Nono appuntamento con la rubrica per l’uso di
espressioni latine nella vita quotidiana.
Nota:
la pronuncia scolastica è quella usata (e insegnata) in Italia; la pronuncia
restituita è quella che, secondo le ricostruzioni, veniva realmente usata dai
Romani.
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Absit iniuria verbis
[pronuncia
scolastica: absit iniùria verbis]
[pronuncia
restituita: absit iniùria verbis]
Letteralmente significa “L’offesa (iniuria)
sia lontana (absit) dalle parole (verbis)”. La frase è tratta da Tito
Livio, (Ab Urbe condita, IX, 19, 15),
in cui figura però la forma Absit iniuria
verbo, con il termine verbum al
singolare (“Sia l’offesa lontana dalla parola”). L’espressione ha la funzione di
attenuare la gravità o l’intensità di ciò che si è appena detto, per evitare
che chi ascolta possa fraintendere e scambiare tutto per un’offesa. Possiamo
dire quindi absit iniuria verbis
quando stiamo per dire qualcosa di delicato a un amico, per esempio, quando gli
vogliamo dare un consiglio in cui dobbiamo per forza criticare qualcosa di lui
ma a fin di bene… Oppure quando stiamo riportando una critica severa e spietata
che però non è nostra ma di qualcun altro e vogliamo dunque alienare da noi la
responsabilità di quanto diremo… O ancora se diciamo semplicemente una cosa per
amore della verità che però potrebbe essere troppo difficile da accettare.
Labor limae
[pronuncia
scolastica: labor lime]
[pronuncia
restituita: labor lìmae]
Espressione che è diventata un termine tecnico in ambito letterario, il labor limae designa il “lavoro di
limatura” (letteralmente: “fatica della lima”), ovvero quella scrupolosità e
quell’accuratezza con cui si cercano le parole giuste, le più adatte a ciò che
si vuole comunicare mentre si scrive. È il dramma di ogni poeta, che con poche
giuste parole deve trasmettere il suo messaggio nel modo più efficace possibile
senza star lì a spiegare troppo prolissamente il perché dei termini che usa. Ma
in generale ogni scrittore che voglia evitare di banalizzare ed essere efficace
sul piano comunicativo attraverso una scelta soppesata delle parole deve
compiere un labor limae. Famoso era
il poeta Virgilio per la sua ossessione quasi maniacale per la ricercatezza e
la rifinitura lessicale quando scrisse la tormentata Eneide: le cronache riportano che ne scrivesse pochissimi versi al
giorno e che alla fine, in punta di morte, volesse perfino distruggerla perché
non ne fosse soddisfatto. In realtà la scelta si giustificava con un suo allontanamento
dalla politica del principe Ottaviano Augusto, a cui aveva promesso in passato
di elogiare la sua discendenza con un poema che ne celebrasse le origini.
Quandoque bonus dormitat Homerus
[pronuncia
scolastica: quandòque bonus dormìtat Omèrus]
[pronuncia
restituita: cuandòcue bonus dormìtat Homèrus]
“Qualche
volta (quandoque) il buon Omero (bonus Homerus) sonnecchia (dormitat)”. Tradotto alla buona: “Talvolta
si abbiocca anche il buon Omero”. Un modo più aulico per dire che capita anche
ai grandi (come Omero, poeta per antonomasia) di rilassarsi un po’, di non
essere sempre sempre al top, di poter essere sotto tono e sbagliare qualcosa. La
frase risale a Orazio (Ars poetica,
359), che intendeva riferirsi al problema, molto sentito nella questione omerica
dai filologi alessandrini, delle discrepanze di vari passi delle opere
omeriche. Orazio chiede quindi un po’ di indulgenza se a volte un autore cade
in contraddizione senza volerlo, soprattutto se vanta una ricchissima
produzione letteraria.
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