venerdì 1 luglio 2016

Scripta manent, n. 24 – Cocci aguzzi di bottiglia

     Siamo in Liguria nel 1916, Eugenio Montale è un giovane di appena vent’anni quando scrive questa lirica, tratta dalla raccolta Ossi di seppia, scarna ed essenziale che senza troppi fronzoli arriva a dare al lettore il pensiero che il poeta ha in quel momento.
     Apparentemente i versi sono la semplice descrizione di un paesaggio: siamo in un giorno caldo, quando il sole picchia di più, nel pieno del pomeriggio e il poeta se ne sta a “meriggiare”, cioè sta sotto la calura pomeridiana, accanto a un muro di pietra – uno di quelli che delimitano i campi coltivati – e resta in atteggiamento semi-passivo sotto i suoni e le immagini del piccolo paesaggio che vede attorno a sé: i merli che “schioccano”, i serpentelli che “frusciano” tra l’erba; il terreno spaccato dall’arsura, i ciuffi di piantine che sbucano qua e là, le file di formiche che si intersecano nei pressi del formicaio; e lontano, come se pulsassero («il palpitare»), le onde del mare che sembrano «scaglie» che ondeggiano, mentre dalle alture spoglie di vegetazione (i «calvi picchi») si sentono cicale che friniscono in modo simile a scricchiolii.
     Poi nell’ultima strofa qualcosa cambia: il poeta, abbagliato dalla luce del sole, si rende conto di cosa sia la vita, vede che essa è «travaglio». E allora si capisce il ruolo metaforico di tutte le immagini precedenti, che sono simboli della tragica condizione umana: il paesaggio arido, assolato, silenzioso e un po’ spoglio è lo scenario della vita; le formiche, che si affrettano di qua e di là, sono la rappresentazione della frenetica e vuota condizione dell’uomo; e il muro, poi, la barriera invalicabile, come dirà poco dopo. Il poeta – e l’uomo – passa infatti questa vita a «seguitare una muraglia», cioè seguendo un muro, senza scavalcarlo, senza poter andare oltre, senza scalarlo, perché in cima, messi apposta per impedire di valicarlo, ci sono solo pezzi di vetro affilati.
     Il poeta parla di tutti, non solo di se stesso: lo fa capire perché tutte le azioni sono presentate nella neutralità dell’infinito («meriggiare», «ascoltare», «spiar», «osservare»...) senza un soggetto, senza nemmeno il “tu” indefinito che spesso i poeti usano per rivolgersi a qualcuno. E ci parla di una condizione resa molto bene dall’impatto emotivo delle immagini, desolate e a tratti inquietanti.
     Le immagini sono chiare, dirette, arrivano e colpiscono subito; i suoni, specie quelli onomatopeici, conferiscono al pezzo una vividezza che rende l’impatto del messaggio più forte; la struttura è ben orchestrata e ben pensata, con la descrizione all’inizio e la chiusura riflessiva alla fine, con uno stacco non netto tra le due parti, ma continuo, graduale, senza forzature. C’è tutto: la forma e il contenuto. È una delle liriche più belle di Montale.


Meriggiare pallido e assorto
presso un rovente muro d’orto,
ascoltare tra i pruni e gli sterpi
schiocchi di merli, frusci di serpi.

Nelle crepe del suolo o su la veccia
spiar le file di rosse formiche
ch’ora si rompono ed ora s’intrecciano
a sommo di minuscole biche.

Osservare tra frondi il palpitare
lontano di scaglie di mare
mentre si levano tremuli scricchi
di cicale dai calvi picchi.

E andando nel sole che abbaglia
sentire con triste meraviglia
com’è tutta la vita e il suo travaglio
in questo seguitare una muraglia
che ha in cima cocci aguzzi di bottiglia.




Eugenio Montale, Meriggiare pallido e assorto, in Ossi di seppia


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