Scusate, ma di questi tempi mi andava fortemente di
condividerlo e di ricordarlo. Per l’ennesima volta! Ce n’è tanto, ma tanto bisogno…
venerdì 25 maggio 2012
giovedì 24 maggio 2012
Latine loquimur, n. 7
C’è un’aria molto polemica nelle sentenze di questo numero di Latine
loquimur: sarà l’ostilità alla crisi!
Nota: la
pronuncia scolastica è quella usata (e insegnata) in Italia; la pronuncia
restituita è quella che, secondo le ricostruzioni, veniva realmente usata dai
Romani.
gdfabech
Necesse est ut multos
timeat quem multi timent
[pronuncia scolastica: necèsse
est ut multos tìmeat quem multi tìment]
[pronuncia restituita: nechèsse
est ut multos tìmeat cuèm multi tìment]
Con un po’ di
pazienza la frase si traduce così: “È necessario (necesse est) che (ut)
colui che molti temono (quem multi timent)
tema quei molti (multos timeat)”. Quando
una persona instaura attorno a sé un clima di terrore e di ansia, di paura e di
repressione, ha ottimi motivi per guardarsi dal gran numero di persone a cui
provoca questi disagi: instaurare un’eccessiva sudditanza psicologica nelle
persone che ci circondano può renderci invisi a esse e questo può sfociare in
moti di ostilità a nostro danno. È un principio che viene tenuto in gran
considerazione presso le più grandi tirannie, dittature, regimi e monarchie
assolutiste: i governanti monocratici sanno bene che non devono esagerare, se
non vogliono ritrovarsi attaccati da quegli stessi che sottomettono; il trucco
sta infatti nel tenersi sempre al limite del sopportabile, intimidendo
abbastanza da farsi obbedire, ma non tanto da spingere a reagire in nome della
sopravvivenza. Così, ad esempio, si comportavano i francesi piegati dalla
monarchia al tempo della Rivoluzione del 1789, che prendendo la Bastiglia
attuarono di fatto un vero e proprio colpo di stato, spodestarono il monarca e
introdussero la Repubblica come nuova forma di governo; così avveniva nella
Germania nazista allorché il colonnello von Stauffenberg, in nome di alcuni
militari della Wehrmacht e di alcuni
politici tedeschi, attentava alla vita di Adolf Hitler facendo scoppiare una
bomba a pochi centimetri di distanza dal dittatore che terrorizzava il mondo
intero; così accadeva nella Grecia degli anni ’70 del ’900, quando Alèxandros Panagulis,
esponente della Resistenza greca contro la Dittatura dei Colonnelli capeggiata
da Papadòpoulos, cercava di uccidere (anche stavolta invano!) il tiranno che
logorava Atene e tutta la Grecia…
Il principio varrebbe anche oggi in cui le democrazie sono, almeno sulla
carta, un po’ più presenti, sennonché, soprattutto in questa Italia, il livello
di sopportazione della gente alle angherie di chi compie abusi si è
vergognosamente alzato: di conseguenza ne deve passare prima che i “tiranni” si
sentano minacciati da coloro che intimidano… I popoli antichi erano molto meno
mansueti di noi.
La frase, ad ogni modo, sembra risalire a Decimo Laberio (almeno stando
alla testimonianza di Macrobio), drammaturgo famoso per i suoi mimi, che l’avrebbe
riferita – guarda un po’ – al dittatore Giulio Cesare al tempo della sua ascesa
al potere monocratico: Decimo Laberio morì nel 43 a.C., giusto un anno dopo l’assassinio
di Cesare in Campidoglio: sarà stato contento di constatare di averci visto
giusto!
Gratis
[pronuncia scolastica: gratis]
[pronuncia restituita: gratis]
Confessate:
non avreste mai pensato che fosse latino, vero? Eppure è così! Questa parolina
così allettante, che attira la nostra attenzione e blandisce il nostro orecchio
in tutto il mondo, altro non è che il complemento di mezzo del plurale della
parola gratia [pron. scol. “gràzia”;
pron. rest. “gràtia”], che significa “favore”, “gratitudine”, “riconoscenza”. Quindi
gratis, che andrebbe scritto più
correttamente gratiis, con due I, significa
“per mezzo di favori”, “con la riconoscenza” e indica un modo di ripagare
qualcosa usando la sola gratitudine. Quindi, senza pagare niente. Diffidate verso la forma usata da molti, che scrivono e dicono a gratis: non ha alcun significato logico e quella a nasce semplicemente in analogia con l’espressione “a pagamento”.
Presso i popoli anglofoni l’usanza è stata
soppiantata e sostituita dall’aggettivo free
(“libero”), per dire che una cosa è “libera” dall’obbligo di pagamento… Glielo concediamo:
dopotutto anche la lingua inglese ha conquistato il mondo intero.
Nec domo dominus, sed domino
domus honestanda est
[pronuncia scolastica: nec
domo dòminus, sed dòmino domus onestànda est]
[pronuncia restituita: nec domo
dòminus, sed dòmino domus honestànda est]
La sentenza,
molto bella, è di quel principe del foro che, secondo il giudizio di
Quintiliano, sarebbe stato secondo a Cesare in fatto di oratoria, se questi non
si fosse messo a fare il dittatore, ovvero Marco Tullio Cicerone. Andando nel
suo De officiis, libro I, 139, si
legge: “Non la casa deve dare lustro al padrone, ma il padrone alla casa”
(letteralmente: “Non il padrone dalla casa, ma la casa dal padrone deve essere
ornata”), dove c’è il bel verbo honestare,
cioè “rendere onorevole”, “conferire onore” (honestum in latino non significa “onesto”, ma “onorevole”).
