Uno degli aspetti più belli delle scienze della psiche è che
grazie a esse possono essere compresi finissimi meccanismi che influiscono in
maniera anche fortemente incisiva sull’agire quotidiano, sebbene la loro
portata non sia immediatamente evidente nell’esperienza di chi osserva
ingenuamente il comportamento umano. Eric Berne (1910-1970) è stato un
importante psicologo autore di una teoria chiamata analisi
transazionale, che è un modo di spiegare i legami e i rapporti sociali alla
luce del concetto di “transazione”, ovvero lo scambio di forme di
riconoscimento tra persone, dove per riconoscimento s’intende qualunque modo
gestuale o verbale con cui un individuo A mostra a un individuo B di dargli la
sua attenzione.
Quest’argomento è molto affascinante, perché
va a sviscerare molti meccanismi con cui noi costruiamo senza saperlo le
relazioni col resto del mondo: le relazioni sociali, infatti, hanno un
elevatissimo potere autopoietico sull’individuo, poiché tramite quelle forme
l’individuo si forma una personalità sua, la quale a sua volta lo porterà a
fare delle scelte che influenzeranno il mondo dal quale egli ha ricevuto
stimoli. In uno dei suoi libri in cui si affronta l’argomento, Berne si
concentra sui cosiddetti “giochi”, ovvero tutte quelle tacite regole che
seguiamo involontariamente quando viviamo relazioni sociali: queste ultime sono
classificate in “schemi tipici” (i giochi, appunto), che si ripetono con
criteri ben precisi e da cui ci si dovrebbe poter liberare.
Il seguente passo, tratto dalle prime pagine di A che gioco giochiamo (titolo originale: Games people play), contiene
una breve esposizione del nucleo della teoria dell’analisi transazionale:
l’autore parte proprio dall’origine, dalla causa prima da cui muove tutto il
nostro bisogno di ricevere riconoscimenti dagli altri e ne sottolinea
l’importanza e il ruolo nel nostro modo di instaurare legami con gli altri.
Credo che rappresenti un interessante punto di partenza per chiunque voglia
vivere in maniera meno inconsapevole e, quindi, più equilibrata il suo rapporto
con gli altri.
La teoria del rapporto sociale, abbastanza diffusamente trattata in Analisi transazionale, può essere così riassunta.
Spitz ha notato che i neonati privati di cure manuali per un certo
periodo di tempo alla lunga tendono a sprofondare in una irreversibile
depressione per soccombere infine a disturbi intercorrenti. In sostanza questo
significa che la privazione emotiva, come la chiama Spitz, può avere un esito
fatale. Queste osservazioni portarono alla formulazione del concetto di fame di stimolo e indicarono che le
forme di stimoli particolarmente desiderate sono quelle generate dall’intimità
fisica; e alla luce dell’esperienza quotidiana non è difficile accettare questa
conclusione.
Un fenomeno analogo si nota negli adulti soggetti a privazione sensoria.
Sperimentalmente essa può provocare una passeggera psicosi, o almeno disturbi
mentali temporanei. Già in passato si era notato che la privazione sociale e
sensoria aveva avuto effetti del genere sui detenuti condannati a lunghi
periodi di isolamento. Infatti l’isolamento è una delle punizioni più temute
anche dai detenuti incalliti alla brutalità fisica, e ai nostri giorni è
diventato, come si sa, un sistema per ridurre all’obbedienza gli avversari
politici. (Viceversa, l’arma migliore per combattere l’acquiescenza politica è
l’organizzazione sociale).
Dal punto di vista biologico, è probabile che la privazione emotiva e
sensoria tenda a instaurare o almeno a favorire dei mutamenti organici. Se il
sistema attivatorio reticolare del cervelletto non riceve abbastanza stimoli,
si può avere una degenerazione delle cellule nervose, per lo meno indirettamente.
Può darsi che si tratti di un effetto secondario dovuto a difetto d’alimentazione,
ma questo a sua volta può derivare da apatia, come nei bambini sofferenti di
marasma. Si può dunque postulare l’esistenza di una catena biologica che va
dalla privazione emotiva e sensoria all’apatia e di qui alle modifiche
degenerative e alla morte. In questo senso la fame di stimolo ha con la
sopravvivenza dell’organismo umano lo stesso rapporto della fame di cibo.
Difatti si può stabilire un parallelo tra fame di stimolo e fame di cibo
non solo sotto l’aspetto biologico ma anche sotto l’aspetto psicologico e
sociale. Certi termini come denutrizione o sazietà, goloso, buongustaio o
parco, sono passati dal campo dell’alimentazione a quello delle sensazioni. Come
ci si rimpinza di cibo ci si può anche rimpinzare di stimoli. Nell’uno e nell’altro
caso, quando le provviste sono abbondanti ed è possibile variare il menu, la
scelta viene notevolmente influenzata dalle idiosincrasie individuali. Può darsi
che in parte più o meno cospicua le idiosincrasie abbiano una motivazione
costituzionale, ma questo non riguarda i problemi qui trattati.
Lo psichiatra sociale si occupa di ciò che accade dopo che il bambino
viene separato dalla madre, nel corso normale della crescita. Quanto si è detto
fin qui si può riassumere, alla buona, così: “Senza carezze, non si cammina a
petto in fuori.” Perciò, finito il periodo di stretta intimità con la madre, l’individuo
si trova per il resto della vita di fronte a un dilemma che mette in gioco il
suo destino e la sua sopravvivenza. Un corno del dilemma è rappresentato dalle
forze sociali, psicologiche e biologiche che si oppongono alla perpetuazione
dell’intimità fisica di tipo infantile; l’altro dallo sforzo continuo che si fa
per perpetuarla. L’individuo finisce col ricorrere quasi sempre ad un
compromesso. Impara ad accontentarsi di forme di toccamento più sottili,
simboliche perfino, al punto che un semplice cenno di saluto serve in qualche
misura allo scopo, anche se non soddisfa la fame di contatto fisico originaria.
Si possono dare più nomi al processo del compromesso: sublimazione, per
esempio. Ma comunque lo si chiami, porterà ad una parziale trasformazione della
fame di stimolo infantile in quella che si può chiamare fame di riconoscimento. Via via che il compromesso si arricchisce
di complicazioni l’individuo diventa più personale nella scelta dei mezzi che
gli procurano il riconoscimento; le differenziazioni producono la varietà dei
rapporto sociali e determinano il destino individuale. Per andare a testa alta
e petto in fuori, il divo del cinema ha bisogno di centinaia di carezze alla
settimana da parte di ammiratori anonimi, mentre alla salute fisica e mentale
dello scienziato basta una carezza all’anno da parte di un venerato maestro.
Con “carezza” si indica generalmente l’intimo contatto fisico; nella
pratica il contatto può assumere forme diverse. C’è chi accarezza il bambino,
chi lo bacia, chi gli dà un buffetto o un pizzicotto. Tutti questi gesti hanno
un corrispondente nella conversazione: basta sentir parlare una persona per
capire come si comporta con i bambini. Per estensione, con la parola “carezza”
si può indicare familiarmente ogni atto che implichi il riconoscimento della
presenza di un’altra persona. La carezza
perciò serve come unità fondamentale dell’azione sociale. Uno scambio di
carezze costituisce una transazione,
unità del rapporto sociale.
Eric Berne, A che gioco giochiamo, Introduzione, 1. Il rapporto sociale
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