Tutto preso da temi di
cronaca politica, ho trascurato la rubrica Latine
loquimur. Ecco subito tre massime per rimediare!
Nota: la
pronuncia scolastica è quella usata (e insegnata) in Italia; la pronuncia
restituita è quella che, secondo le ricostruzioni, veniva realmente usata dai
Romani.
gdfabech
Cicero pro domo sua
[pronuncia scolastica: Cìcero
pro domo sua]
[pronuncia restituita: Chìchero
pro domo sua]
Letteralmente
significa “Cicerone a favore della sua casa”, intendendo proprio la casa come
edificio. L’aneddoto è ben noto: il celebre senatore e avvocato Cicerone era
riuscito a far condannare Catilina e i suoi complici dopo la famosa congiura,
ma gli avversari politici di Cicerone riuscirono a vendicarsi approvando una
legge che mandava in esilio chiunque avesse fatto condannare un cittadino
romano senza concedergli l’appello al popolo (ciò che Cicerone aveva appunto
fatto con Catilina). Cicerone va in esilio a Salonicco, ma quando torna la sua
casa sul colle Palatino non c’è più: il tribuno della plebe Publio Clodio, che aveva fatto appunto approvare quella legge, l’ha fatta radere al suolo e al suo posto ha
fatto costruire una statua alla dea Libertas.
Cicerone non ci pensa due volte: nel 57 a.C. si appella al collegio dei
pontefici e fa subito un’arringa, intitolata De domo sua ad Pontifices (“Riguardo la propria casa ai pontefici”),
in cui riesce a dimostrare l’illegittimità della legge e a farsi ricostruire la
casa a spese dello stato.
L’espressione è usata per indicare quelle persone che difendono con
convinzione e con zelo la propria causa, un proprio interesse, anche al di
fuori dell’ambito giurisdizionale. Nell’ambito di una discussione, di una
disputa, di un litigio, chiunque si impegni per difendere la sua tesi è un “Cicerone
a favore della sua casa”. L’espressione viene usata anche in senso
dispregiativo, per indicare quegli amministratori e quei politici che intendono
nascondere pubblicamente le proprie mosse fatte con l’esplicito scopo di
lucrare illecitamente a danno della collettività.
Corruptissima re publica
plurimae leges
[pronuncia scolastica: corruptìssima
re pùblica plùrime leges]
[pronuncia restituita: corruptìssima
re pùblica plùrimae leghes]
“Quando
lo stato è molto corrotto” (corruptissima
re publica) le leggi [sono] tantissime (plurimae
leges), col verbo “essere” sottinteso, come spesso avviene in latino. Un proverbio
pieno di verità che fornisce un eccellente criterio per giudicare il livello di
corruzione di un paese. Quando infatti la corruzione dilaga e si delinque in
molti modi, è anche perché chi sta ai vertici del potere ha interesse che
questo venga fatto e resti impunito; quindi, invece di combattere il problema
agendo concretamente con indagini, controlli, arresti, ci si limita a far finta
di disincentivare i reati aggiungendo leggi su leggi, commi su commi, rimpinzando
i codici di emendamenti che inaspriscono le pene senza però estinguere i reati.
L’Italia in queste cose è un esempio
perfetto in questo momento: montagne di articoli e norme, molte delle quali si
contraddicono l’un l’altra, risultano ben poco efficaci per contrastare la
corruzione. Appena si fa una norma, subito si trova il modo di aggirarla e
compiere lo stesso reato in un altro modo; allora si finge di rimediare facendo
un’altra norma che impedisca questo, ma le scappatoie continuano ad esserci. Un
esempio a caso: fino al 1993 per i partiti politici erano previsti dei
finanziamenti con denaro pubblico; in quello stesso anno un referendum
abrogativo impediva questo finanziamento pubblico, ma i parlamentari non si
persero d’animo: giacché il “finanziamento” era stato abolito introdussero il “rimborso
elettorale”, in pratica i soldi entravano lo stesso ma si chiamavano con un
altro nome. Non a caso proprio in questo periodo si stanno raccogliendo firme
proprio per impedire anche questa forma di introiti di fondi pubblici ai
partiti. Chissà cosa si inventeranno se il prossimo referendum dovesse abolire
anche questo!
Pecunia non olet
[pronuncia scolastica: pecùnia non olet]
[pronuncia restituita: pecùnia
non olet]
Vogliono le
cronache storiche di Svetonio (De vita
Caesarum, VIII, 23, 3) e Cassio Dione Cocceiano (Historia Romana, LXV, 14, 5) che quando l’imperatore Vespasiano
mise una tassa sull’urina raccolta dagli orinatoi pubblici, detta centesima venalium, prevedeva grosse
entrate di denaro nelle casse dello stato. L’urina infatti veniva usata per
molti scopi nell’età antica: solo le lavanderie ne usavano tantissima per
lavare gli abiti, sfruttando, senza saperlo, l’ammoniaca che essa contiene; e
anche i conciatori di pelli ne facevano largo uso, rendendola un vero e proprio
business. Il figlio di Vespasiano, Tito, restò perplesso da questa forma di
tassazione un po’ imbarazzante e rimproverò il padre per quella sua scelta di
cattivo gusto. Vuole allora la cronaca svetoniana (e cito letteralmente) che Vespasiano
portò «sotto il naso [a Tito] il denaro proveniente dalla prima riscossione,
chiedendogli se fosse infastidito dall’odore; e quando quello disse di no, lui
rispose: “Eppure viene dal piscio”». “I soldi non puzzano”, pecunia non olet, dunque: come a dire
che il denaro è denaro! La frase viene quindi usata per giustificare (a volte
cinicamente) il modo poco ortodosso con cui ci si procura soldi, con la scusa
che la provenienza del denaro non ha importanza davanti al fine con cui lo si
vuole usare.
Nessun commento:
Posta un commento