava di un esemplare di Manx (o gatto dell’isola di Man), che hanno la caratteristica di avere la coda corta a causa di una mutazione della colonna vertebrale: questo gatto fu scelto dalla stessa Koko, che le diede il nome di “All Ball” (“Tutta Palla”).
     Koko giocava e coccolava i gattini con sincero coinvolgimento: spesso li prendeva in braccio, li stringeva a sé con entrambe le mani, altre volte si sdraiava a terra con loro, li accarezzava. E All Ball era il suo preferito. Quando un giorno All Ball fu investito da un’automobile, la dott.ssa Patterson andò a dirlo a Koko (che conosce anche il concetto di morte) e la sua reazione fu più esplicita che mai: dopo aver compreso i segni della sua Penny, Koko comunicò immediatamente il suo stato d’animo segnando le parole “brutto”, “triste” e “piangere”. Lasciata da sola nella sua gabbia, è stata anche udita emanare dei versi simili a un pianto.


     All Ball non è stato l’unico animale di Koko. Molti altri le hanno tenuto compagnia nel corso della sua vita.
     Altro esempio della capacità di Koko di esprimere emozioni può essere dato da quest’altro video in cui Koko guarda uno dei suoi film preferiti. Si tratta della pellicola Un tè con Mussolini (di Franco Zeffirelli, 1999). Durante la visione Koko dimostra empatia emotiva segnalando come triste la scena in cui il piccolo Luca deve salire sul treno e separarsi da coloro che si sono prese cura di lui. Si volta dando le spalle allo schermo e quando la dott.ssa Patterson dice a Koko che è coraggiosa, lei segnale “buono” per dire che è contenta che venga considerata così. Ma poi, comprendendo il disagio dell’animale, la Patterson le chiede «C’è qualcosa che posso fare per te?» Koko risponde “sorriso”. Vuole che la sua caregiver sorrida e spiega anche perché, comunicando come si sente in quel momento: “triste”, “piangere”, “brutto”, “guaio”. E subito dopo aggiunge ciò che vorrebbe per “correggere” quello stato d’animo: “madre”, “amore”.


     In quest’ultimo esempio la capacità emotive di Koko si è dimostrata ancora più acuta che nel caso precedente: mentre nel video precedente infatti Koko ha comunicato un suo stato d’animo, in questo ha dimostrato empatia per gli stati d’animo altrui.

Koko oggi
     Koko fu “prestata” nel 1972 (quando aveva un anno) alla dott.ssa Patterson dallo zoo di San Francisco, che aveva sul gorilla diritti di proprietà a tutti gli effetti. Tuttavia, nel corso di tanti anni di vita comune vissuta quotidianamente, tra Koko e la psicologa è nato un legame che forse non si esagera a definire del tipo madre-figlia. Per questo motivo la dott.ssa Patterson ha fondato nel 1976 (assieme al succitato Ronald Cohn) la fondazione no profit The Gorilla Foundation per acquistare Koko dallo zoo in cui è nata.
     Koko vive attualmente alla fondazione, sempre assistita dalla sua caregiver e nei pressi della casa di questa, in una struttura allestita appositamente per lei. La fondazione si propone di raccogliere fondi per aprire una riserva per i gorilla nell’isola di Maui, la seconda isola delle Hawaii per estensione. Si spera anche di far accoppiare Koko con il suo amichetto Ndume.

Riferimenti
     Quanto esposto fin qui è solo un ingiusto sunto di questa commovente vicenda scientifica. Perciò, per chi fosse interessato ad approfondire, lascio alcuni riferimenti che possano fungere da fonti di informazioni.
     In primis non posso non citare il documentario girato nel 1978 sulla vita di Koko intitolato Koko: a talking gorilla, diretto da Barbet Schroeder: il documentario parla del lavoro e della vita della dott.ssa Patterson, dura appena 1 ora e 20 minuti, è ricco di interviste alla dott.ssa Patterson e di scene di vita quotidiana di Koko, ed è visibile attualmente su YouTube su questo link.
     Inoltre sono da citare i libri scritti su Koko proprio dalla dott.ssa Patterson:
The education of Koko;
- Koko’s kitten;
- Koko-Love: conversations with a signing gorilla;
- Koko’s story.
     Infine, siete liberi di sbirciare su Youtube o in rete dove vogliate cercando i video di questo gorilla prodigio… e vi assicuro che la cosa vi divertirà molto.

Curiosità
     Nel film L’alba del pianeta delle scimmie (di Rupert Wyatt, 2011) viene ripresa questa vicenda con numerose citazioni: allo scimpanzé Cesare (realizzato interamente al computer) viene insegnato il linguaggio non verbale per comunicare con gli umani e con i suoi simili e in una scena del film indossa un maglioncino rosso simile a quello che Koko preferiva  tra quelli del suo guardaroba (come mostrato nel documentario). Il riferimento è ovviamente molto vicino anche al caso dello scimpanzé Washoe.