Il mio regalo di Pasqua per voi: Latine loquimur, parte sesta! Poi non dite che non vi voglio bene!
Nota: la
pronuncia scolastica è quella usata (e insegnata) in Italia; la pronuncia
restituita è quella che, secondo le ricostruzioni, veniva realmente usata dai
Romani.
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Obtorto collo
[pronuncia scolastica: obtòrto
collo]
[pronuncia restituita: obtòrto collo]
Il colore
folcloristico della mentalità latina si riflette tutto in questa espressione,
che ha un sapore decisamente mimico: obtorto
collo vuol dire letteralmente “con il collo storto”, “con il collo girato”
e significa “mal volentieri”, “contro voglia”. Pensiamo ai bambini piccoli che non vogliono mangiare: girano la testa per allontanarsi da ciò che non vogliono, anche se poi alla fine le mamme li immobilizzano e li rimpinzano di pappa; ma anche negli adulti, che di riflesso mimano questo gesto, ruotando la testa allorché reagiscono a qualcosa che non gradiscono.
Alcuni esempi di cose che facciamo obtorto collo: scendere alle 5 di mattina per far fare i bisogni ai cani domestici; fare la fila alla posta; prendere una medicina necessaria dal sapore sgradevolissimo. Molti generi, confidandosi con gli amici, spesso dicono frasi del tipo: «Domenica mi sono sorbito l’ennesimo invito a pranzo da mia suocera! Ogni volta è uno strazio: ci vado sempre obtorto collo!».
Alcuni esempi di cose che facciamo obtorto collo: scendere alle 5 di mattina per far fare i bisogni ai cani domestici; fare la fila alla posta; prendere una medicina necessaria dal sapore sgradevolissimo. Molti generi, confidandosi con gli amici, spesso dicono frasi del tipo: «Domenica mi sono sorbito l’ennesimo invito a pranzo da mia suocera! Ogni volta è uno strazio: ci vado sempre obtorto collo!».
Questa espressione è decisamente “popolare”. Normalmente i latini, che
sono molto più sintetici di noi, avevano anche un altro modo per indicare che
un’azione veniva fatta senza piacere: usavano l’aggettivo invitus (per il maschile) o invita
(per il femminile) o invitum (per il
neutro) con funzione predicativa. Per esempio, per dire una frase come “Marco
studia senza voglia” avrebbero detto Marcus
studet invitus. È un uso decisamente più letterario.
Credo quia absurdum
[pronuncia scolastica: credo quia absùrdum]
[pronuncia restituita: credo cuìa absùrdum]
Molti filosofi, uomini di chiesa e liberi
pensatori si sono presi a schiaffi nel corso dei secoli per difendere o
attaccare la fede religiosa e il senso che essa possa avere nella vita degli
uomini. All’apologeta cristiano Tertulliano (155 – 230 circa) viene attribuita
una delle argomentazioni sicuramente più fantasiose e inaspettate con cui il
cristianesimo sia stato difeso. La frase suona credo quia absurdum (sottinteso: est), ovvero “io credo
in quanto (è) assurdo”. Secondo questa visione, che è stata definita fideismo
antintellettualistico, il miracolo dell’esistenza di Dio è degno di credito tanto
più quanto più dotato di natura assurda, cioè contraria alla logica umana.
Paradossalmente, quindi, Tertulliano difenderebbe la sua fede senza usare i
soliti strumenti con cui si affronta questo dibattito, ovvero quelli della
ragione, ma accetta l’assurdità (ovvero la contrarietà alla logica) del
fenomeno divino e proprio in quell’assurdità riconosce una garanzia di
credibilità e attendibilità.
Come
detto, però, la frase è stata solo attribuita a Tertulliano, desumendola dal
contenuto della sua opera De carne
Christi (“Sulla carne di Cristo”), in cui, più precisamente, Tertulliano
scrive: Crucifixus est Dei Filius, non
pudet, quia pudendum est; et mortuus est Dei Filius, prorsus credibile est,
quia ineptum est; et sepultus resurrexit, certum est, quia impossibile. (De
Carne Christi, V, 4). Ovvero: “Il Figlio di Dio è stato crocefisso, non c’è da
provar vergogna, in quanto è cosa vergognosa; e il Figlio di Dio è
morto, ciò è assolutamente credibile, in quanto è cosa sconveniente; e, una
volta sepolto, risorse, questo è cosa certa, proprio perché è impossibile”. Da
questo passaggio, nasce la formula riassuntiva di cui sopra, divenuta
ovviamente più famosa.
Album
[pronuncia scolastica: album]
[pronuncia restituita: album]
La parola album è un aggettivo di genere neutro
(cioè non maschile né femminile) che significa “bianco” (da cui albino, alba…).
Album veniva chiamata la tavola di
calce esposta nel foro delle antiche città romane su cui venivano trascritti
tutti quegli avvisi, quei decreti, quegli editti e ogni altra informazione di
pubblico interesse affinché potesse essere letta tempestivamente dai cittadini.
E la calce è appunto bianca, perché contiene calcio (basti pensare ai denti, alle ossa, al gesso o allo stesso calcare, tutti bianchi perché composti a base di calcio). Era quindi una sorta di “gazzetta ufficiale” o di
ANSA dell’età antica. Nell’epoca moderna esiste ancora uno strumento del genere
e il suo nome è stato italianizzato in “albo” (l’albo del condominio, l’albo
del comune, l’albo della facoltà…): sopra vi affiggiamo gli stessi avvisi che
interessano alle persone di quell’ambiente. La dicitura originale album invece è stata riferita a
raccoglitori di fogli (anche non bianchi) su cui ci compiaciamo di incollare le
foto o i francobolli o le figurine dei calciatori.
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