domenica 25 settembre 2022

Cari astenuti, causate voi lo schifo che vi fa astenere

Mentre queste elezioni politiche 2022 si concludono, in attesa degli spogli possiamo già prevedere che il cosiddetto partito degli astensionisti, in costante aumento negli anni, si riconfermerà certamente presente anche stavolta.

Ebbene, esso viene troppo sovente trattato unicamente come conseguenza della regressione morale e istituzionale della nostra classe dirigente, ma in verità mi pare il caso di notare l’altra faccia della medaglia, ovvero che l’astensione è anche causa della regressione che vediamo nei nostri politici e che quindi, in ultima analisi, chi si astiene produce le condizioni che portano all’astensione stessa.

Vediamo perché.
In primis non tutti gli astensionisti sono uguali. Ci sono quelli che disertano il seggio elettorale perché non si sentono rappresentati da nessuno, anche sforzandosi, e coloro che si astengono per pigrizia civica, ovvero quelli che si sono autoconvinti che «tanto non cambierà nulla, quindi cosa votiamo a fare?».
Le parole che seguono sono dedicate soprattutto a questi ultimi.

Inutile appellarsi ad argomenti idealistici come gli sforzi, il sangue, le battaglie che storicamente sono state fatte per arrivare oggi a godere di questa forma di libertà, di questo diritto che è anche un dovere ecc. Inutile, perché a costoro non importa nulla di quanto sia costato conquistare questo diritto, non gliene frega niente dei morti che sono stati necessari. Se costoro fossero stati sensibili a questo tipo di ragioni, molto probabilmente all’astensionismo non sarebbero mai approdati.

Andiamo dunque su motivi più concreti.

1. Non votare crea rischi

E andiamoci con una premessa: noi siamo in democrazia e la democrazia è il governo di una maggioranza di elettori, che però tutela e non deve calpestare i diritti delle minoranze.
Nella nostra democrazia, che è parlamentare, noi non eleggiamo chi governa (cioè il Presidente del Consiglio e i suoi ministri), bensì eleggiamo coloro che decideranno chi governa (cioè eleggiamo i membri del Parlamento, deputati e senatori) e che eleggeranno anche il Presidente della Repubblica.

Questa precisazione serve a sottolineare che il legame tra il nostro voto e l’effetto che esso produce (cioè la scelta di chi governa) non è diretto, ma indiretto perché è delegato al Parlamento e quindi già solo per questa ragione occorre nella nostra democrazia una prudenza superiore a quella che si usa nelle democrazie più dirette, dove gli elettori scelgono chi governa senza intermediari.

Basterebbe già solo questo argomento quindi per considerare l’astensionismo (soprattutto quello da pigrizia civica) come un fattore di rischio, perché se i miei interessi (la scelta del Governo) sono delegati a un tramite (il Parlamento), il minimo che io possa fare è sorvegliare molto da vicino quel tramite, anche solo per verificare che effettivamente mi rappresenti nel modo corretto.

Immaginate la stessa situazione in un contesto economico e non politico. Ho un’azienda grande che fa molte cose, io non posso occuparmi di tutto, perciò delego alcune decisioni a un amministratore. Se ora questo amministratore sa di non essere mai sorvegliato quanto è probabile che approfitti della delega che ha per lucrare ai miei danni e a suo vantaggio? Ovvio che lo farà quasi certamente! Tanto nessuno lo scoprirebbe mai. E se io non sono stupido e non voglio rischiare di farmi derubare, devo almeno ogni tanto sorvegliare il suo operato e reagire adeguatamente se scopro che non lavora bene. E il primo momento in cui posso stare attento a ciò è proprio quando scelgo l’amministratore!

Ecco dunque il primo errore dell’astensionista: egli non si rappresenta l’effetto del suo voto come una cosa che lo riguardi. Non riesce a sentire (ho detto “sentire”, non “sapere”) che il suo voto contribuisce ai meccanismi con cui andrà la sua stessa vita. Quindi non sente emotivamente il bisogno di tutelarsi attraverso un rigido controllo da elettore, anzi, si vanta di non occuparsene affatto, come se avesse fiutato una rottura di scatole che poteva dargli fastidio.