Il principio, quanto mai condivisibile, appare applicabile anche al di
fuori della sfera privata, ovvero a quella pubblica: quando dall’estero ci
accusano di essere un paese di mafiosi, di furbastri, di mammoni, ebbene, quei
giudizi sono diretti alle persone che rendono il paese tale, non a una
fantomatica entità astratta chiamata Italia; la cosa vale anche al contrario:
quando si reclamano cambiamenti in questo paese, non bisogna rivolgersi alle
alte cariche dello Stato (che sono una minoranza, tra l’altra anche non
rappresentativa), bensì dobbiamo essere noi a cambiare. Siamo noi l’Italia!
domenica 20 maggio 2012
Scripta manent, n. 14 – Quando piovono i versi
Un uomo e la sua amata. Una pineta d’estate. Una pioggia leggera. Sono
questi gli ingredienti con cui è stata scritta una delle liriche più musicali e
vive della letteratura italiana: La
pioggia nel pineto, tratta dalla raccolta Alcyone.
L’uomo è il poeta Gabriele D’Annunzio e la sua amata è l’attrice
Eleonora Duse (nella lirica identificata col nome di Ermione). Siamo in Toscana,
precisamente a Marina di Pisa, una cittadina vicina al mare, tra giugno e
luglio di esattamente 110 anni fa, nel 1902: i due amanti fanno una passeggiata
in una pineta vicina piena di vegetazione, sono felici e spensierati; a un
tratto una pioggia li sorprende: è una pioggia estiva, di quelle lievi e quasi
eteree, con gocce sottili e poco rumorose. Il paesaggio, sotto il velo di
quelle gocce, comincia come ad animarsi e ogni elemento della natura assume una
singolare veste sonora.
I due si inoltrano nella natura selvaggia e vivono questo idillio (la favola bella) così singolare, notando
ora le piante (tamerici, pini, mirti, ginestre…), ora gli animali (le cicale,
la rana) e il loro “timbro” fonico, dato dall’acqua che li bagna; questa vividezza
della natura spinge i protagonisti a un’inevitabile simbiosi, al punto che essi
stessi si confondono con essa e cominciano a sentirsi parte integrante del
paesaggio, come elementi di quella stessa pineta nei pressi del mare.
Una lirica stupenda, dal grandissimo impatto musicale, definita da tutti
i critici come dotata di una musica sua, una musica senza musica, una musica
fatta di suoni verbali, di onomatopee che “parlano” autonomamente, andando
oltre la descrizione fisica dell’evento narrato e fornendo un’immagine sonora
ben precisa delle cose che descrive. Sono versi che sembrano uscire proprio da quella pioggia!
Segue alla lirica un video con la magistrale interpretazione del grande attore
Roberto Herlitzka.
Taci. Su le soglie
del bosco non odo
parole che dici
umane; ma odo
parole più nuove
che parlano gocciole e foglie
lontane.
Ascolta. Piove
dalle nuvole sparse.
Piove su le tamerici
salmastre ed arse,
piove su i pini
scagliosi ed irti,
piove su i mirti
divini,
su le ginestre fulgenti
di fiori accolti,
su i ginepri folti
di coccole aulenti,
piove su i nostri vólti
silvani,
piove su le nostre mani
ignude,
su i nostri vestimenti
leggieri,
su i freschi pensieri
che l’anima schiude
novella,
su la favola bella
che ieri
t’illuse, che oggi m’illude,
o Ermione.
Odi? La pioggia cade
su la solitaria
verdura
con un crepitìo che dura
e varia nell’aria
secondo le fronde
più rade, men rade.
Ascolta. Risponde
al pianto il canto
delle cicale
che il pianto australe
non impaura,
né il ciel cinerino.
E il pino
ha un suono, e il mirto
altro suono, e il ginepro
altro ancóra, stromenti
diversi
sotto innumerevoli dita.
E immersi
noi siam nello spirto
silvestre,
d’arborea vita viventi;
e il tuo vólto ebro
è molle di pioggia
come una foglia,
e le tue chiome
auliscono come
le chiare ginestre,
o creatura terrestre
che hai nome
Ermione.
Ascolta, ascolta. L’accordo
delle aeree cicale
a poco a poco
più sordo
si fa sotto il pianto
che cresce;
ma un canto vi si mesce
più roco
che di laggiù sale,
dall’umida ombra remota.
Più sordo, e più fioco
s’allenta, si spegne.
Sola una nota
ancor trema, si spegne,
risorge, trema, si spegne.
Non s’ode voce dal mare.
Or s’ode su tutta la fronda
crosciare
l’argentea pioggia
che monda,
il croscio che varia
secondo la fronda
più folta, men folta.
Ascolta.
La figlia dell’aria
è muta; ma la figlia
del limo lontana,
la rana,
canta nell’ombra più fonda,
chi sa dove, chi sa dove!
E piove su le tue ciglia,
Ermione.
Piove su le tue ciglia nere
sì che par tu pianga
ma di piacere; non bianca
ma quasi fatta virente,
par da scorza tu esca.
E tutta la vita è in noi fresca
aulente,
il cuor nel petto è come pèsca
intatta,
tra le pàlpebre gli occhi
son come polle tra l’erbe,
i denti negli alvèoli
son come mandorle acerbe.
E andiam di fratta in fratta,
or congiunti or disciolti
(e il verde vigor rude
ci allaccia i mallèoli
c’intrica i ginocchi)
chi sa dove, chi sa dove!
E piove su i nostri vólti
silvani,
piove su le nostre mani
ignude,
su i nostri vestimenti
leggieri,
su i freschi pensieri
che l’anima schiude
novella,
su la favola bella
che ieri
m’illuse, che oggi t’illude,
o Ermione.
Gabriele D'Annunzio, La pioggia nel pineto, in Alcyone
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