domenica 24 ottobre 2010

«Sapere audeo», ovvero: come nasce questo blog

     Nel non più di tanto lontano 1784, un giornale mensile di Berlino, il Berlinische Monatsschrift, lanciava una sorta di guanto di sfida agli intellettuali dell’epoca attraverso una domanda: Was ist Aufklärung?, ovvero Che cos’è l’Illuminismo? Sebbene, infatti, l’Età dei Lumi avesse ormai abbondantemente permeato le menti degli intellettuali europei, tuttavia si avvertiva l’esigenza di definire con precisione i termini di questo meraviglioso fenomeno di risveglio razionale dell’uomo.
     Tra le tante brillanti menti che s’interessarono alla cosa, un professore prussiano, metodico, riservato e che praticamente non si mosse mai dal suo paese di Köningsberg, raccolse la sfida e, il 5 dicembre dello stesso anno, pubblicò sul Berlinische Monatsschrift un articolo intitolato Beantwortung der Frage: Was ist Aufklärung?, cioè Risposta alla domanda: Che cos’è l’Illuminismo?. Il suo nome era Immanuel Kant.
     In genere solo chi ha studiato Filosofia conosce questo personaggio e l’enorme portata del suo pensiero. Per tutti quelli che invece non lo conoscono, basti sapere che è ricordato come “il filosofo principe dell’Illuminismo”: questo professore, infatti, a dispetto dell’estrema routine che caratterizzò la sua vita, riuscì a concepire un nuovo modo di pensare che ha tutte le caratteristiche del rivoluzionario e che, proprio in quanto rivoluzionario, ha cambiato il modo di vedere le cose di noi uomini contemporanei. Ma non parleremo qui del suo sistema filosofico. Piuttosto ci interessa sapere cosa scrisse nel suo articolo, almeno nelle prime righe:
               
     Illuminismo è l’uscita dell’uomo dallo stato di minorità in cui si è messo da solo. Minorità è l’incapacità di usare il proprio intelletto senza la guida di un altro. Questa minorità è da imputare all’uomo stesso quando la causa non dipende da difetto di intelligenza, bensì dalla mancanza di decisione e di coraggio di usare il proprio intelletto senza la guida di un altro. «Sapere aude! Abbi il coraggio di usare la tua propria intelligenza!» è quindi il motto dell’Illuminismo.

     Ora, quando lessi per la prima volta questo articolo al Liceo, spalancai gli occhi come si fa quando si è colpiti da un’intuizione lampante. Questo motto, come lo chiama Kant, e che io però definirei piuttosto un monito, parla di «coraggio» di usare l’intelletto. E non a caso il motto che Kant attribuisce all’Illuminismo riprende quell’esortazione latina che dice «Sapere aude!», dove aude è un verbo all’imperativo e significa osa e sapere qui è usato nel senso di usare giudizio, avere senno, avere conoscenza, quindi «Osa conoscere». Ma perché? – mi dicevo – Occorre forse coraggio per usare l’intelligenza? Si deve “osare”, come se fosse qualcosa di difficile? Mi sarei aspettato che si parlasse di prudenza, di ponderazione, di mancanza di pregiudizi, ma non di coraggio. Il coraggio serve quando si ha paura di qualcosa. E perché mai l’uomo dovrebbe aver paura di usare l’intelletto? Cosa potrebbe mai spaventarlo? Neanche il tempo di finire di pormi questo quesito, che subito il professore mi rispose:

     La pigrizia e la viltà sono le cause per cui un così grande numero di uomini, dopo che la natura li ha da un pezzo dichiarati liberi dal controllo da parte di estranei (naturaliter majorennes), restano tuttavia volentieri per tutta la vita minorenni [nel senso di succubi]; e [sono le cause] per cui ad altri riesce così facile il dichiararsene i tutori. È così comodo essere minorenne. Se io ho un libro che ha dell’intelletto per me, un prete che ha coscienza per me, un medico che giudica del regime per me e così via, io non ho più alcuno sforzo da fare.