Qui molti si difenderebbero così: «Ma cosa vuoi che faccia la mia singola astensione? Siamo 60 milioni in Italia, adesso sta’ a vedere che se non vado a votare scompare la democrazia».
A parte il fatto che, se un comportamento è sbagliato, non c’è ragione di farlo già solo per questo, ma il guaio è che questo ragionamento non lo fa uno solo, bensì molti, tutti ugualmente convinti di essere i soli a farlo. Quindi l’effetto cumulativo di tutti questi ottimisti è che poi gran parte dell’elettorato, anche più della metà, non esegue questo controllo sulla delega. E gran parte pesa più di uno solo.

2. Non votare incoraggia il degrado

Tutto questo è ben noto ai politici che, al contrario degli elettori, sono molto ben informati sulla gente attraverso studi, sondaggi e controlli. Ora, se ammettiamo che un politico sia un potenziale pericolo (come di fatto è) e se quel politico sa che quasi nessuno si interesserà di ciò che vuole fare, è ovvio che si sentirà più libero di commettere atti illeciti contro gli interessi degli elettori.
E non vale il pericolo che poi possa essere punito adeguatamente dopo, cioè attraverso una non rielezione, perché, per poterlo punire, l’elettore dovrebbe conoscere quello che è successo nel frattempo e votare altri la volta successiva. Ma l’astensionista non fa alcuna di queste cose.
Perciò la condanna elettorale, se arriverà, sarà piccola, cioè quel politico perderà pochi voti pur avendola fatta molto grossa.

Non ne siete convinti? Com’è possibile allora che per così tanti anni siano rimasti a capo dei partiti sempre gli stessi candidati? Ricordate il ricambio della classe dirigente, la gerontocrazia, la rottamazione, «fare largo ai giovani» ecc? Ecco, non accade perché l’opinione pubblica è tendenzialmente disinteressata a ciò che nella politica accade e, quindi, tendenzialmente non agisce per lanciare ai politici i messaggi adeguati. E quelli continuano indisturbati.

E questo ci fa arrivare a una seconda conclusione: ovvero che in democrazia non basta che esistano delle regole (anche quelle non scritte), in quanto le regole possono essere violate. Si sa, è la natura umana; occorre anche un controllo morale sul rispetto di quelle regole, di quei patti, di quelle promesse, ovvero occorre che esista un’opinione pubblica attenta, vigile e interessata alla politica. Serve che gli elettori stiano col fiato sul collo ai politici, che facciano loro capire che li sorvegliano, che votino facendo loro le pulci! Deve arrivare il messaggio che se sgarri io ti faccio morire politicamente e quindi devi portare a casa dei risultati come rappresentante.
Invece ai politici arriva addirittura il segnale opposto, che cioè la gente non bada più di tanto alla loro coerenza ed efficienza, quindi per loro ciò è semaforo verde per agire contro di noi.

Ecco quindi che l’astensionista, col suo comportamento, favorisce il degrado morale e l’inefficienza istituzionale dei rappresentanti politici, incoraggiandoli ad agire senza alcun timore.
E questo degrado poi è quello che lo disgusta al punto da scegliere di astenersi!

3. Non votare aiuta le mafie

Un’ultima riflessione sull’astensionismo riguarda la facilitazione che esso fa alle mafie sui pacchetti di voti.
Qualunque magistrato, soprattutto quelli antimafia, potrà testimoniare che nel nostro paese la malavita organizzata (cosa nostra, ’ndrangheta, camorra...) è molto radicata nei vari settori del potere politico, non solo nel senso che i mafiosi mettono al potere gente che faccia i propri interessi, ma anche nel senso che molti politici si rivolgono spontaneamente ai mafiosi per comprare da essi interi pacchetti di voti (in cambio di favori, s’intende).

