domenica 21 agosto 2011

Scripta manent, n. 9 - Il peso di venire al mondo

     In questo nono numero di Scripta manent propongo un passo tratto da quello che forse è il romanzo più diffuso della giornalista e scrittrice Oriana Fallaci. Un breve romanzo epistolare, una lunga lettera a un “bambino mai nato”: il profondo e provocante monologo di una donna che porta in grembo un figlio “illegittimo” in un periodo (gli anni ’70 italiani) in cui la questione sull’aborto era più che mai scottante; anni in cui essere una ragazza madre era sinonimo di disonore; anni in cui la sensibilità nel trattare argomenti delicati come la responsabilità di dare la vita cominciavano a essere scossi dalle polemiche che la nascita della bioetica richiedeva.
     Nella Lettera a un bambino mai nato l’anonima donna cerca di parlare a suo figlio, con toni ora dolci e affettuosi, ora duri e crudi, per cercare di comprendere come debba comportarsi nei suoi confronti, ma anche per parlargli, per insegnargli cosa significhi e cosa comporti venire al mondo. Nel capitoletto tredicesimo di questa epistola la voce narrante della madre racconta al bambino una fiaba, che è una delle esperienze che la protagonista ha vissuto da piccola e che le ha insegnato che nel mondo gli uomini si prevaricano continuamente e che questa è una vera e propria legge di natura, peraltro dal sapore molto darwiniano. La “fiaba” si conclude con una domanda, una delle tante che la donna rivolge al bambino che porta in grembo, che evidenziano l’importanza di scegliere coscienziosamente se mettere o no al mondo un figlio, sapendo a cosa può andare incontro.

