I giudici di Palermo hanno ragione: la trattativa tra alcuni vertici dello Stato e Cosa Nostra nella
stagione 1992-93 è servita per concedere alla mafia alcuni privilegi e lo Stato
italiano ha accondisceso. Questa è la notizia più rilevante venuta fuori
dall'interrogatorio a carico del Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano
da parte di un pool di magistrati e avvocati provenienti da Palermo e
coraggiosamente impegnati nel processo sulla Trattativa stato-mafia.
Nella sala “oscura” del
Bronzino, stanza priva di finestre, Napolitano entra davanti a un gruppo composto
principalmente dal procuratore aggiunto Vittorio
Teresi, i pm Antonino di Matteo,
Francesco Del Bene e Roberto Tartaglia, più gli avvocati degli imputati, come il legale
di Riina o di Mori. Totalmente assenti i giornalisti e i fotografi, che
attendono fuori le prime indiscrezioni dei magistrati e tengono d’occhio i
comunicati ufficiali del Colle.
Quaranta domande
appositamente preparate e vagliate preventivamente a cui Napolitano ha dovuto
dare risposta. Ma perché i giudici hanno voluto il contributo di Napolitano nel
processo sulla trattativa? Fondamentalmente erano due le cose che
interessavano.
La prima riguardava una lettera scritta da Loris D’Ambrosio, il consulente giuridico di Napolitano, morto di
infarto nel luglio 2012, indirizzata al Presidente della Repubblica: in essa il
consulente denunciava «episodi del periodo 1989-1993 che mi preoccupano e
fanno riflettere; che mi hanno portato a enucleare ipotesi – solo ipotesi – di
cui ho detto anche ad altri, quasi preso anche dal vivo timore di essere
stato allora considerato solo un ingenuo e utile scriba di cose utili a fungere
da scudo per indicibili accordi».
Il secondo tema era invece
relativo alla consapevolezza di Napolitano che esistesse effettivamente una
strategia mafiosa che mirava ad ottenere dallo Stato determinate cose
attraverso l’uso delle stragi.
Loris D'Ambrosio |
Sul primo punto è da dire che
il contributo di Napolitano è stato alquanto deludente. I giudici volevano che Napolitano, che lavorava a
strettissimo contatto con D'Ambrosio, spiegasse il senso di quell'allarme che
il suo consulente gli aveva lasciato: D'Ambrosio parla di «indicibili accordi»
e teme di essere stato usato come ingranaggio di un meccanismo criminoso che ha
prodotto fatti che «fanno riflettere». Un allarme molto esplicito. Napolitano
risponde che non sa interpretare il senso di quelle parole e che anzi l'allarmismo di quella lettera era
sicuramente riconducibile alla forte ansia che D'Ambrosio provava in quei
giorni in cui si sentiva al centro dell'attenzione e temeva di essere associato
ingiustamente a vicende di mafia: «D’Ambrosio era sconvolto per la campagna
mediatica nei suoi confronti. Ma mai mi parlò del suo timore di essere
considerato scriba di indicibili accordi». Gli risponde Antonio Ingroia a Coffee Break su La7 con un’obiezione:
Napolitano si trova sul tavolo una lettera in cui il suo collaboratore più
stretto denuncia una cosa tanto oscura e grave e non si preoccupa in tutto quel
tempo di chiamarlo a colloquio per farsi spiegare quali fossero questi
indicibili accordi? In questo senso, in effetti, il Presidente delude, perché
alla domanda non risponde e dice solo che con D’Ambrosio non ha mai affrontato
questo argomento, parlando invece solo delle sue dimissioni. I testimoni dell’interrogatorio
hanno inoltre riferito che Napolitano si
sia mostrato stizzito alle domande su D’Ambrosio e che ha praticamente passato
tutta la prima mezz’ora di interrogatorio dando le spalle ai magistrati con cui
parlava.
Il pm Antonino di Matteo |
Sul secondo punto invece
Napolitano si è aperto di più. Ora, tutti sanno che la trattativa è effettivamente esistita (il processo indaga su chi
abbia fatto questa trattativa e perché), ma Napolitano per la prima volta
conferma che la tesi sostenuta dai
magistrati dell’accusa è effettivamente fondata, giacché afferma che all’epoca
i più alti vertici dello stato sentivano come minaccia allo Stato gli episodi stragisti; Napolitano afferma
inoltre che quella strategia fosse «finalizzata a dare un aut aut ai pubblici poteri o a fare pressioni di tipo
destabilizzante». E Travaglio, su Il fatto quotidiano, si chiede
giustamente «Chissà che cosa scriverà, ora, chi aveva teorizzato che la
testimonianza di Napolitano era inutile, superflua, un pretestuoso accanimento
dei pm di Palermo a caccia di vendette per il conflitto di attribuzioni, un
pretesto per “mascariare” il presidente della Repubblica agli occhi degli
italiani e del mondo intero, per trascinarlo nel fango della trattativa
Stato-mafia, per spettacolarizzare mediaticamente un processo già morto in
partenza sul piano del diritto, naturalmente per violare le sue prerogative
autoimmunitarie, e altre scemenze».