Ora, per le mafie assicurarsi dei voti costa. Quindi le mafie possono comprare fino a un massimo di voti, non infiniti; esiste un limite anche per quello.
Ebbene, ragionando con numeri piccoli per capirci facilmente.
Poniamo che la mafia abbia il potere di comprare 200 voti e che gli elettori totali siano 1200.
Escludiamo il caso che vadano a votare davvero tutti e accontentiamoci di una percentuale alta di votanti, diciamo 1000 persone.
Se si esprimono 1000 voti e di essi 200 sono comprati dalle mafie, allora vuol dire che in quella situazione la mafia avrà comprato il 20% dei voti, cioè avrà condizionato un quinto delle preferenze, sottraendole alla libera scelta dei cittadini. Ma 4/5 delle preferenze sono “libere” e rappresentano ancora abbastanza bene la volontà reale del paese.
Se però l’astensionismo è alto e va a votare meno della metà, diciamo 400 persone, la mafia potrà permettersi di comprare gli stessi 200 voti di prima. Solo che 200 voti su 400 totali non sono il 20%, bensì il 50%, cioè la metà!

Ovvero: i voti della mafia pesano di più, pur essendo sempre gli stessi! E quindi influenzano in modo più forte le scelte immediatamente successive alle elezioni, perché poi il candidato che ha comprato i voti mafiosi dovrà restituire il favore, magari concedendo appalti alle aziende della mafia per opere pubbliche non davvero necessarie, pagate con soldi pubblici (cioè nostri) che saranno quindi sottratti ai servizi per il cittadino (scuola, sanità, assistenza…) e creeranno buchi di bilancio nelle casse degli enti.

Ecco che l’astensionista finisce addirittura per favorire le mafie che il loro operato riducono il paese e la classe politica proprio in quelle condizioni di degrado materiale e morale che tanto ribrezzo hanno suscitato in lui e lo hanno spinto ad astenersi.


Al di là di tutti questi motivi però, confesso che per me la cosa più deludente di tutte è che in condizioni di alto astensionismo viene meno la possibilità di dire che il paese abbia scelto, indipendentemente da chi vince le elezioni.

Quando si dice “il paese” si intende una percentuale che rappresenti bene il paese, quindi una percentuale alta. Se invece chi ha fatto la scelta è solo una sparuta minoranza, allora la scelta non l’ha fatta il paese “nel suo complesso”.

In tali condizioni sarebbe ancora giusto che la decisione finale sia autorizzata a riguardare poi tutto il paese? Perché magari il paese nel suo complesso avrebbe scelto altro e invece si ritrova qualcosa che non avrebbe preferito.
Secondo me così non è nemmeno più democrazia.

Almeno avessimo l’onestà di non lamentarci dopo...!

******

Il peggiore analfabeta
è l’analfabeta politico.
Egli non sente, non parla,
né s’importa degli avvenimenti politici.
Egli non sa che il costo della vita,
il prezzo dei fagioli, del pesce, della farina,
dell’affitto, delle scarpe e delle medicine
dipendono dalle decisioni politiche.
L’analfabeta politico è così somaro
che si vanta e si gonfia il petto
dicendo che odia la politica.
Non sa l’imbecille che dalla sua
ignoranza politica nasce la prostituta,
il bambino abbandonato,
l’assaltante, il peggiore di tutti i banditi,
che è il politico imbroglione,
il mafioso corrotto,
il lacchè delle imprese nazionali e multinazionali. 

(Bertold Brecht)

domenica 1 agosto 2021

Covid e mascherine lo confermano: facciamo proprio schifo!

      C’era una cosa sola che dovevamo fare, mentre le politica riorganizzava (male) la vita pubblica e la scienza cercava una cura per il covid. Una cosa piccola, insignificante, per nulla faticosa, semplice e veloce, che non richiedeva sforzi, sacrifici o dispendi di tempo ed energia: tenere la mascherina nelle interazioni con gli altri. Stop.

     Tenere la mascherina (correttamente indossata, ovvero coprendo la bocca e anche il naso, altrimenti non serve a nulla!) avrebbe consentito di bloccare quasi del tutto la circolazione del virus tra le persone.
     Il concetto era semplice: il virus si trasmette per via aerea, ovvero con ciò che esce dalla bocca e dal naso; la mascherina sta a ridosso di bocca e naso e si becca ciò che emettiamo con bocca e naso.

     La mascherina avrebbe quindi diminuito la quantità di virus liberi, quindi la quantità di persone infette e di focolai; quindi avrebbe anche diminuito il tasso di contagi, avrebbe pesato meno sulla sanità, per cui sarebbero morte meno persone e si sarebbe abbassata la probabilità e la durata dei lockdown che, lo abbiamo visto, con tanta facilità sono invocati dai governanti (spesso anche per spararsi le pose); ma soprattutto avremmo dato meno modo al virus di mutare.