gdfabech

     Ti ho scritto tre fiabe. O meglio, non le ho scritte perché stando distesa a letto non posso: le ho pensate. Te ne racconto una. C’era una volta una bambina innamorata di una magnolia. La magnolia stava in mezzo a un giardino e la bambina passava giornate intere a guardarla. La guardava dall’alto perché abitava all’ultimo piano di una casa affacciata su quel giardino, e la guardava da una finestra che era la sola finestra aperta in quel punto. La bambina era molto piccina, per vedere la magnolia doveva arrampicarsi sopra una sedia dove la mamma la sorprendeva gridando «Oddio casca, casca!». La magnolia era grande, con grandi rami e grandi foglie e grandi fiori che si aprivano come fazzoletti puliti e che nessuno coglieva perché stavano troppo in alto. Infatti avevano tutto il tempo di invecchiare e ingiallire e cadere con un piccolo tonfo per terra. La bambina sognava lo stesso che qualcuno riuscisse a cogliere un fiore finché era bianco, e in questa attesa stava alla finestra: le braccia appoggiate sopra il davanzale e il mento appoggiato sopra le braccia. Di fronte e dintorno non c’erano case, solo un muro che si alzava ripido al lato del giardino e finiva in una terrazza coi panni tesi ad asciugare. Si capiva quand’erano asciutti per gli schiaffi che davano al vento e allora arrivava una donna che li raccoglieva dentro una cesta e li portava via. Ma un giorno la donna arrivò e invece di raccogliere i panni di mise anche lei a guardare la magnolia: quasi studiasse il modo di cogliere un fiore. Restò lì molto, a pensarci, mentre i panni sbattevano al vento. Poi fu raggiunta da un uomo che l’abbracciò. Lo abbracciò anche lei, e presto caddero insieme per terra dove insieme sussultarono a lungo, infine giacquero addormentati. La bambina era sorpresa, non capiva perché i due se ne stessero a dormire sulla terrazza anziché occuparsi della magnolia, tentare di cogliervi un fiore, e aspettava paziente che si svegliassero quando apparve un altro uomo: molto arrabbiato. Non disse nulla ma era chiaro che fosse molto arrabbiato perché si gettò immediatamente sui due. Prima sull’uomo che però fece un balzo e scappò, dopo sulla donna che incominciò a correre tra i panni. Correva anche lui, per agguantarla, e alla fine l’agguantò. La sollevò come se non pesasse e la scaraventò giù: sulla magnolia. La donna impiegò tanto tempo per giungere alla magnolia. Ma poi vi giunse, e si posò sui rami con un tonfo più sordo dei fiori che cadevano gialli per terra. Un ramo si ruppe. E nello stesso momento in cui il ramo si ruppe, la donna di aggrappò ad un fiore. E lo colse. E rimase lì ferma col suo fiore in mano. Allora la bambina chiamò la sua mamma. Le disse: «Mamma, hanno buttato una donna sulla magnolia ed ha colto un fiore». La mamma venne, gridò che la donna era morta, e da quel giorno la bambina crebbe convinta che per cogliere un fiore una donna dovesse morire.
     Quella bambina ero io, e Dio voglia che tu non apprenda nel modo in cui l’appresi io che a vincere è sempre il più forte, il più prepotente, il meno generoso. Dio voglia che tu non lo comprenda presto come lo compresi io, oltretutto convincendomi che una donna è la prima a pagare per tale realtà. Ma io sbaglio a sperarlo. Devo augurarti di perderla presto quella verginità che si chiama infanzia, illusione. Devo prepararti fin d’ora a difenderti, ad essere più svelto, più forte, e buttare lui giù dal terrazzo. Specialmente se sei una donna. Anche questa è una legge: o me o te. O mi salvo io o ti salvi te. E guai a dimenticarla: qui da noi ciascuno fa del male a qualcuno, bambino. Se non lo fa, soccombe. E non ascoltare chi dice che soccombe il più buono. Soccombe il più debole, che non è necessariamente il più buono. Io non ho mai preteso che le donne fossero più buone degli uomini, che per bontà meritassero di non morire. Essere buoni o cattivi non conta: la vita quaggiù non dipende da quello dipende da un rapporto di forze basato sulla violenza. La sopravvivenza è violenza. Calzerai scarpe di cuoio perché qualcuno ha ammazzato una vacca e l’ha scuoiata per farne cuoio. Ti scalderai con una pelliccia perché qualcuno ha ammazzato una bestia, cento bestie, per strappargli via la pelliccia. Mangerai il fegatino di pollo perché qualcuno ha ammazzato un pollo che non faceva del male a nessuno. E nemmeno questo è vero perché anche lui faceva del male a qualcuno: divorava i vermetti che se ne andavano in pace brucando insalata. C’è sempre uno che per sopravvivere mangia un altro o scuoia un altro: dagli uomini ai pesci. Anche i pesci si mangiano fra loro: i più grossi inghiottiscono i più piccini. E così gli uccelli, così gli insetti, chiunque. Che io sappia, solo gli alberi e le piante non divoran nessuno: si nutrono d’acqua, di sole, e basta. Però a volte si rubano il sole e l’acqua, anche loro, soffocandosi, sterminandosi. Ed è proprio il caso che tu venga a conoscere simili orrori, tu che vivi e ti nutri e ti scaldi senza ammazzare nessuno?

Oriana Fallaci, Lettera a un bambino mai nato, 13

2 commenti:

  1. sono eleonora (non riesco ad accedere col profilo). Comunque a questo testo ci pensavo proprio ieri, mentre spiegavo il perchè non vorrò mai avere figli ( i miei studenti basteranno e avanzeranno :D )incredibile...!

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  2. "I miei studenti basteranno e avanzeranno" O_O Oddio mi squagliooo! *_* Ti ho immaginata tante di quelle volte in quei panni e tutte le volte ho avuto un po' il rimpianto di non essere nato qualche anno più tardi in modo da essere tuo studente!!! Ti avrei trattenuta ogni volta oltre la campanella a parlare di Saffo, di Alceo, di Teocrito...

    Comunque non sapevo che avessi letto "Lettera a un bambino mai nato"! Io l'ho divorato in due giorni. Ipsa mens, ipsae cogitationes.

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