venerdì 31 ottobre 2014

Salvare Pompei, 105 milioni a rischio: “Riparte il futuro” propone la petizione

     Tutti, anche i sassi, conoscono gli scavi di Pompei: sono il sito archeologico dell’epoca romana più famoso e meglio conservato al mondo. Quest’area, riportata alla luce nel XVIII secolo e mappata interamente a fine ’800, è il punto di riferimento più importante per gli archeologi dell’età antica, nonché una grande fonte di pubblicità per il nostro paese, poiché richiama un numero impressionante di turisti ogni anno (il Ministero dei Beni Culturali fa sapere che nel 2013 il guadagno ha superato i 20 milioni di euro!). Si tratta di un bene talmente importante che l’UNESCO lo dichiara patrimonio dell’umanità.



    
Tuttavia negli ultimi anni il sito è stato lasciato a se stesso: lo stato ha smesso di occuparsene, sono stati registrati numerosi furti e soprattutto si sono verificati troppi, troppi crolli e danneggiamenti di strutture, che andrebbero messe in sicurezza e restaurate per evitare che l’incuria e l’indifferenza delle istituzioni provochi quello che duemila anni non sono riusciti a fare: distruggere il sito.
     Nel 2010 c’è il crollo della Domus dei Gladiatori, a marzo 2014 ben tre crolli vengono registrati in meno di 24 ore e a giugno altri due cedimenti strutturali. La situazione è chiara: Pompei è abbandonata.

     Il Grande Progetto Pompei, presentato da Mario Monti nel 2012, è uno stanziamento di fondi, in parte italiani in parte europei, per un totale di ben 105 milioni di euro, che si propone di restaurare, mettere in sicurezza e valorizzare il sito. Naturalmente, però, in casi simili c’è il rischio che i fondi stanziati vengano dirottati dalla corruzione e dalla malavita organizzata, che inevitabilmente prova ad insinuarsi nelle gare d’appalto. Nelle intenzioni iniziali, doveva esistere un protocollo che sorvegliasse la trasparenza delle operazioni e che controllasse gli episodi di corruzione: per questo, a sorveglianza dell’operazione è stato posto il Generale dei Carabinieri Giovanni Nistri, che in questo periodo ha steso una relazione in cui denuncia i pericoli di infiltrazione malavitosa e di corruzione. Già a febbraio 2013, infatti, la Guardia di Finanza denuncia alcuni soggetti coinvolti nelle operazioni per corruzione, abuso d’ufficio, frode e truffa.

     Riparte il Futuro, da sempre attivo in questi casi, ha lanciato una petizione, che chiediamo di firmare gratuitamente, con cui si chiede alla Camera un’audizione del generale Nistri affinché la sua relazione sia resa nota. Ricordiamo infatti che il generale ha anche proposto una procedura per ampliare la partecipazione dell’opinione pubblica alla questione e rendere noti tutti i passaggi delle procedure, improntando la cosa alla massima trasparenza possibile. Quando la gente partecipa, infatti, è molto più difficile che si verifichino episodi di corruzione.

     Firmiamo dunque, e facciamo firmare, questa necessaria petizione, permettiamo a Pompei di rialzarsi in tutto il suo splendore, perché è perfettamente possibile! Ci sono 105 milioni di euro già pronti!







mercoledì 29 ottobre 2014

Trattativa, i giudici interrogano Napolitano. La tesi dell’accusa è fondata

     I giudici di Palermo hanno ragione: la trattativa tra alcuni vertici dello Stato e Cosa Nostra nella stagione 1992-93 è servita per concedere alla mafia alcuni privilegi e lo Stato italiano ha accondisceso. Questa è la notizia più rilevante venuta fuori dall'interrogatorio a carico del Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano da parte di un pool di magistrati e avvocati provenienti da Palermo e coraggiosamente impegnati nel processo sulla Trattativa stato-mafia.
    
Il pool è arrivato al Quirinale ieri mattina alle 9:40. Napolitano non è voluto andare a Palermo, dove secondo il magistrato Antonio Ingroia, ieri ospite a L'aria che tira su La7, aveva il dovere morale di recarsi spontaneamente, per testimoniare nell’aula bunker dove si ascoltano i testi del processo. Alle 10:05 inizia l’interrogatorio.
     Nella sala “oscura” del Bronzino, stanza priva di finestre, Napolitano entra davanti a un gruppo composto principalmente dal procuratore aggiunto Vittorio Teresi, i pm Antonino di Matteo, Francesco Del Bene e Roberto Tartaglia, più gli avvocati degli imputati, come il legale di Riina o di Mori. Totalmente assenti i giornalisti e i fotografi, che attendono fuori le prime indiscrezioni dei magistrati e tengono d’occhio i comunicati ufficiali del Colle.