     E su questo soffermiamoci giusto un minuto.

     Le nuove varianti di cui sentiamo sempre così vagamente parlare sono virus modificati, che possono essere più aggressivi e più forti contro i vaccini. Ma perché esistono le nuove varianti? Come si formano?
     Il virus muta (cioè acquisisce caratteristiche e capacità nuove) quando è nell’organismo ospite (cioè in noi) e può farlo solo mentre si replica in più copie dentro le nostre cellule.
     Mentre il virus si copia, infatti, in realtà copia il suo materiale genetico: durante il processo di copia, però, possono avvenire degli errori casuali, che in parte vengono corretti subito, in parte invece sfuggono. Quando un errore di copia sfugge, il genoma copiato “male” rimane diverso da quello di partenza: in quel momento è nata una mutazione e i virus che trasporteranno quel genoma mutato sono le cosiddette varianti.
     A seconda della mutazione avvenuta – che è casuale! – il nuovo genoma può rendere il virus anche più aggressivo, può dargli nuove armi per infettare o potenziare quelle che già possiede.
     Per cui: per abbassare la formazione di varianti i virus devono replicarsi di meno, perciò devono circolare meno nelle cellule, quindi devono essere trasmessi di meno tra gli individui e questo avviene se indossiamo la mascherina.

     Ora, di fronte a questa banale verità e a fronte di molte persone che si comportano responsabilmente, dappertutto e da molti mesi osserviamo l’ottimismo da mascherina, ovvero individui che non vogliono fare nemmeno questa piccola parte.

     Casalinghe a fare la spesa, amici che si incontrano, ragazzi fuori scuola ammassati prima di entrare (salvo poi fingere di indossarla una volta entrati in classe!)… Chi la mascherina la abbassa sotto il naso, chi la tiene ma sotto il mento, chi la tiene su finché sta zitto ma prontamente poi la abbassa nel momento in cui deve avvicinarsi alla tua faccia per parlare, come se non si sentisse bene (tutta questa empatia!)… e il sottoscritto ha perfino visto gente non portarsela appresso per niente.

     Come giustificare a se stessi questo comportamento? Le frasette paraculo sono variegate e si possono anche dividere in categorie.
  • Allarmiste: «E non respiro!», «E mi fa senso!», «E sono claustrofobico!» (che cavolo c’entra?!)...
  • Prudenziali: «Vabbe’, respiro solo con la bocca», «Ma tanto rimango a distanza» (allora che la indosseresti a fare?)...
  • Scettiche: «Non è vero che blocca l’aria, infatti riesco ancora a respirare» (certo che respiri, idiota, sennò morivi!), «Se davvero servissero non farebbero i vaccini» (no comment)...
  • Complottiste: «Ma è tutto finto, per vendere più mascherine», «No, io al covid non ci credo» (e poi magari crede in Dio!), «Io non mi faccio limitare nella mia libertà» (però limiti quella degli altri)…

     Senza contare alcune vere e proprie regole campate totalmente in aria che ci siamo creati per giustificare la nostra negligenza, come i ragazzini che si ammassano in branchi agli angoli della strada senza mascherina solo perché «sono i miei amici, li conosco», come se l’infezione si trasmettesse solo agli estranei.
     O come quelli che ti dicono «l’ho già incontrato più volte senza mascherina, che la metto a fare?», così se c’era un minimo di possibilità di evitare il contagio le prima volte, adesso niente proprio.


     La cosa assurda è che tutta questa follia ce la siamo cucita addosso subito dopo aver vissuto sulla nostra pelle tremendi lockdown, coprifuoco, limitazioni, divieti e diverse compressioni di libertà personale che hanno alterato tutti i rapporti sociali, penalizzato i più fragili, fatto chiudere negozi, stroncato l’economia, creato disoccupazione, fallimenti, incrementato episodi depressivi, violenze familiari…
     Come a dire: non siamo capaci di imparare un minimo di responsabilità nemmeno quando nuotiamo nel letame fino ai capelli.

