mercoledì 22 febbraio 2012

Piantina preistorica russa ritorna in vita dopo 30 mila anni

     Ricordate il film Jurassic Park? In quella pellicola degli scienziati riportavano in vita diversi esemplari di dinosauri utilizzando i residui del loro DNA rinvenuti in fossili animali. «Fantascienza!», dicevamo allora sorridendo! Ora non più. Una cosa simile è stata infatti annunciata poche ore fa dal mondo della scienza: degli scienziati russi sono riusciti a riportare in vita una pianta preistorica, conservata nel ghiaccio per più di 30 mila anni!
     I protagonisti di questa vicenda sono un team di ricercatori dell’Accademia russa delle Scienze, il più importante centro di ricerca scientifica di questo paese: nel 2007 in una località remota della Siberia furono rinvenuti alcuni semi di una pianta molto diffusa nell’era del Pleistocene. Si tratta di Silene stenophylla, una pianta spermatofita, cioè una pianta che si riproduce tramite semi; nella fattispecie si tratta di un’angiosperma, ovvero una pianta che oltre a produrre fiori, produce anche frutti. È una piantina di tipo erbaceo, quindi non ad alto fusto, che può essere contenuta in un vaso.

Un pugno di semi
     Il ritrovamento risale a una zona dell’estremo nord-est siberiano, nei pressi del fiume Kolyma, nell’entroterra vicino al Mare di Bering: in quello sperduto luogo disabitato, una manciata di frutti e semi di Silene stenophylla giacevano da oltre 30 mila anni a 38 metri di profondità. L’eccezionalità della scoperta stava nel fatto che i semi non erano esposti all’ambiente esterno, in particolare alle infiltrazioni d’acqua e alle basse temperature tipiche di quelle terre glaciali, bensì nel fatto che essi erano stati fossilizzati, ovvero tenuti isolati dalle condizioni ambientali: sono stati infatti rinvenuti in quella che è parsa ai biologi come la tana di un roditore (un antenato dell’odierno scoiattolo) che potrebbe averli raccolti e messi da parte. In quella sacca i semi sono rimasti quasi intatti.

Nota sui semi
     In generale il seme è l’equivalente vegetale dell’embrione animale, ma, a differenza di questi ultimi, che seguono un percorso di tempo prestabilito per la gestazione, poiché fin da subito si trovano in un ambiente favorevole alla crescita (l’utero della madre), i semi dei vegetali, essendo esposti fin da subito all’ambiente esterno, non si sviluppano se non quando sussistono le giuste condizioni (in particolare una temperatura adatta e la giusta quantità di acqua). Nella sacca sotterranea dove sono stati scoperti, i semi di Silene erano conservati a una temperatura di appena –7° C, che è niente in confronto alle temperature glaciali siberiane. Inoltre il ghiaccio che ricopre quelle terre è eterno, non si scioglie mai nel corso dell’anno (quel terreno è definito tecnicamente permafrost), e questo ha evitato che acqua liquida entrasse nel seme. I semi hanno infatti al loro interno delle strutture che cominciano a funzionare solo dopo che l’organismo ha ricevuto una precisa serie di segnali chimici e fisici dall’ambiente che testimonino l’esistenza di quelle condizioni favorevoli alla vita: e un forte ingresso di acqua può appunto rappresentare lo stimolo che fa partire tutti i meccanismi biochimici al suo interno deputati alla crescita del vegetale.
     I semi vegetali, quindi, hanno un’intrinseca capacità di restare “in letargo” (per un periodo di tempo variabile in base alla specie e alle condizioni in cui si trovano), o meglio, di rallentare il loro metabolismo biochimico, come avviene nell’ibernazione. E in questo i semi di Silene stenophylla si sono dimostrati dei veri e propri highlander!

Un nuovo record
     Ai semi è stata fatta una datazione col metodo del carbonio-14 e la loro età è stata stimata essere compresa tra i 31.500 e i 32.100 anni: questo ne ha fatto l’esemplare di essere vivente più antico mai riportato alla vita! Il record precedente risale infatti al 2005 ed era di un seme di palma da dattero rinvenuto in Israele, nella fortezza di Masada e datato 2000 anni. Stanislav Gubin, uno degli autori di questo studio, ha dichiarato che, per le condizioni in cui ha tenuto al riparo i semi, questo terreno siberiano si è rivelato essere una vera e propria «criobanca naturale». Esattamente come un caveau di una banca, infatti, questa sacca scavata nel permafrost ha custodito un vero e proprio “tesoro”: una finestra spalancata su un’epoca che non tornerà più.