     Non mi sentii di dargli torto. Mio Dio, ma pensiamo un attimo a quanto sia vero: noi nasciamo con a disposizione dei mezzi per vivere in maniera libera, di cui uno dei più importanti è appunto l’intelletto. La natura ci fornisce questi strumenti e noi siamo, appunto, “autonomi per natura” o, con le parole del filosofo, «naturaliter majorennes». Eppure, piuttosto che impegnarci a usare questo intelletto per godere di tutti i vantaggi che può darci, preferiamo avere dei «tutori», ovvero delle persone che pensino per noi, perché, in fin dei conti, «è così comodo essere minorenne». Ovviamente qui minorenne non vuol dire “minore di età”, ma significa “dipendente dall’autorità di altri”.
     Quindi, secondo Kant, noi abbiamo una doppia colpa: la prima è quella di essere pigri perché non vogliamo compiere il bellissimo sforzo di usare una facoltà che è nostra per natura; la seconda è invece la viltà. Noi siamo vili, cioè codardi. Perché mai? Perché abbiamo paura di cambiare, anche se questo ci porta a uno stato migliore. Infatti, spiega Kant, al mondo ci sono solo pochi uomini che usano la loro intelligenza e tra questi la maggior parte approfitta di chi invece non la usa (sono quelli che nella traduzione sono chiamati tutori): essi hanno tutto l’interesse a far rimanere nell’ignoranza il resto degli uomini, poiché traggono da questa ignoranza vantaggi enormi. Ci fanno crescere con l’idea che dobbiamo dar loro il permesso di pensare e – soprattutto – decidere al posto nostro, ci convincono che sia giusto delegare a loro qualsiasi scelta che riguardi i nostri interessi. Perché affannarsi tanto a spappolarsi il cervello quando puoi farlo fare a qualcun altro al posto tuo? Il guaio è proprio che questi tutori a cui diamo le nostre deleghe non decidono quasi mai nel nostro interesse e per il nostro bene, bensì approfittano di questo loro potere per imporci delle decisioni che non ci tutelano, anzi: queste scelte che essi fanno sacrificano noi per i loro vantaggi (quasi mai giusti o onesti). E il motivo per cui permettiamo che questo accada è che siamo, appunto, vili, cioè abbiamo paura di rimboccarci le maniche, temiamo lo sforzo, siamo spaventati dall’eventualità di sbagliare (perché l'errore, pur essendo un elemento essenziale dell’apprendimento, è tuttavia un’esperienza sgradevole, ma è un bene che sia così, altrimenti lo ripeteremmo sempre). E allora ecco che, piuttosto che informarci su chi si candida alle elezioni per sapere se abbia i requisiti, se abbia le competenze, o se abbia un passato non proprio limpido, diamo il nostro voto al “politico più simpatico” e ci diciamo che abbiamo fatto bene, basta che se la sbrighi lui; oppure ubbidiamo troppo ciecamente ai dettami di una religione solo perché è la nostra religione e non ci chiediamo quanto di quello che i religiosi ci dicono sia retaggio del vero messaggio di Cristo (o di qualunque altro profeta) e quanto invece sia un’invenzione della Chiesa creata ad arte per raccontare una storia affascinante che attiri più fedeli possibile, perché a noi basta avere qualcosa in cui credere, non importa se l’immagine di questa eventuale divinità sia stata mistificata dalle alte sfere, dalle nebbie del tempo o dalle credenze; allo stesso modo non ci degnamo di fermarci due minuti a riflettere che il reality show a cui stiamo assistendo è qualcosa di sadico e diseducativo, progettato apposta per farci essere passivi consumatori di audience, senza però ricevere da esso nulla in cambio se non messaggi subliminali che incitano all'aggressività, alla maleducazione, al sadismo, alla volgarità... con i nostri figli che, in tutto questo, crescono con l’idea che quella sia la realtà normale e universalmente accettata e che sia quindi da imitare in tutto e per tutto...:

     È quindi cosa difficile per ogni uomo uscire da questa dipendenza diventata quasi in lui un fatto naturale. Anzi, essa gli piace ed è attualmente davvero incapace di servirsi del suo intelletto, perché non vi è mai stato abituato. Le regole e le formule, questi strumenti meccanici dell'uso razionale o piuttosto dell’abuso dei suoi doni naturali, sono le catene che lo tengono in questa perpetua dipendenza. Chi le gettasse lungi da sé, non farebbe anche sopra il più piccolo fosso che un salto malsicuro, perché non sarebbe avvezzo a liberi movimenti. Pochi sono perciò quelli che sono riusciti, per una autoeducazione del proprio spirito, a liberarsi dalla dipendenza e tuttavia ad acquistare un incedere sicuro.