     Ma in generale quello che allarma di più è l’incapacità generale di immaginare tutti gli altri: la percezione dell’altro risulta in certi contesti totalmente azzerata. Attenzione, non sto dicendo che molti ancora non capiscono che dipendiamo gli uni dagli altri! No, dico proprio che nella rappresentazione mentale di questi soggetti l’altro non esiste affatto! Non è un elemento dei suoi pensieri, non è presente nei ragionamenti che fa!
     Alla faccia dell’uomo animale sociale!
     Se con tanta facilità posso fregarmene del fatto che senza la mascherina sto esponendo gli altri a un rischio che potrebbe dipendere da me (senza che io nemmeno lo sappia, tra l
altro!), allora non ho un minimo di intelligenza sociale, ovvero che non ho il mezzo più elementare per vivere con gli altri.
     Cosa potrebbero mai insegnare ai propri figli persone con una forma mentis del genere? Come potranno prepararli a vivere in società, se essi stessi per primi non hanno una corretta rappresentazione della società?

     Qui siamo ben oltre l’egoismo. L’egoismo prevede comunque un principio positivo: tutelo me stesso a tutti i costi, anche sacrificando gli altri. Ma qui mettiamo a rischio anche noi stessi!
     Non è egoismo, allora. È ottusità, è stupidità, è autolesionismo.

     È davvero come se la gente volesse fare di tutto per evitare la fatica mentale di pensare, di collegare le cose, anche le più semplici. Non ci vuole infatti una laurea per capire che, se faccio l’ottimista con la mascherina, lo possono fare anche gli altri; e se lo fanno gli altri, lo facciamo tutti; ma se lo facciamo tutti come fanno poi a non nascere focolai nuovi e quindi nuovi lockdown ecc?
     No! Troppo faticoso da pensare: mi concentro solo su me stesso, su quello che sento qui e ora. Se qui e ora non ho voglia della mascherina, non la metto. Punto.
     Questa è la stessa logica con cui un neonato si sente libero di fare pipì in qualsiasi momento anche in pubblico senza porsi il problema della situazione, degli altri presenti ecc. Solo che un neonato non ha educazione e maturità sociale, un adulto non è altrettanto giustificabile.

     La pigrizia. Probabilmente è questo il nucleo principale di questi comportamenti.
     Non dico la pigrizia buona o “simpatica”, quella che mira ad ottimizzare gli sforzi, come quella di Trinità che si faceva trainare sulla slitta di legno per non andare a cavallo, parlo di una deformazione comportamentale vera e propria, come una malattia mentale: parlo della convinzione, radicata anche nell’inconscio, secondo cui fare quella fatica di capire per poi sapere come comportarsi sia in qualche modo “sbagliato”. Come se fosse diventato un valore etico introiettato: “fare fatica per un bene superiore è sbagliato: devo avere il bene senza fatica”.

     E allora la mascherina non la tengo su, se non mi va.
     Bene. E allora io dico che ci meritiamo gli ospedali intasati, le terapie intensive che scoppiano, gli esami medici rinviati, i divieti di spostamenti, l’allontanamento sociale, le zone rosse, i coprifuoco, ci meritiamo anche i negozi che chiudono e falliscono, ci meritiamo di perdere il lavoro, l’economia che crolla, i poveri che aumentano, ci meritiamo anche i parenti che stanno male per colpa di tutto ciò.
     Ce lo meritiamo perché potevamo evitarlo facilmente con una cosa facile che non costava niente e abbiamo scelto di non evitarlo. Ci sta bene!

     Del resto, a ben pensarci, i conti tornano: una società iperassistita (e quindi iperviziata) in cui devi avere la comodità di non scendere nemmeno sotto casa per comprare qualcosa perché tanto può portartelo Amazon o in cui non devi fare la fatica (nel senso di “è giusto che tu non faccia la fatica”) di vivere l’attesa di un qualsiasi desiderio perché puoi istantaneamente esaudirlo tramite la tecnologia, allora non si riesce poi ad elaborare il “lutto” di dover fare il sacrificio di aspettare, di faticare, di pensare.


