Ricordate il film Jurassic Park? In quella pellicola degli scienziati
riportavano in vita diversi esemplari di dinosauri utilizzando i residui del
loro DNA rinvenuti in fossili animali. «Fantascienza!», dicevamo allora
sorridendo! Ora non più. Una cosa simile è stata infatti annunciata poche ore
fa dal mondo della scienza: degli scienziati russi sono riusciti a riportare in
vita una pianta preistorica, conservata nel ghiaccio per più di 30 mila anni!
I protagonisti di questa vicenda sono un
team di ricercatori dell’Accademia russa delle Scienze, il più importante centro
di ricerca scientifica di questo paese: nel 2007 in una località remota della
Siberia furono rinvenuti alcuni semi di una pianta molto diffusa nell’era del
Pleistocene. Si tratta di Silene stenophylla, una pianta
spermatofita, cioè una pianta che si riproduce tramite semi; nella fattispecie
si tratta di un’angiosperma, ovvero una pianta che oltre a produrre fiori,
produce anche frutti. È una piantina di tipo erbaceo, quindi non ad alto fusto,
che può essere contenuta in un vaso.
Un
pugno di semi
Il ritrovamento risale a una zona dell’estremo
nord-est siberiano, nei pressi del fiume Kolyma, nell’entroterra vicino al Mare
di Bering: in quello sperduto luogo disabitato, una manciata di frutti e semi di
Silene stenophylla giacevano da oltre
30 mila anni a 38 metri di profondità. L’eccezionalità della scoperta stava nel
fatto che i semi non erano esposti all’ambiente esterno, in particolare alle
infiltrazioni d’acqua e alle basse temperature tipiche di quelle terre glaciali,
bensì nel fatto che essi erano stati fossilizzati, ovvero tenuti isolati dalle
condizioni ambientali: sono stati infatti rinvenuti in quella che è parsa ai
biologi come la tana di un roditore (un antenato dell’odierno scoiattolo) che
potrebbe averli raccolti e messi da parte. In quella sacca i semi sono rimasti
quasi intatti.
Nota
sui semi
In generale il seme è l’equivalente
vegetale dell’embrione animale, ma, a differenza di questi ultimi, che seguono
un percorso di tempo prestabilito per la gestazione, poiché fin da subito si
trovano in un ambiente favorevole alla crescita (l’utero della madre), i semi
dei vegetali, essendo esposti fin da subito all’ambiente esterno, non si
sviluppano se non quando sussistono le giuste condizioni (in particolare una
temperatura adatta e la giusta quantità di acqua). Nella sacca sotterranea dove
sono stati scoperti, i semi di Silene
erano conservati a una temperatura di appena –7° C, che è niente in confronto
alle temperature glaciali siberiane. Inoltre il ghiaccio che ricopre quelle
terre è eterno, non si scioglie mai nel corso dell’anno (quel terreno è
definito tecnicamente permafrost), e
questo ha evitato che acqua liquida entrasse nel seme. I semi hanno infatti al
loro interno delle strutture che cominciano a funzionare solo dopo che l’organismo
ha ricevuto una precisa serie di segnali chimici e fisici dall’ambiente che
testimonino l’esistenza di quelle condizioni favorevoli alla vita: e un forte
ingresso di acqua può appunto rappresentare lo stimolo che fa partire tutti i
meccanismi biochimici al suo interno deputati alla crescita del vegetale.
I semi vegetali, quindi, hanno un’intrinseca
capacità di restare “in letargo” (per un periodo di tempo variabile in base
alla specie e alle condizioni in cui si trovano), o meglio, di rallentare il
loro metabolismo biochimico, come avviene nell’ibernazione. E in questo i semi
di Silene stenophylla si sono
dimostrati dei veri e propri highlander!
Un
nuovo record
Ai semi è stata fatta una datazione col
metodo del carbonio-14 e la loro età è stata stimata essere compresa tra i
31.500 e i 32.100 anni: questo ne ha fatto l’esemplare di essere vivente più
antico mai riportato alla vita! Il record precedente risale infatti al 2005 ed era
di un seme di palma da dattero
rinvenuto in Israele, nella fortezza di Masada e datato 2000 anni. Stanislav Gubin, uno degli autori di
questo studio, ha dichiarato che, per le condizioni in cui ha tenuto al riparo
i semi, questo terreno siberiano si è rivelato essere una vera e propria «criobanca
naturale». Esattamente come un caveau di una banca, infatti, questa sacca
scavata nel permafrost ha custodito un vero e proprio “tesoro”: una finestra
spalancata su un’epoca che non tornerà più.
Bentornata,
stenophylla!
Esemplare di Silene stenophylla preistorico. |
Sebbene la fossilizzazione dei semi sia
stata eccellente, rimane il fatto che riattivare un organismo rimasto per oltre
30 mila anni in stallo metabolico non è un’impresa facile! I semi sono molto
fragili e andavano trattati con molta cura; inoltre bisognava riabituare la
pianta a vivere in condizioni diverse da quella in cui si è trovata tutto quel
tempo ed è questa la parte difficile della questione: riattivare una vita che
si è mantenuta sul punto di spegnersi.