     E qui quasi mi scappava l’applauso. Questo concetto è di una modernità sconcertante! Tutto, nel mondo attorno a noi, ci porta a non riflettere, a non usare quel dono così alto che la natura ci ha fornito. Coloro che hanno in mano le redini delle dinamiche sociali devono far sì che noi sospendiamo la nostra capacità di giudizio, così ci possono usare come strumenti per assumere potere e denaro, noi dobbiamo avere la sensazione di “dipendere” da loro anche nelle più banali decisioni. E siamo talmente assuefatti da questa dipendenza, che abbiamo paura di cambiare. Kant usa proprio la metafora della deambulazione, che a mio parere è molto esplicativa: chi non ha mai camminato e non sa come si fa, non si muove in maniera sciolta se inizia all’improvviso: ha paura di cadere, di inciampare, ha paura di farsi male. Per scappare da questo vortice occorre autoeducarsi, ovvero prendere quel coraggio mancante di cui si diceva sopra e usarlo per riappropriarci dell’intelletto che abbiamo dato ad altri, a quei tutori, per imparare a impiegarlo noi, al fine di prenderci cura di noi stessi e farci diventare le belle persone che vorremmo essere.
     Ora, l’obiettivo che gli Illuministi si proponevano era proprio questo: far uscire l’uomo da questa condizione di servilismo volontaria in cui era rimasto per secoli. Badate bene: volontaria. Perché l’uomo sceglie di restare in questa condizione, in quanto apparentemente gli fa comodo. In questo dimostriamo di essere la sola specie animale ad andare contro l’istinto di autoconservazione, poiché, piuttosto che compiere azioni che ci preservino (anche interiormente), preferiamo abbandonarci alla fiacchezza e alla pusillanimità e subire gli effetti nefasti di questo modo che il mondo ha di girare. E dirò di più: pur di non ammettere che stiamo sbagliando, pur di non sentire il peso del nostro errore, ci raccontiamo la bugia secondo cui, in fin dei conti, non è poi una cosa così brutta.

     Queste erano all’epoca, e ancora in buona parte oggi, le riflessioni che accompagnavano il mio studio di Kant al Liceo. Ricordo che mi piacque così tanto quel messaggio, che feci di quel motto il mio motto. Mi appariva ancora più urgente e imprescindibile il fatto che fosse inammissibile sospendere il mio giudizio sulle cose, poiché il rischio di cadere in certe trappole è davvero altissimo. D’altronde, è anche bello in sé il crescere in maniera coscienziosa, no? Non è solo un obbligo morale: è e dev’essere anche un piacere. Piacere che è indice del fatto che ci si ama e ci si rispetta.
     E poiché, di riflessioni, ne faccio tantissime, e giacché amo scrivere, per apodittica conseguenza mi è parso già da tempo opportuno annotare queste mie varie riflessioni su un blog. C'è tanto di cui mi piace scrivere! Ora, voi capirete da soli che, al momento di sceglierne il titolo, una cosa era assolutamente doverosa: ispirarmi a quel motto. Ispirarmici, ma non copiarlo, perché l’esortazione originale recita «Sapere aude», cioè «Abbi il coraggio di usare la tua intelligenza», mentre il titolo che ho scelto io è leggermente diverso: Sapere audeo, ovvero «Ho il coraggio di servirmi della mia intelligenza». Una connotazione a carattere più strettamente individuale, che però, badate, non ha in sé alcuna presunzione, nel senso che l’io sottinteso in quell’espressione non è “il mio” io, ma il singolo io di tutti noi, che deve essere bello, forte e buono per se stesso, prima ancora che per gli altri, che è appunto ciò che mi propongo di fare per me stesso attraverso le mie riflessioni.
     E dunque, buona lettura a te, lettore, chiunque tu sia.


Immanuel Kant

2 commenti:

  1. Normalmente quando scopro un blog nuovo che mi suscita interesse leggo il primo post per decidere se seguirlo o no. E dunque, mi piace. Un saluto a te blogger, chiunque tu sia ;-)

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