giovedì 23 febbraio 2012

Scripta manent, n. 13 - Potere di una carezza

     Uno degli aspetti più belli delle scienze della psiche è che grazie a esse possono essere compresi finissimi meccanismi che influiscono in maniera anche fortemente incisiva sull’agire quotidiano, sebbene la loro portata non sia immediatamente evidente nell’esperienza di chi osserva ingenuamente il comportamento umano. Eric Berne (1910-1970) è stato un importante psicologo autore di una teoria chiamata analisi transazionale, che è un modo di spiegare i legami e i rapporti sociali alla luce del concetto di “transazione”, ovvero lo scambio di forme di riconoscimento tra persone, dove per riconoscimento s’intende qualunque modo gestuale o verbale con cui un individuo A mostra a un individuo B di dargli la sua attenzione.
     Quest’argomento è molto affascinante, perché va a sviscerare molti meccanismi con cui noi costruiamo senza saperlo le relazioni col resto del mondo: le relazioni sociali, infatti, hanno un elevatissimo potere autopoietico sull’individuo, poiché tramite quelle forme l’individuo si forma una personalità sua, la quale a sua volta lo porterà a fare delle scelte che influenzeranno il mondo dal quale egli ha ricevuto stimoli. In uno dei suoi libri in cui si affronta l’argomento, Berne si concentra sui cosiddetti “giochi”, ovvero tutte quelle tacite regole che seguiamo involontariamente quando viviamo relazioni sociali: queste ultime sono classificate in “schemi tipici” (i giochi, appunto), che si ripetono con criteri ben precisi e da cui ci si dovrebbe poter liberare.
     Il seguente passo, tratto dalle prime pagine di A che gioco giochiamo (titolo originale: Games people play), contiene una breve esposizione del nucleo della teoria dell’analisi transazionale: l’autore parte proprio dall’origine, dalla causa prima da cui muove tutto il nostro bisogno di ricevere riconoscimenti dagli altri e ne sottolinea l’importanza e il ruolo nel nostro modo di instaurare legami con gli altri. Credo che rappresenti un interessante punto di partenza per chiunque voglia vivere in maniera meno inconsapevole e, quindi, più equilibrata il suo rapporto con gli altri.


     La teoria del rapporto sociale, abbastanza diffusamente trattata in Analisi transazionale, può essere così riassunta.
     Spitz ha notato che i neonati privati di cure manuali per un certo periodo di tempo alla lunga tendono a sprofondare in una irreversibile depressione per soccombere infine a disturbi intercorrenti. In sostanza questo significa che la privazione emotiva, come la chiama Spitz, può avere un esito fatale. Queste osservazioni portarono alla formulazione del concetto di fame di stimolo e indicarono che le forme di stimoli particolarmente desiderate sono quelle generate dall’intimità fisica; e alla luce dell’esperienza quotidiana non è difficile accettare questa conclusione.
     Un fenomeno analogo si nota negli adulti soggetti a privazione sensoria. Sperimentalmente essa può provocare una passeggera psicosi, o almeno disturbi mentali temporanei. Già in passato si era notato che la privazione sociale e sensoria aveva avuto effetti del genere sui detenuti condannati a lunghi periodi di isolamento. Infatti l’isolamento è una delle punizioni più temute anche dai detenuti incalliti alla brutalità fisica, e ai nostri giorni è diventato, come si sa, un sistema per ridurre all’obbedienza gli avversari politici. (Viceversa, l’arma migliore per combattere l’acquiescenza politica è l’organizzazione sociale).
     Dal punto di vista biologico, è probabile che la privazione emotiva e sensoria tenda a instaurare o almeno a favorire dei mutamenti organici. Se il sistema attivatorio reticolare del cervelletto non riceve abbastanza stimoli, si può avere una degenerazione delle cellule nervose, per lo meno indirettamente. Può darsi che si tratti di un effetto secondario dovuto a difetto d’alimentazione, ma questo a sua volta può derivare da apatia, come nei bambini sofferenti di marasma. Si può dunque postulare l’esistenza di una catena biologica che va dalla privazione emotiva e sensoria all’apatia e di qui alle modifiche degenerative e alla morte. In questo senso la fame di stimolo ha con la sopravvivenza dell’organismo umano lo stesso rapporto della fame di cibo.
     Difatti si può stabilire un parallelo tra fame di stimolo e fame di cibo non solo sotto l’aspetto biologico ma anche sotto l’aspetto psicologico e sociale. Certi termini come denutrizione o sazietà, goloso, buongustaio o parco, sono passati dal campo dell’alimentazione a quello delle sensazioni. Come ci si rimpinza di cibo ci si può anche rimpinzare di stimoli. Nell’uno e nell’altro caso, quando le provviste sono abbondanti ed è possibile variare il menu, la scelta viene notevolmente influenzata dalle idiosincrasie individuali. Può darsi che in parte più o meno cospicua le idiosincrasie abbiano una motivazione costituzionale, ma questo non riguarda i problemi qui trattati.
     Lo psichiatra sociale si occupa di ciò che accade dopo che il bambino viene separato dalla madre, nel corso normale della crescita. Quanto si è detto fin qui si può riassumere, alla buona, così: “Senza carezze, non si cammina a petto in fuori.” Perciò, finito il periodo di stretta intimità con la madre, l’individuo si trova per il resto della vita di fronte a un dilemma che mette in gioco il suo destino e la sua sopravvivenza. Un corno del dilemma è rappresentato dalle forze sociali, psicologiche e biologiche che si oppongono alla perpetuazione dell’intimità fisica di tipo infantile; l’altro dallo sforzo continuo che si fa per perpetuarla. L’individuo finisce col ricorrere quasi sempre ad un compromesso. Impara ad accontentarsi di forme di toccamento più sottili, simboliche perfino, al punto che un semplice cenno di saluto serve in qualche misura allo scopo, anche se non soddisfa la fame di contatto fisico originaria.
     Si possono dare più nomi al processo del compromesso: sublimazione, per esempio. Ma comunque lo si chiami, porterà ad una parziale trasformazione della fame di stimolo infantile in quella che si può chiamare fame di riconoscimento. Via via che il compromesso si arricchisce di complicazioni l’individuo diventa più personale nella scelta dei mezzi che gli procurano il riconoscimento; le differenziazioni producono la varietà dei rapporto sociali e determinano il destino individuale. Per andare a testa alta e petto in fuori, il divo del cinema ha bisogno di centinaia di carezze alla settimana da parte di ammiratori anonimi, mentre alla salute fisica e mentale dello scienziato basta una carezza all’anno da parte di un venerato maestro.
     Con “carezza” si indica generalmente l’intimo contatto fisico; nella pratica il contatto può assumere forme diverse. C’è chi accarezza il bambino, chi lo bacia, chi gli dà un buffetto o un pizzicotto. Tutti questi gesti hanno un corrispondente nella conversazione: basta sentir parlare una persona per capire come si comporta con i bambini. Per estensione, con la parola “carezza” si può indicare familiarmente ogni atto che implichi il riconoscimento della presenza di un’altra persona. La carezza perciò serve come unità fondamentale dell’azione sociale. Uno scambio di carezze costituisce una transazione, unità del rapporto sociale.

Eric Berne, A che gioco giochiamo, Introduzione, 1. Il rapporto sociale



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