Bentornata, stenophylla!
Esemplare di Silene stenophylla preistorico.
     Sebbene la fossilizzazione dei semi sia stata eccellente, rimane il fatto che riattivare un organismo rimasto per oltre 30 mila anni in stallo metabolico non è un’impresa facile! I semi sono molto fragili e andavano trattati con molta cura; inoltre bisognava riabituare la pianta a vivere in condizioni diverse da quella in cui si è trovata tutto quel tempo ed è questa la parte difficile della questione: riattivare una vita che si è mantenuta sul punto di spegnersi.
     In principio lo studio aveva previsto la riattivazione dei semi contenuti nei frutti di questa pianta, ma la cosa non è riuscita; si è passato quindi al tessuto dei frutti stessi, grazie al quale è stato possibile far ricominciare a girare gli ingranaggi biologici di questo vegetale plurimillenario. I tessuti rimasti intatti sono stati messi sotto coltura e sono stati trapiantati, creando nuovi semi, che poi sono germogliati, sotto una strettissima sorveglianza. Questi scienziati dal pollice verde hanno dovuto usare tecniche sofisticatissime per quest’operazione, tecniche che chiamano in causa l’istologia, la biologia e la genetica.
     Il team, guidato da David Gilichinsky (deceduto poco dopo la scoperta), ha usato il materiale proveniente da circa 70 cunicoli di tane scavate nei pressi del Kolyma.
     Dopo l’impianto dei tessuti, il team di ricercatori ha tenuto sotto stretta osservazione la coltura per oltre un anno, allo scadere del quale, la lieta novella: la pianta vive! Svetlana Yashina, del dipartimento di Biofisica dell’Accademia, a capo di questo studio, ha dichiarato che la pianta è «molto vitale e si adatta molto bene»: gli scienziati sono riusciti infatti a far germogliare ben 36 esemplari di questa piantina, riuscendo nel 100% dei tentativi.

Differenze generazionali: stenophylla ieri e oggi
Fiore di Silene stenophylla.
     Silene è una pianta altamente adattativa ed è tipica delle regioni glaciali della Siberia, al punto che esiste ancora oggi in una grande varietà di esemplari. Quando lo studio è stato completato, gli esemplari “resuscitati” sono stati confrontati con quelli odierni e sono state notate delle piccole differenze: è stato visto in particolare che le dimensioni della Silene preistorica sono leggermente inferiori; le radici crescono meno velocemente; la pianta produce meno gemme; e la forma dei petali è un po’ più ampia; nel complesso, però, la pianta è rimasta quasi del tutto intatta nel corso dell’evoluzione e questo ha un significato biologico ben preciso: vuol dire che l’organismo aveva già allora in sé le caratteristiche giuste per sopravvivere. Quando un organismo è inadatto al suo ambiente, infatti, deve cambiare se non vuole estinguersi: è la selezione naturale di cui parlava Darwin. Di conseguenza, se nel corso di parecchie ere un organismo non muta molto sulla sua scala evolutiva, vuol dire che non ha avuto bisogno di “aggiustamenti” perché “andava già bene così”. È questo il caso degli squali, per esempio, o dei coccodrilli, rimasti quasi gli stessi da quando hanno fatto la loro comparsa sulla Terra. Ora sta all’interpretazione dei biologi elaborare teorie che possano spiegare questi cambiamenti: infatti, poiché i mutamenti adattativi degli esseri viventi sono risposte a stimoli ambientali, allora le differenze morfologiche della pianta sono un riflesso delle differenze climatico-ambientali di quell’epoca. L’esemplare di Silene fornirà così alla scienza preziose informazioni su come fosse la Siberia ai tempi del Pleistocene.

Alcune tappe della crescita in laboratorio di Silene stenophylla.

Aspetti etici
     Non sono mancate critiche di carattere etico. Del resto, c’era da aspettarselo in uno studio in cui si maneggia la vita di un essere vivente. Infatti, al di là del caso specifico, una ricerca come questa ha reso il mondo scientifico molto fiducioso nel portare a termine imprese analoghe ma di portata maggiore, come il tentativo di riportare in vita un esemplare di mammut utilizzando tessuti di questo animale e impiantandoli in quelli di un elefante odierno (una ricerca già cominciata da un gruppo di giapponesi dell’Università di Kinki), o di lavorare sull’attivazione dei microrganismi intrappolati nei ghiacci di Marte!
     E prima che qualcuno possa pensare che imprese simili siano degne di nota solo in quanto molto vicine alla spettacolarità fantascientifica, è bene ricordare che dietro di esse può esserci un fine nobile: basti pensare alle specie ingiustamente estinte dall’uomo che potrebbero essere riportate in vita con lo sviluppo di queste tecniche di trattamento di tessuto placentari, come lo erano quelli dei frutti di Silene.
     Dall’altra parte, un uso improprio di questo strumento può riservare brutte sorprese. Le accuse di “giocare a fare Dio” sono una routine in questo settore di ricerca e infatti il ruolo della bioetica dovrebbe essere tutt’altro che marginale. È giusto riportare in vita un essere vivente che la natura ha espressamente selezionato per l’estinzione? O si dovrebbe limitare questa probabile applicazione solo alle specie scomparse a causa dell’uomo? E se queste ultime venissero riportate in vita, sapremmo tutelarle? O nascerebbe un nuovo business legato alla caccia di questi animali, ancora più feroce di prima, proprio perché esiste la possibilità di rigenerare quegli organismi? Gli interrogativi possono essere tanti e il rischio di fare la scelta sbagliata è alto. Anche questo insegnava il film Jurassic Park: usare male una simile conoscenza può significare creare qualcosa che si ritorce contro l’uomo stesso.


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