A poche ore dal giorno di Pasqua, vogliamo farla una riflessioncina carina carina su Dio? Una domanda che è degna dell’innocenza di un bambino: “Perché Dio sta in cielo?”. Già: come mai nelle religioni di tutte le epoche il concetto di divinità è sempre intimamente legato al cielo? Ma soprattutto, per quale motivo lo stesso Dio cristiano, secondo i dogmi della Chiesa, viene fatto tradizionalmente risiedere in cielo, al punto che si dice che dimori nel “regno dei cieli”?
Questa domanda è in realtà scomponibile in due. La prima è “Perché le religioni dell’età antica facevano risiedere le divinità nel cielo?”; mentre la seconda è “Perché il Dio cristiano viene immaginato dimorare in cielo?”. C’è infatti una differenza tra le religioni antiche e il Cristianesimo, a parte il contenuto etico professato e la descrizione del fenomeno divino nella sua essenza: questa differenza sta nel fatto che le religioni antiche, che indicheremo da ora in poi col termine paganesimo, nascono nella preistoria come “religioni naturalistiche”, cioè religioni che inventano i loro dèi in conseguenza del rapporto dell’uomo con i fenomeni naturali; invece il Cristianesimo è una religione molto più giovane, poiché fu concepita e divulgata in un momento della storia (quello dell’Impero romano di Ottaviano Augusto) in cui era già stato raggiunto un certo grado di civiltà e l’influsso “naturalistico” era molto meno presente. Ovvero, detto in altri termini, il Cristianesimo, nell’essere teorizzato come religione, non è stato influenzato dall’impatto degli uomini con la natura, bensì ha subìto piuttosto l’influsso delle correnti filosofiche allora più in auge, prima fra tutte il neoplatonismo di Plotino e Porfirio.
Il ruolo del cielo nelle religioni naturalistiche
Il paganesimo della preistoria era un paganesimo fatto di religioni naturalistiche. Quando l’uomo, agli albori della sua storia sulla Terra, cominciò il suo sviluppo intellettivo, si ritrovò davanti per prima cosa la natura: i fenomeni naturali erano la prima esperienza che egli fece e soprattutto furono il primo “pretesto” per cominciare a riflettere. La riflessione dell’uomo sull’uomo stesso è infatti qualcosa di molto posteriore alla preistoria, che presuppone un grado di maturità intellettuale maggiore di quello che potevano avere gli ominidi della preistoria. Quindi l’uomo preistorico rifletteva sulla natura, e questa è una cosa nota già dai tempi di Aristotele (IV secolo a.C.), il quale affermava che la filosofia cominciò allorquando l’uomo si fermò a riflettere sulla natura in quanto “meravigliato” da essa. Per Aristotele è infatti la meraviglia di fronte alla grandezza e alla superiorità della natura ciò che spinge l’uomo a riflettere e a porsi i primi interrogativi. Egli usa una parola precisa, che in italiano si rende con “meraviglia”, ma che ha un significato molto più specifico di quello che questa parola evoca per noi oggi: thàyma. In verità "thàyma" non significa proprio “meraviglia”, ma piuttosto “paura reverenziale”: in questa accezione il vocabolo contiene certamente il senso della meraviglia, ma questo senso è insito all’interno di un sentimento più generale di timore (e, quindi, di sottomissione) nei confronti di avvenimenti (i fenomeni naturali) che vengono percepiti come superiori all’uomo. Infatti le tempeste, i fulmini, i venti, il freddo gelido e il caldo torrido sono cose che l’uomo non può controllare, e se non le può controllare allora significa che esse sono superiori a lui, sono entità che agiscono imponendosi sull’uomo. E sono cose che possono anche distruggere l’uomo, fargli del male, impedirgli di sopravvivere: per il freddo si può morire, un fulmine può incendiare una palafitta, una raffica di vento può impedire la conservazione di un fuoco togliendo forse la sola difesa contro le belve feroci…
L’uomo teme i fenomeni naturali fin dal suo primo comparire sulla Terra: perciò, quando cominciano a formarsi le prime religioni naturalistiche è inevitabile che sia proprio nei fenomeni del cielo che vengano proiettati i primi dèi. E questo è un processo che si protrarrà in tutte le religioni antiche, che sono figlie di queste religioni naturalistiche. Un esempio per tutti può essere il dio Zeus, il cui simbolo è non a caso il fulmine! Certo, esistevano anche dèi che venivano assimilati ad altri luoghi naturali, ma gli dèi più importanti, gli dèi per eccellenza, quelli più potenti sono assimilati a fenomeni del cielo. Dal cielo infatti viene la pioggia, che può far crescere le piante di cui l’uomo si nutre, dandogli quindi la possibilità di sopravvivere; dal cielo arrivano però anche i temporali che sono punizioni o manifestazioni di ira del dio nei confronti degli errori che l’uomo commette. Ecco perché nelle religioni pagane il cielo è un elemento così predominante, tanto predominante da essere spesso la sede degli dèi.