Antonio Ingroia |
Tra le varie polemiche,
qualcuno afferma che la trattativa non ci sia mai stata (come facciano a dirlo
se il processo ancora deve concludersi, è un mistero), altri invece che dicono
che la trattativa c’è stata ma è stata fatta con una legittima ragion di stato,
perché sarebbe servita a salvare la vita a delle persone: Ingroia chiarisce anche
questo aspetto. Secondo il magistrato, infatti, se è vero che uno Stato può
avere la libertà di trattare perfino con un’organizzazione criminale per il
bene del paese, dev’essere altrettanto vero che prima o poi (e sono passati
vent’anni!) di questa trattativa dev’essere
reso conto ai cittadini. Magari non subito, perché ci sono dei rischi nell’immediato,
ma poi la cosa deve diventare pubblica. È infatti per i cittadini che gli
esponenti dello Stato fanno ciò che fanno: se quindi è vero che lo Stato ha
trattato con la mafia per il bene del paese, cosa ha concesso alla mafia? E che
cosa ha ricevuto in cambio? Chi ha fatto inoltre questa trattativa? Nessuna
di queste domande ha mai ricevuto risposta, anzi si è sempre fatta una certa
difficoltà anche solo ad affrontare l’argomento; il fatto stesso che sia stato
necessario iniziare un processo per trovare queste risposte fa pensare che l’accordo
non fosse stato fatto per il bene del paese. Anzi, la tesi accusatoria sostiene
appunto che il patto fosse stato realizzato per salvare la vita di alcuni politici, che a partire dall’omicidio
Lima erano entrati nel mirino di Cosa Nostra perché non stavano mantenendo le
promesse che le avevano fatto: e infatti dopo la trattativa la mafia cambia
strategia e non pensa più ai politici. Passa ai magistrati, muoiono Falcone e
Borsellino, che la mafia la combattevano, e arrivano le bombe.
Spadolini, Scalfaro e Napolitano |
C’è chi si è chiesto se la testimonianza di Napolitano fosse
davvero necessaria, dal momento che si sapeva che la trattativa c’è stata
per davvero. Intanto la novità della deposizione di Napolitano non sta nella
certezza della trattativa, ma nel fatto che le più alte cariche dello Stato di
allora (ovvero l’allora Presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro, l’allora
Presidente del Senato Giovanni Spadolini e della Camera Giorgio Napolitano)
fossero a conoscenza della natura
ricattatoria della strategia stragista di Cosa Nostra. Infatti di questi
tre personaggi, oggi solo Napolitano è ancora vivo ed è quindi un testimone
prezioso per le indagini. Napolitano ha
infatti confermato che anche all’epoca ci fosse la consapevolezza che gli
omicidi di Cosa Nostra servivano a destabilizzare
e indebolire lo Stato al fine di poterlo
mettere in condizioni di fare una trattativa con cui avrebbe dovuto
concedere (come poi ha fatto) un alleggerimento della lotta alla mafia (l’allora
Ministro della Giustizia Giovanni Conso non rinnova ad esempio il 41-bis, cioè
il regime di carcere duro, a un bel po’ di detenuti).
Da un’altra corrente,
fortemente rappresentata da alcuni esponenti del Pd, Napolitano si sarebbe
comportato da Presidente esemplare perché, pur non essendo tenuto a farlo, ha
concesso la propria testimonianza ai giudici. In verità c’è da dire che se per
un privato cittadino aiutare a scovare la verità su un tema così scottante come
la trattativa tra lo Stato e la mafia è un dovere civico, per un Presidente
della Repubblica, che all’epoca era Presidente della Camera, testimoniare
davanti a tali giudici dovrebbe essere un’urgenza improrogabile e al dovere
civico e morale si aggiunge anche quello politico. Tanto più che l’interrogatorio
ha portato via solo tre ore, compresa la pausa, quindi non si capisce cosa ci
sia di eccezionale in questa paternalistica concessione. Lo stesso Napolitano
ha più volte fatto appello all’operato dei magistrati per la famosa “ricerca
della verità”. Ha fatto quindi solo il suo dovere.
Meno degni di nota e più
ridicoli sono i commenti di coloro che hanno visto nella “sfilata” di
magistrati al Quirinale una cosa indegna e lesiva
nei confronti dell’istituzione. A queste obiezioni basta rispondere dicendo
che Napolitano era liberissimo di recarsi personalmente a Palermo evitando a tutte
quelle persone persone di “sfilare” al Quirinale; ma anche che se dei
magistrati indagano su un tema scottantissimo e vedono in una persona un
prezioso testimone, quest’ultimo, sia esso un normale cittadino o il Capo dello
Stato (che è anche un cittadino!), deve concedere il proprio contributo: e se
il testimone fa il Presidente della Repubblica e non vuole andare a Palermo dai
magistrati, è normale che siano questi ad andare da lui al Quirinale. Non
possono mica aspettarlo in piazza! Tanto più se si tratta di Giorgio
Napolitano, poi, che dopo aver ordinato la
distruzione delle intercettazioni che lo vedevano a telefono con Mancino,
sempre relativamente alla trattativa, ha perso un bel po' di credibilità.
Ad ogni modo, nei prossimi
giorni dovranno essere resi noti i verbali di questo interrogatorio e ci si
potrà fare un’idea più precisa di cosa sia stato detto. Restiamo in attesa.
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