     Quaranta domande appositamente preparate e vagliate preventivamente a cui Napolitano ha dovuto dare risposta. Ma perché i giudici hanno voluto il contributo di Napolitano nel processo sulla trattativa? Fondamentalmente erano due le cose che interessavano.
     La prima riguardava una lettera scritta da Loris D’Ambrosio, il consulente giuridico di Napolitano, morto di infarto nel luglio 2012, indirizzata al Presidente della Repubblica: in essa il consulente denunciava «episodi del periodo 1989-1993 che mi preoccupano e fanno riflettere; che mi hanno portato a enucleare ipotesi – solo ipotesi – di cui ho detto anche ad altri, quasi preso anche dal vivo timore di essere stato allora considerato solo un ingenuo e utile scriba di cose utili a fungere da scudo per indicibili accordi».
     Il secondo tema era invece relativo alla consapevolezza di Napolitano che esistesse effettivamente una strategia mafiosa che mirava ad ottenere dallo Stato determinate cose attraverso l’uso delle stragi.

Loris D'Ambrosio
     Sul primo punto è da dire che il contributo di Napolitano è stato alquanto deludente. I giudici volevano che Napolitano, che lavorava a strettissimo contatto con D'Ambrosio, spiegasse il senso di quell'allarme che il suo consulente gli aveva lasciato: D'Ambrosio parla di «indicibili accordi» e teme di essere stato usato come ingranaggio di un meccanismo criminoso che ha prodotto fatti che «fanno riflettere». Un allarme molto esplicito. Napolitano risponde che non sa interpretare il senso di quelle parole e che anzi l'allarmismo di quella lettera era sicuramente riconducibile alla forte ansia che D'Ambrosio provava in quei giorni in cui si sentiva al centro dell'attenzione e temeva di essere associato ingiustamente a vicende di mafia: «D’Ambrosio era sconvolto per la campagna mediatica nei suoi confronti. Ma mai mi parlò del suo timore di essere considerato scriba di indicibili accordi». Gli risponde Antonio Ingroia a Coffee Break su La7 con un’obiezione: Napolitano si trova sul tavolo una lettera in cui il suo collaboratore più stretto denuncia una cosa tanto oscura e grave e non si preoccupa in tutto quel tempo di chiamarlo a colloquio per farsi spiegare quali fossero questi indicibili accordi? In questo senso, in effetti, il Presidente delude, perché alla domanda non risponde e dice solo che con D’Ambrosio non ha mai affrontato questo argomento, parlando invece solo delle sue dimissioni. I testimoni dell’interrogatorio hanno inoltre riferito che Napolitano si sia mostrato stizzito alle domande su D’Ambrosio e che ha praticamente passato tutta la prima mezz’ora di interrogatorio dando le spalle ai magistrati con cui parlava.

Il pm Antonino di Matteo
     Sul secondo punto invece Napolitano si è aperto di più. Ora, tutti sanno che la trattativa è effettivamente esistita (il processo indaga su chi abbia fatto questa trattativa e perché), ma Napolitano per la prima volta conferma che la tesi sostenuta dai magistrati dell’accusa è effettivamente fondata, giacché afferma che all’epoca i più alti vertici dello stato sentivano come minaccia allo Stato gli episodi stragisti; Napolitano afferma inoltre che quella strategia fosse «finalizzata a dare un aut aut ai pubblici poteri o a fare pressioni di tipo destabilizzante». E Travaglio, su Il fatto quotidiano, si chiede giustamente «Chissà che cosa scriverà, ora, chi aveva teorizzato che la testimonianza di Napolitano era inutile, superflua, un pretestuoso accanimento dei pm di Palermo a caccia di vendette per il conflitto di attribuzioni, un pretesto per “mascariare” il presidente della Repubblica agli occhi degli italiani e del mondo intero, per trascinarlo nel fango della trattativa Stato-mafia, per spettacolarizzare mediaticamente un processo già morto in partenza sul piano del diritto, naturalmente per violare le sue prerogative autoimmunitarie, e altre scemenze».