Il ruolo del cielo nel Cristianesimo
Anche il Dio cristiano è intimamente collegato al cielo. Ma il Cristianesimo viene elaborato in un momento di maggiore sensibilità del pensiero dell’uomo, e quindi il suo rapporto col cielo si spiega con un’argomentazione un po’ più articolata.
La prima cosa da dire è che il Cristianesimo ha avuto la fortuna di nascere nel momento in cui il pensiero filosofico greco aveva partorito tutti i suoi filoni, l’ultimo dei quali fu il neoplatonismo. Ora, il Cristianesimo aveva bisogno, agli albori della sua storia, di una sua filosofia che spiegasse agli uomini la visione del mondo secondo questa religione, perché una religione deve anche spiegare come funziona il mondo e come esso è legato al Dio: tutti questi elementi non erano presenti o ben definiti all’inizio. Alla costruzione di questo edificio ideologico si dedicarono i cosiddetti Padri della Chiesa, che erano dei pensatori filosofi-teologi. Ora, i Padri della Chiesa, che erano pensatori istruiti alla filosofia antica, attinsero dalle filosofie antiche i principi, le teorie e gli strumenti logici per spiegare e descrivere il divino. O almeno è inevitabile che da esse si facessero condizionare. Questo significa che l’elaborazione dell’immagine di Dio si basava su teorie, strumenti, formae mentis delle filosofie precedenti, che erano state i primi tentativi di dare al mondo (e quindi anche al divino) delle spiegazioni razionali.
Il Cristianesimo contiene dunque molti elementi presi dalla filosofia greca, anzi si può dire che l’elaborazione del mondo secondo la visione cristiana, e la stessa concezione del Dio cristiano, è fatta quasi totalmente usando le dottrine del pensiero greco. In particolare, la quasi totalità di quello che oggi è l’idea di Dio, del Paradiso, del percorso dell’uomo con Dio sono stati presi dall’ultimo prodotto della filosofia greca, il neoplatonismo. Se si studia questa corrente filosofica, il cui esponente più importante fu il filosofo Plotino assieme al suo discepolo Porfirio, si noteranno infatti tantissimi punti in comune con la religione cristiana, se non addirittura gli stessi identici principi. E non è una coincidenza: è stato un fatto voluto. I filosofi che avevano il compito di dare al Cristianesimo una sua struttura ideologica (i Padri della Chiesa, appunto, e primo fra tutti il filosofo Agostino), studiarono le filosofie precedenti, spesso vi aderivano anche, e gli schemi teorici di quelle filosofie entravano a far parte del loro modo di pensare, di vedere il mondo, di spiegare il mondo. Quindi, nel dare al Cristianesimo una veste ideologica e filosofica, essi dovettero per forza usare i modelli teorizzati dal pensiero greco precedente. E qui veniamo al punto della questione…
Uno di questi modelli della filosofia greca che è entrato a far parte del Cristianesimo è in grado di spiegare perché Dio viene pensato risiedere in cielo. Ecco in sintesi come avviene l’elaborazione di questa immagine.