In principio lo studio aveva previsto la
riattivazione dei semi contenuti nei frutti di questa pianta, ma la cosa non è
riuscita; si è passato quindi al tessuto dei frutti stessi, grazie al quale è
stato possibile far ricominciare a girare gli ingranaggi biologici di questo
vegetale plurimillenario. I tessuti rimasti intatti sono stati messi sotto
coltura e sono stati trapiantati, creando nuovi semi, che poi sono germogliati,
sotto una strettissima sorveglianza. Questi scienziati dal pollice verde hanno
dovuto usare tecniche sofisticatissime per quest’operazione, tecniche che
chiamano in causa l’istologia, la biologia e la genetica.
Il team, guidato da David Gilichinsky
(deceduto poco dopo la scoperta), ha usato il materiale proveniente da circa 70
cunicoli di tane scavate nei pressi del Kolyma.
Dopo l’impianto dei tessuti, il team di
ricercatori ha tenuto sotto stretta osservazione la coltura per oltre un anno,
allo scadere del quale, la lieta novella: la pianta vive! Svetlana Yashina, del dipartimento di Biofisica dell’Accademia, a
capo di questo studio, ha dichiarato che la pianta è «molto vitale e si adatta
molto bene»: gli scienziati sono riusciti infatti a far germogliare ben 36
esemplari di questa piantina, riuscendo nel 100% dei tentativi.
Differenze
generazionali: stenophylla ieri e oggi
Fiore di Silene stenophylla. |
Silene
è una pianta altamente adattativa ed è tipica delle regioni glaciali della
Siberia, al punto che esiste ancora oggi in una grande varietà di esemplari.
Quando lo studio è stato completato, gli esemplari “resuscitati” sono stati
confrontati con quelli odierni e sono state notate delle piccole differenze: è
stato visto in particolare che le dimensioni della Silene preistorica sono leggermente inferiori; le radici crescono
meno velocemente; la pianta produce meno gemme; e la forma dei petali è un po’ più
ampia; nel complesso, però, la pianta è rimasta quasi del tutto intatta nel
corso dell’evoluzione e questo ha un significato biologico ben preciso: vuol
dire che l’organismo aveva già allora in sé le caratteristiche giuste per
sopravvivere. Quando un organismo è inadatto al suo ambiente, infatti, deve
cambiare se non vuole estinguersi: è la selezione naturale di cui parlava
Darwin. Di conseguenza, se nel corso di parecchie ere un organismo non muta
molto sulla sua scala evolutiva, vuol dire che non ha avuto bisogno di “aggiustamenti”
perché “andava già bene così”. È questo il caso degli squali, per esempio, o
dei coccodrilli, rimasti quasi gli stessi da quando hanno fatto la loro
comparsa sulla Terra. Ora sta all’interpretazione dei biologi elaborare teorie
che possano spiegare questi cambiamenti: infatti, poiché i mutamenti adattativi
degli esseri viventi sono risposte a stimoli ambientali, allora le differenze
morfologiche della pianta sono un riflesso delle differenze
climatico-ambientali di quell’epoca. L’esemplare di Silene fornirà così alla scienza preziose informazioni su come
fosse la Siberia ai tempi del Pleistocene.
Alcune tappe della crescita in laboratorio di Silene stenophylla. |
Aspetti
etici
Non sono mancate critiche di carattere
etico. Del resto, c’era da aspettarselo in uno studio in cui si maneggia la
vita di un essere vivente. Infatti, al di là del caso specifico, una ricerca
come questa ha reso il mondo scientifico molto fiducioso nel portare a termine
imprese analoghe ma di portata maggiore, come il tentativo di riportare in vita
un esemplare di mammut utilizzando tessuti di questo animale e impiantandoli in
quelli di un elefante odierno (una ricerca già cominciata da un gruppo di
giapponesi dell’Università di Kinki), o di lavorare sull’attivazione dei
microrganismi intrappolati nei ghiacci di Marte!
E prima che qualcuno possa pensare che
imprese simili siano degne di nota solo in quanto molto vicine alla
spettacolarità fantascientifica, è bene ricordare che dietro di esse può
esserci un fine nobile: basti pensare alle specie ingiustamente estinte dall’uomo
che potrebbero essere riportate in vita con lo sviluppo di queste tecniche di
trattamento di tessuto placentari, come lo erano quelli dei frutti di Silene.
Dall’altra parte, un uso improprio di
questo strumento può riservare brutte sorprese. Le accuse di “giocare a fare
Dio” sono una routine in questo settore di ricerca e infatti il ruolo della
bioetica dovrebbe essere tutt’altro che marginale. È giusto riportare in vita
un essere vivente che la natura ha espressamente selezionato per l’estinzione? O
si dovrebbe limitare questa probabile applicazione solo alle specie scomparse a
causa dell’uomo? E se queste ultime venissero riportate in vita, sapremmo
tutelarle? O nascerebbe un nuovo business legato alla caccia di questi animali,
ancora più feroce di prima, proprio perché esiste la possibilità di rigenerare
quegli organismi? Gli interrogativi possono essere tanti e il rischio di fare
la scelta sbagliata è alto. Anche questo insegnava il film Jurassic Park: usare male una simile conoscenza può significare
creare qualcosa che si ritorce contro l’uomo stesso.
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