Nota: la
pronuncia scolastica è quella usata (e insegnata) in Italia; la pronuncia
restituita è quella che, secondo le ricostruzioni, veniva realmente usata dai
Romani.
gdfabech
Qui pro quo
[pronuncia
scolastica: qui pro quo]
[pronuncia restituita: cuì
pro cuò]
Qui pro quo significa letteralmente: “qui al posto di quo”, ma non è una cosa che riguarda i nipotini di Paperino. La locuzione
oggi è usata per significare “prendere fischi per fiaschi”, quindi per indicare
un malinteso, un fraintendimento. Quando per sbaglio mettiamo il sale nel caffè
al posto dello zucchero (non fate quello sguardo diffidente: a me è successo
una volta!), diciamo per scusarci che «è stato un qui pro quo»; oppure quando da lontano salutiamo un nostro amico e,
avvicinandoci, ci rendiamo conto che non era lui, bensì un estraneo che gli
somigliava, si è trattato di un qui pro
quo, di uno scambio, di un errore, di un malinteso. La storia di questa
espressione risale al Medioevo per indicare un errore di copia delle lettere
nei manoscritti. La semplice lettera O usata al posto della I cambia molto il
significato della parola: in latino, infatti, qui è il pronome relativo maschile singolare usato con funzione di
soggetto e significa quindi “il quale”; mentre quo è lo stesso pronome relativo usato con una funzione logica
diversa da quella di soggetto, potendo quindi significare “a causa del quale” o
anche “con il quale”. Molti tendono a leggere l’espressione in maniera meno
letterale, traducendo anche il significato di qui e quo in italiano, e
facendo suonare quindi la locuzione come “il quale al posto del quale”, o
meglio: “questo al posto di quello”. La sostanza non cambia.
Do ut des
[pronuncia
scolastica: do ut des]
[pronuncia
restituita: do ut des]
Modo di dire molto famoso e diffuso nel linguaggio parlato, il do ut des è una delle locuzioni più
rappresentative dell’agire umano. Ma andiamo con calma: si traduce con “io do
affinché tu dia” e in una visione estrema indica il comportamento dell’egoista
che non si scomoda a far favori a nessuno se non ne riceve qualcosa in cambio.
Al di fuori di questa prospettiva, invece, il do ut des è semplicemente il modo di fare della civiltà umana, che
si basa da sempre su scambi di favori reciproci. “Nessuno fa niente per niente”,
diciamo noi in italiano per indicare la stessa cosa, ma usando una frase meno
lapidaria e più cinica. Seneca scrisse addirittura un’opera su questa regola di
vita sociale, i sette libri del De
beneficiis (“Sui favori”) dedicati all’amico Ebuzio: nel De beneficiis Seneca analizza il
complesso rapporto di scambi che caratterizza la civiltà romana, tutta improntata
e fondata su rapporti di tipo clientelare in cui la gratitudine, il debito e il
credito sono ciò che fa andare avanti il mondo; anche se il buon Seneca,
poverino, faceva il tifo per un tipo di beneficium
(“favore”) più disinteressato, che fosse mosso dal semplice piacere di donare e
non dalla speranza di ricevere qualcosa in cambio. Pia illusione, gli
risponderebbe il filosofo contemporaneo Jacques Derrida che, nel suo Donare il tempo. La moneta falsa
analizza l’atto del dono così come ce lo siamo autorappresentato per secoli,
mettendo in evidenza che esso non è e non può essere così disinteressato come
crediamo, perché anche cose come la gratitudine pura e semplice, o la gioia di
aver donato rappresentano per noi delle “ricompense”, che ci fanno quindi avere
qualcosa “in cambio” di cui godiamo e che anzi inconsciamente cerchiamo di
procurarci.
Nella lingua
anglosassone il concetto del do ut des
viene espresso con una locuzione simile a quella sopra descritta: quid pro quo, “questa cosa al posto di
quest’altra”. Quest’ultima, però, non è una locuzione latina vera e propria, ma
nasce in maniera impropria storpiando quella originale, qui pro quo, con un ovvio cambiamento del senso. Quid pro quo dice nel film Il silenzio degli innocenti (di Jonathan
Demme, 1991) il tetro Hannibal Lecter, psichiatra antropofago incarcerato in un
manicomio criminale, che accetta di aiutare la giovane recluta dell’FBI Clarice
Starling a scovare un assassino che uccide e scuoia le donne, solo se ella in
cambio gli confida aneddoti personali che lui ha il piacere di ascoltare perché
la ritiene interessante.
Excusatio non petita accusatio manifesta
[pronuncia scolastica: excusàzio
non petìta accusàzio manifèsta]
[pronuncia restituita: excusàtio
non petìta accusàtio manifèsta]
“Una scusa non richiesta [è] un’accusa palese”, sentenziarono i sapienti
medievali, per dire che se uno ha la coscienza pulita non sente il bisogno di
scusarsi; per converso, chi si scusa senza che gli venga richiesto (excusatio non petita), allora tradisce
il suo senso di colpa per aver fatto qualcosa (accusatio manifesta) e, così facendo, si accusa da solo. Meno aulicamente,
ma con altrettanta saggezza, oggi si dice “La prima gallina che canta ha fatto
l’uovo”, o “Chi si scusa si accusa”. La frase è infarcita di una ingenua ma
efficace psicologia e fornisce quindi un saggio criterio per individuare
colpevoli nell’ombra. Il verbo essere è sottinteso.
Grazie per la spiegazione. Sei molto chiaro. Cosa rarissima ovunque a partire, ahimè, dalla scuola.
RispondiEliminaLieto che ti sia piaciuto! Grazie a te!
Elimina