Dopo il Sanremo di Roberto Vecchioni mi pare opportuno postare, per la mia rubrica Scripta manent, proprio un passo dello stesso Vecchioni. Un passo tra i miei preferiti, tratto dal suo romanzo Viaggi del tempo immobile. Si tratta delle ultime pagine del romanzo, in cui viene narrata la separazione, stridente e dolorosa, tra la poetessa Saffo e la sua allieva Anattoria.
Il passo consiste nelle parole di Saffo mentre riflette sulla partenza imminente della sua allieva prediletta, che ella ama come solo una poetessa può fare. Sono parole che hanno l’amarezza della nostalgia per quello che lei non avrà più, ma anche la dolcezza del ricordo di quello che ha avuto; e sono, anche, parole che suggeriscono una bella immagine di quello che è il legame tra due persone, che parlano di ciò che avviene non quando due persone si scambiano amore reciprocamente, bensì quando due persone, amandosi, partoriscono nel mondo qualcosa di nuovo che prima non c’era. Parlano, queste parole, della potenza e dell’ostinazione di quel legame.
Ma più di tutto, il passo insegna una cosa bella: che quando due persone si separano, il dolore che ne deriva dipende dalla persona che resta, non da quella che parte. Chi resta, infatti, deve accettare l’allontanamento, che è stato già accettato da chi parte, proprio perché parte! Per chi resta il separarsi è uno status nuovo, mentre per chi parte è una realtà già familiare.
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«Quando due si lasciano, non parte chi se ne va: parte chi resta. Chi se ne va era partito già molto tempo prima. All’apparenza è lei a prendere la nave, lei a muoversi: ma è un falso movimento, il suo; è come se fossi io a camminare all’indietro, senza accorgermene. Per lei non c’è partenza, è ferma nel suo nuovo amore – non cambia stato la sua anima, quieto, alla fonda, il desiderio. È chi resta, invece, il solo a partire, cambiare condizione, forma del vivere, giornate, veglie, sussulti. È chi resta a non ritrovarsi più in quel posto, in quella geografia conosciuta di carezze e pensieri, e deve spezzare, andarsene, cambiar nome all’amore che non riconosce. È di chi resta l’unica partenza».
Questo, non altro pensiero, si muoveva a Saffo nel petto, la notte in cui salutò Anattoria, l’achea, la bella e le intrecciò l’ultima ghirlanda perché ricordasse, anche con quell’uomo. Un uomo gliela portava via: un uomo e una nave. Da lì, da quella spiaggia di Mitilene, cento, mille ne aveva viste passare di navi, e tutte da guerra.
«Gli uomini vanno per mare perché sono come il mare, tempesta e passione, onda incerta, dubbiosa: incerta pure la meta, e mai l’ultima. Gli uomini sono quella rabbia senza fine di scoprire tutto, di insinuarsi ovunque, come il mare, al falso, dolce carezzar di spuma, quando il vento del cuore, a tratti, si placa; e del mare hanno l’inconsistenza, il lungo canto illusorio e la violenza di tamburo battuto, fino al sacrificio. E non hanno colore, come il mare. Perché il mare altro non è che il riflesso del cielo, è un cielo capovolto: e in questo riflesso attraversano al contrario la verità e la vita. E meno bastano a se stessi, più devono avere cose: ricchezze, imperi, schiavi, potere. Di nessun altro deve essere tutto ciò che non è loro: rompono, distruggono, annientano quello che non possono avere. E il cielo. Forse il cielo siamo noi. Noi non riflettiamo la luce, prendendo altrove colore, noi siamo colore. Non muoviamo burrasche livide e impercorribili: siamo brevi temporali o nere confessate agonie; ma di più, molto di più, tenero, sconfinato azzurro e canto di culla, di lavoro e poesia. Ma forse sto pensando così solo perché tu te ne vai. Penso così solo perché tu mi lasci».
E l’uomo era giovane, l’uomo era bello e l’avrebbe portata lontano, in Lidia, a Sardi, danzando la groppa di cavalli pezzati, ed era bella Anattoria, quella sera, alta nel lungo finissimo velo, struggente alle pieghe di chitone e doppia la faccia, che guarda ora il mare, ora i piedi di Saffo.
«Ti amo», disse all’improvviso Anattoria.
«Questo non avrà mai il tuo sposo: questo sapere dell’amore. Mi sento morire all’idea delle sue carezze sulla tua pelle e ancor più dei sorrisi, i tuoi, ai suoi ritorni. Non c’è musica, non c’è rosso tramonto che mi possa quietare, non c’è un verso, uno solo, che io possa riascoltare nella bellezza che aveva prima, quando lo confusi all’incerto leggerlo della tua bocca sulle mie labbra. Non c’è un dio che possa saettarmi o lavarmi d’acqua, non c’è Afrodite che possa ridarmi, inimitabile, quel tuo fuoco: ma questo so, che per quanto lui ti abbia, per quanto ti desideri, ti copra e frema; per quanto tu possa aspettare, conosciuto al battito, i rumori dei suoi passi e respirare nell’aria l’odore dell’assenza e dell’attesa, per quanto corra nelle vostre vene sangue veloce e si tramuti in grido nell’attimo più bello: tu non sei lui, e lui non è te. E invece io parlo ed è la tua voce, muovo le mani e sono le tue, tuo il mio sguardo, i tuoi pensieri crescono in me, e pure i sogni sono i sogni di Anattoria. E darei vita e morte perché non mi straziassi di questa presenza. Esserti e non averti: qui sta lo strazio, perché altro sarebbe averti, e mille volte solo averti. Averti, stringerti fino a farti male, come farebbe un soldato ubriaco, sordo agli strilli, poderoso all’assalto e fiume in piena. No, no, questo no. Era soffio tra noi e tenerezza. Ma sovrumano e così piccolo insieme è questo distacco: così in fondo alla terra, così a tutti sconosciuto, un punto qualunque di dolore. Quando un uomo perde un amore, perde solo qualcuno, qualcosa. A noi non è concesso: non te ne vai tu sola, ma il mondo che abitavamo insonni, come gli dèi. Non perdo Anattoria, perdo l’universo che eravamo. Staccatasi una parte, quel che resta dell’animo non sa vivere a sé: si sgretola, si disfa, è polvere».
E già d’altri rumori, altri suoni, voci, passi a danza, e già d’altre risate era piena la spiaggia: giungevan di corsa le compagne a piedi nudi, d’importuna felicità chiassose e unite in coro a festeggiar la sposa.
La luna ebbe un sussulto, sparì d’un tratto e tutto parve oscuro sogno all’alba, quando hai ancor più paura.
«Ti amo», sussurrò Saffo camminando all’indietro.
Roberto Vecchioni, Viaggi del tempo immobile
Bellissimo! Struggente! Commovente! *_*
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