Cominciamo col dire che è bene che Dio risieda in cielo poiché nella visione greca il cielo è un luogo di perfezione. Gli antichi infatti credevano che il cielo, anzi: i cieli, fossero un mondo diverso da quello terrestre, fatto di una materia diversa, in cui valessero leggi fisiche diverse. Per l’uomo antico il mondo dei cieli è totalmente diverso dal mondo della Terra: la Terra è il luogo degli uomini e degli esseri viventi, il luogo dove le cose cambiano, dove c’è la nascita e la morte, il luogo della materia che si corrompe e si degrada; i cieli sono il luogo degli dèi immortali, il luogo dove tutto rimane sempre uguale, dove nulla nasce e nulla muore, il luogo in cui non c’è la materia corruttibile, ma l’etere, una sostanza eterna che non si degrada, il luogo dove il tempo non esiste (visto che nulla nasce e nulla muore), ma esiste solo l’eternità.
E come mai i cieli vengono concepiti come un luogo di perfezione? Cos’è che ha convinto l’uomo filosoficamente più maturo a pensare che la perfezione sia una caratteristica propria solo del mondo celeste? La risposta sta nel movimento degli astri. L’uomo antico fin dai tempi più remoti ha infatti notato che gli astri (stelle, pianeti, satelliti) si muovono nel cielo secondo traiettorie circolari e movimenti eterni. Ed è proprio nell’idea di circonferenza che risiede l’idea di perfezione. La circonferenza è ciò che collega il divino alla perfezione.
Secondo la visione del mondo greco, infatti, la circonferenza è l’immagine geometrica di ciò che è perfetto e per dimostrarlo mettiamo a confronto due tipi di movimento, quello rettilineo e quello circolare. Un movimento fatto in maniera rettilinea, come lungo un segmento, è per l'uomo greco un movimento imperfetto, perché esso ha un punto di inizio da cui parte e un punto di arrivo a cui tende. Il fatto che qualcosa si muova in modo rettilineo verso un punto finale significa che tende a raggiungere uno scopo, un fine, una perfezione che all’inizio del movimento non aveva. Per esempio, il fuoco, come spiega Aristotele, tende a muoversi verso l’alto (movimento rettilineo) poiché tende a raggiungere il luogo a esso più naturale, essendo l’elemento più leggero di tutti. Se il fuoco fosse già in alto non avrebbe bisogno di muoversi per arrivarci, poiché starebbe già nel suo stato più proprio. Ma, proprio perché non è in alto, si muove per raggiungerlo, si muove per acquisire quello stato di perfezione che gli è proprio e che ancora non possiede sulla Terra.
Invece i movimenti circolari sono tipici delle cose perfette: in una circonferenza infatti non esiste un punto di inizio e un punto di arrivo, poiché ogni punto della circonferenza è esattamente uguale a tutti gli altri (tutti i punti di una circonferenza hanno la stessa distanza dal centro); perciò un movimento circolare non ha un inizio e non ha una fine; ma se non ha una fine, vuol dire che non ha un punto finale a cui arrivare, non ha alcuno stato di maggiore perfezione da raggiungere, in quanto è già perfetto.
La perfezione è inoltre qualcosa di immutabile: la stessa parola “perfetto” significa a livello etimologico “fatto completamente”, “completamente compiuto”, “realizzato del tutto”, e una cosa perfetta non ha bisogno di cambiare, poiché è già nel suo stato di massima realizzazione. E non a caso un movimento fatto secondo una traiettoria circolare può ripetersi in eterno in maniera sempre uguale (immutabile) senza finire mai (perché non c’è mai un punto di arrivo), poiché in esso non esiste una fine che rappresenti un gradino finale di perfezione.
Ora, gli astri del cielo si muovono, per l’uomo antico, proprio secondo traiettorie circolari eterne (anche se con Keplero, secoli dopo, si scoprì che le orbite sono ellittiche e non circolari). Essi, quindi, compiono movimenti perfetti, quindi sono perfetti essi stessi, così come perfetto è il luogo dove risiedono, che è appunto il cielo. Vedendo che nei cieli nulla cambia mai e che gli unici movimenti (allora) conosciuti sono quelli circolari, l’uomo antico ha dedotto che il cielo è il luogo della perfezione.
E voi, su queste basi, dove lo mettereste un dio? Non lo mettereste anche voi in cielo, nel luogo che è più alla sua altezza, nel luogo più perfetto, visto che lo stesso Dio, per sua definizione, è un essere perfetto?
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