lunedì 8 aprile 2013

Latine loquimur, n. 9


     Nono appuntamento con la rubrica per l’uso di espressioni latine nella vita quotidiana.
     Nota: la pronuncia scolastica è quella usata (e insegnata) in Italia; la pronuncia restituita è quella che, secondo le ricostruzioni, veniva realmente usata dai Romani.


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Absit iniuria verbis
[pronuncia scolastica: absit iniùria verbis]
[pronuncia restituita: absit iniùria verbis]

     Letteralmente significa “L’offesa (iniuria) sia lontana (absit) dalle parole (verbis)”. La frase è tratta da Tito Livio, (Ab Urbe condita, IX, 19, 15), in cui figura però la forma Absit iniuria verbo, con il termine verbum al singolare (“Sia l’offesa lontana dalla parola”). L’espressione ha la funzione di attenuare la gravità o l’intensità di ciò che si è appena detto, per evitare che chi ascolta possa fraintendere e scambiare tutto per un’offesa. Possiamo dire quindi absit iniuria verbis quando stiamo per dire qualcosa di delicato a un amico, per esempio, quando gli vogliamo dare un consiglio in cui dobbiamo per forza criticare qualcosa di lui ma a fin di bene… Oppure quando stiamo riportando una critica severa e spietata che però non è nostra ma di qualcun altro e vogliamo dunque alienare da noi la responsabilità di quanto diremo… O ancora se diciamo semplicemente una cosa per amore della verità che però potrebbe essere troppo difficile da accettare.


Labor limae
[pronuncia scolastica: labor lime]
[pronuncia restituita: labor lìmae]

     Espressione che è diventata un termine tecnico in ambito letterario, il labor limae designa il “lavoro di limatura” (letteralmente: “fatica della lima”), ovvero quella scrupolosità e quell’accuratezza con cui si cercano le parole giuste, le più adatte a ciò che si vuole comunicare mentre si scrive. È il dramma di ogni poeta, che con poche giuste parole deve trasmettere il suo messaggio nel modo più efficace possibile senza star lì a spiegare troppo prolissamente il perché dei termini che usa. Ma in generale ogni scrittore che voglia evitare di banalizzare ed essere efficace sul piano comunicativo attraverso una scelta soppesata delle parole deve compiere un labor limae. Famoso era il poeta Virgilio per la sua ossessione quasi maniacale per la ricercatezza e la rifinitura lessicale quando scrisse la tormentata Eneide: le cronache riportano che ne scrivesse pochissimi versi al giorno e che alla fine, in punta di morte, volesse perfino distruggerla perché non ne fosse soddisfatto. In realtà la scelta si giustificava con un suo allontanamento dalla politica del principe Ottaviano Augusto, a cui aveva promesso in passato di elogiare la sua discendenza con un poema che ne celebrasse le origini.


Quandoque bonus dormitat Homerus
[pronuncia scolastica: quandòque bonus dormìtat Omèrus]
[pronuncia restituita: cuandòcue bonus dormìtat Homèrus]

     “Qualche volta (quandoque) il buon Omero (bonus Homerus) sonnecchia (dormitat)”. Tradotto alla buona: “Talvolta si abbiocca anche il buon Omero”. Un modo più aulico per dire che capita anche ai grandi (come Omero, poeta per antonomasia) di rilassarsi un po’, di non essere sempre sempre al top, di poter essere sotto tono e sbagliare qualcosa. La frase risale a Orazio (Ars poetica, 359), che intendeva riferirsi al problema, molto sentito nella questione omerica dai filologi alessandrini, delle discrepanze di vari passi delle opere omeriche. Orazio chiede quindi un po’ di indulgenza se a volte un autore cade in contraddizione senza volerlo, soprattutto se vanta una ricchissima produzione letteraria.

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