Antonio Ingroia
          Tra le varie polemiche, qualcuno afferma che la trattativa non ci sia mai stata (come facciano a dirlo se il processo ancora deve concludersi, è un mistero), altri invece che dicono che la trattativa c’è stata ma è stata fatta con una legittima ragion di stato, perché sarebbe servita a salvare la vita a delle persone: Ingroia chiarisce anche questo aspetto. Secondo il magistrato, infatti, se è vero che uno Stato può avere la libertà di trattare perfino con un’organizzazione criminale per il bene del paese, dev’essere altrettanto vero che prima o poi (e sono passati vent’anni!) di questa trattativa dev’essere reso conto ai cittadini. Magari non subito, perché ci sono dei rischi nell’immediato, ma poi la cosa deve diventare pubblica. È infatti per i cittadini che gli esponenti dello Stato fanno ciò che fanno: se quindi è vero che lo Stato ha trattato con la mafia per il bene del paese, cosa ha concesso alla mafia? E che cosa ha ricevuto in cambio? Chi ha fatto inoltre questa trattativa? Nessuna di queste domande ha mai ricevuto risposta, anzi si è sempre fatta una certa difficoltà anche solo ad affrontare l’argomento; il fatto stesso che sia stato necessario iniziare un processo per trovare queste risposte fa pensare che l’accordo non fosse stato fatto per il bene del paese. Anzi, la tesi accusatoria sostiene appunto che il patto fosse stato realizzato per salvare la vita di alcuni politici, che a partire dall’omicidio Lima erano entrati nel mirino di Cosa Nostra perché non stavano mantenendo le promesse che le avevano fatto: e infatti dopo la trattativa la mafia cambia strategia e non pensa più ai politici. Passa ai magistrati, muoiono Falcone e Borsellino, che la mafia la combattevano, e arrivano le bombe.

Spadolini, Scalfaro e Napolitano
     C’è chi si è chiesto se la testimonianza di Napolitano fosse davvero necessaria, dal momento che si sapeva che la trattativa c’è stata per davvero. Intanto la novità della deposizione di Napolitano non sta nella certezza della trattativa, ma nel fatto che le più alte cariche dello Stato di allora (ovvero l’allora Presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro, l’allora Presidente del Senato Giovanni Spadolini e della Camera Giorgio Napolitano) fossero a conoscenza della natura ricattatoria della strategia stragista di Cosa Nostra. Infatti di questi tre personaggi, oggi solo Napolitano è ancora vivo ed è quindi un testimone prezioso per le indagini. Napolitano ha infatti confermato che anche all’epoca ci fosse la consapevolezza che gli omicidi di Cosa Nostra servivano a destabilizzare e indebolire lo Stato al fine di poterlo mettere in condizioni di fare una trattativa con cui avrebbe dovuto concedere (come poi ha fatto) un alleggerimento della lotta alla mafia (l’allora Ministro della Giustizia Giovanni Conso non rinnova ad esempio il 41-bis, cioè il regime di carcere duro, a un bel po’ di detenuti).

    Da un’altra corrente, fortemente rappresentata da alcuni esponenti del Pd, Napolitano si sarebbe comportato da Presidente esemplare perché, pur non essendo tenuto a farlo, ha concesso la propria testimonianza ai giudici. In verità c’è da dire che se per un privato cittadino aiutare a scovare la verità su un tema così scottante come la trattativa tra lo Stato e la mafia è un dovere civico, per un Presidente della Repubblica, che all’epoca era Presidente della Camera, testimoniare davanti a tali giudici dovrebbe essere un’urgenza improrogabile e al dovere civico e morale si aggiunge anche quello politico. Tanto più che l’interrogatorio ha portato via solo tre ore, compresa la pausa, quindi non si capisce cosa ci sia di eccezionale in questa paternalistica concessione. Lo stesso Napolitano ha più volte fatto appello all’operato dei magistrati per la famosa “ricerca della verità”. Ha fatto quindi solo il suo dovere.

     Meno degni di nota e più ridicoli sono i commenti di coloro che hanno visto nella “sfilata” di magistrati al Quirinale una cosa indegna e lesiva nei confronti dell’istituzione. A queste obiezioni basta rispondere dicendo che Napolitano era liberissimo di recarsi personalmente a Palermo evitando a tutte quelle persone persone di “sfilare” al Quirinale; ma anche che se dei magistrati indagano su un tema scottantissimo e vedono in una persona un prezioso testimone, quest’ultimo, sia esso un normale cittadino o il Capo dello Stato (che è anche un cittadino!), deve concedere il proprio contributo: e se il testimone fa il Presidente della Repubblica e non vuole andare a Palermo dai magistrati, è normale che siano questi ad andare da lui al Quirinale. Non possono mica aspettarlo in piazza! Tanto più se si tratta di Giorgio Napolitano, poi, che dopo aver ordinato la distruzione delle intercettazioni che lo vedevano a telefono con Mancino, sempre relativamente alla trattativa, ha perso un bel po' di credibilità.


     Ad ogni modo, nei prossimi giorni dovranno essere resi noti i verbali di questo interrogatorio e ci si potrà fare un’idea più precisa di cosa sia stato detto. Restiamo in attesa.