venerdì 7 ottobre 2011

Latine loquimur, n. 3

     Sono lieto di propinarvi la mia dose di latinità anche questo mese.
     Nota: la pronuncia scolastica è quella usata (e insegnata) in Italia; la pronuncia restituita è quella che, secondo le ricostruzioni, veniva realmente usata dai Romani.

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Ante litteram
[pronuncia scolastica: ante lìtteram]
[pronuncia restituita: ante lìtteram]

     L’ambito in cui è nata questa espressione è quello editoriale: ante litteram vuol dire letteralmente “prima della lettera”, dove il “prima” è inteso in senso cronologico e la “lettera” sta per “didascalia”; il riferimento è infatti alle prove di stampa che, proprio in quanto tali, non hanno ancora la didascalia. Una stampa fatta senza quella didascalia è quindi detta ante litteram. Tuttavia l’espressione è passata ad indicare, in senso figurato, quei personaggi (filosofi, artisti, poeti, scienziati) che per l’originalità del loro pensiero rispetto ai tempi anticipano i principi e le caratteristiche di movimenti culturali, storici, artistici di periodi successivi a essi. Per esempio, il poeta Petrarca innovò moltissimo il contenuto della poesia che era in voga ai suoi tempi, anticipando temi che sarebbero stati tipici di un movimento culturale successivo, l’umanesimo: possiamo dire quindi che Petrarca è stato un umanista ante litteram.


Pro captu lectoris habent sua fata libelli
[pronuncia scolastica: pro captu lectòris abent sua fata libèlli]
[pronuncia restituita: pro captu lectòris habent sua fata libèlli]

     La frase risale a Terenziano Mauro, grammatico romano del II secolo d.C.: si tratta del verso 1286 del suo trattato De litteris, De syllabis, De metris (Sulla letteratura, Sulle sillabe, Sui metri), in quattro libri, di cui solo tre si sono conservati, e significa “A seconda dell’intelligenza del lettore i libri hanno il loro destino”. Il termine captu deriva da captus, a sua volta discendente dal verbo capio, che vuol dire “io prendo”, “io afferro” ed è quindi l’afferrare, il saper cogliere, ovvero il comprendonio, l’intelligenza appunto: intuizione felicissima di Terenziano che assume validità del tutto universale. Come si fa a dire che un libro è bello o brutto se non c’è un pubblico che lo giudichi? Ogni scrittore vive il dramma dell’impatto con il lettore: è questo a determinare la fama della sua opera. La Divina Commedia di Dante Alighieri non sarebbe valsa un soldo bucato se non ci fosse mai stato un pubblico capace di apprezzarla! Numerosi sono gli aneddoti nel mondo della letteratura di libri divenuti famosi in maniera tardiva o addirittura dopo la morte dei loro autori, poiché all’epoca delle pubblicazioni nessuno era in grado di accoglierli. Quando Italo Svevo cominciò a pubblicare, critica e pubblico italiani lo snobbarono alla grande; così come famoso è il caso della Recherche di Marcel Proust, che André Gide si rifiutò di pubblicare ma che procurò allo scrittore grande fama (errore che Gide non si perdonò mai); anche il Petrarca credeva e sperava di diventar famoso grazie al suo poema in latino Africa, che oggi i più neanche conoscono, e passò alla storia piuttosto grazie al suo Canzoniere.


Si parva licet componere magnis
[pronuncia scolastica: si parva licet compònere magnis]
[pronuncia restituita: si parva lichet compònere maghnis]

     Celeberrimo verso del poeta Virgilio (Andes, 15 ottobre 70 a.C. – Brindisi, 21 settembre 19 a.C.). Siamo nelle Georgiche, libro IV, verso 176: Virgilio mette a confronto il meticoloso lavoro delle api con quello dei Ciclopi e, rendendosi conto della sproporzione del confronto, quasi si scusa col lettore per l’esagerazione e dice “se è lecito paragonare le cose piccole a quelle grandi”. Il verbo licet ha il preciso significato di “essere concesso”, “essere permesso”, “essere lecito”. Il verso viene usato ogni volta che si vuole giustificare una messa a confronto tra due cose che tra loro sono molti (se non troppo) dissimili, come quando ci rendiamo conto di avere in comune qualcosa con un grande personaggio e, nel dirlo agli altri, aggiungiamo si parva licet componere magnis, come a dire «se mi concedete di fare questo paragone azzardato». In termini più tecnici questo è un espediente retorico chiamato excusatio, “scusa”, e serve a far accettare all’interlocutore, col pretesto dell’umiltà, un paragone che normalmente non sarebbe stato accettato.

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