martedì 27 settembre 2011

Scripta manent, n. 10 - Se il poeta si offende

     In una delle sue epistole, Orazio si riferiva ai poeti chiamandoli genus irritabile, razza suscettibile. In effetti non è raro trovare nel mondo della letteratura personaggi eccentrici o che comunque non sono restituiti in tutta la loro complessità dalle cronache storiche. È noto, per esempio, il rancore ostinatissimo che sapeva portare il Leopardi; così come tante sono le leggende che narrano degli scatti di ira di Dante nei confronti di coloro che storpiavano i suoi versi, canticchiandoli distrattamente durante le attività quotidiane; e non vogliamo dimenticare il battibecco in rime tra Piero Aretino e Paolo Giovio che con questi fittizi epitaffi così sparlarono uno dell’altro:

(Giovo all’Aretino)
Qui giace l’Aretin, poeta tosco,
di tutti disse mal, fuor che di Cristo,
scusandosi col dir: non lo conosco.

(Aretino al Giovio)
Qui giace il Giovio, storicone altissimo,
di tutti disse mal, fuor che dell’asino,
scusandosi col dir: egli è mio prossimo.

     Insomma, l’eccentricità degli artisti spesso tocca le fiamme del rancore. E i poeti, in particolare, è meglio non farli arrabbiare, perché se è vero che la lingua ferisce più della spada, allora è facile capire che hanno mille modi di farcela pagare. È il caso del poeta che voglio citare questa volta. Parlo di Gaio Valerio Catullo (84 a.C. – 54 a.C.), il celeberrimo poeta che a scuola ci fanno conoscere per il suo grande amore per Lesbia. In realtà i carmi a Lesbia sono solo una parte della sua produzione: scorrendo il Liber Catullianus ci imbatteremmo infatti in altri componimenti, ovviamente censurati a scuola, che la direbbero lunga su molti altri aspetti di questo poeta. Come il carme XVI, quello in cui Catullo, infastidito dalle ingiuste critiche di tali Aurelio e Furio, che lo accusavano di essere troppo sdolcinato e poco casto, inveisce contro di loro, dando loro una lezione di cosa debba essere poesia e di ciò di cui debba realmente preoccuparsi un poeta.

gdfabech

Io ve lo metterò nel culo e in bocca,
frocio di un Aurelio e checca di un Furio,
voi che mi avete giudicato da alcuni miei versetti,
solo perché sono un po’ licenziosi, poco pudico.
In verità è buona cosa che il poeta stesso sia casto,
non occorre che lo siano i suoi versetti;
che hanno tanto più brio e giovialità
proprio se sono licenziosi e poco pudichi,
e se riescono a suscitare quel certo prurito,
non dico nei giovani, ma in quei trogloditi
che non son più capaci a darci dentro coi loro fianchi induriti.
Voi, solo perché “migliaia e migliaia di baci”
avete letto [nei miei versi], non mi considerate abbastanza uomo?
Ebbene, io ve lo ficcherò nel culo e in bocca.

Gaio Valerio Catullo, Carmina, XVI

     E, per gli addetti ai lavori, il testo originale, accompagnato dalla declamazione di uno studente USA che ha tutta la mia stima!

Pedicabo ego vos et irrumabo,
Aureli pathice et cinaede Furi,
qui me ex versiculis meis putastis,
quod sunt molliculi, parum pudicum.
Nam castum esse decet pium poetam
ipsum, versiculos nihil necesse est;
qui tum denique habent salem ac leporem,
si sunt molliculi ac parum pudici,
et quod pruriat incitare possunt,
non dico pueris, sed his pilosis
qui duros nequeunt movere lumbos.
Vos, quod milia multa basiorum
legistis, male me marem putatis?
Pedicabo ego vos et irrumabo.


Nessun commento:

Posta un commento