     Un essere umano che funziona così male, modello mediamente rappresentativo del tipico uomo occidentale, andrebbe secondo me in primis giudicato – e condannato – sul piano morale.
     Questo perché puntare il dito su qualcosa, dire che fa schifo, che è sbagliata e inaccettabile, che è insopportabile e odiosa è il primo passo per aggiustare le cose. Altrimenti ci si abitua e tutto diventa “normale”. E nessuno si ribella al normale.

     Ebbene, se davvero vogliamo che il nostro quotidiano sia meno odioso e frustrante, indipendentemente dal covid, cominciamo col dirci questo: che facciamo schifo!
Come specie biologica; come massa sociale; spesso anche come singoli individui.
     Facciamo schifo! Siamo capaci di grandi cose, ma anche di cose assurde, quindi facciamo schifo.
     Siamo ipocriti, capaci di cose ingiuste, sbagliate, odiose, di comportarci secondo criteri sbagliati, siamo incapaci di imparare da quello che ci succede, siamo ignoranti, disattenti, pigri, egoisti, inconsapevoli di noi stessi e degli altri. Siamo perfino pericolosi!

     Forse dirci questo ci aiuterebbe a richiamare l’attenzione sulle nostre contraddizioni, ce le farebbe sembrare più urgenti e forse aumenterebbe la probabilità che ci autocensuriamo per limitarle. Perché è così che si vive in società: censurando certi istinti, possibilmente con un’educazione alle spalle che te lo fa fare facilmente, sennò con uno sforzo personale sorretto da una motivazione abbastanza forte (la paura di perderci qualcosa o il desiderio di qualcos’altro).
     Altrimenti non c’è società, non ci sono leggi, non ci sono diritti, non ci sono tutele: ci sono solo bestie in perenne guerra tra loro in cui solo il più forte prevarrà calpestando tutti gli altri. Cioè danni e ingiustizie per tutti.

     Naturalmente l
’uso (corretto) della mascherina non è il solo elemento da cui dipende la trasmissione dell’infezione; anche il distanziamento conta parecchio, o perfino altri parametri, come l’umidità dell’aria o la temperatura.
     Tuttavia le persone comuni, nel proprio quotidiano, hanno il massimo controllo solo sulla mascherina e proprio su quello si osserva la maggiore negligenza. E se moltiplichiamo questa negligenza per il numero di individui che fanno gli ottimisti in tutto il mondo, si capisce bene come mai non debba sorprendere tanta difficoltà nel combattere la pandemia.
     Ed è questo a risultare così odioso!

     E giusto per avere argomentazioni a sufficienza per chi vorrà fare questo gioco di autoumiliazione terapeutica, ecco un breve elenco delle più vistose contraddizioni di cui siamo stati protagonisti, almeno nel nostro paese, dopo un anno e mezzo di pandemia.

Annuncio della pandemia: «viene dalla Cina».
Prima reazione: bullismo e discriminazione contro le minoranze cinesi. «Brutti bastardi, ci avete portato il morbo, statevene a casa vostra!»

Chiusura di tutto: Italia zona rossa.
Reazione: «Speriamo arrivi presto la cura, così finisce tutto»
Intanto si sta come coglioni cantando sui balconi.

Regime di distanziamento: “state a casa”
Reazione: gente beccata fuori casa lo stesso con la scuse più balorde

Prime riaperture a ridosso dell’estate: il governo raccomanda cautela
Reazione: assembramenti e ottimismo.
Grazie, eh!

Estate 2020: «fa caldo, il virus si trasmette di meno»
Così molti si abituano a prenderla sotto gamba e in autunno faranno lo stesso.

Giugno, il governo propone tracciamento smart: via all’app Immuni
Reazione: «Non ci penso nemmeno! E dove la mettiamo la tutela della mia privacy?»
La privacy??? Ma come? Teniamo sullo smartphone app invasive che spiano di tutto sul telefono, a cominciare da Instagram, Facebook e TikTok richiedendo praticamente ogni permesso possibile e ci facciamo il problema dell’app Immuni che non richiedeva quasi nessun permesso e che avrebbe poi cancellato i pochi dati raccolti per il monitoraggio?
Sveglia! La vostra privacy è terminata il giorno in cui vi siete creati un account Google o Apple!

Settembre, è quasi tempo di scuola (che inizierà in ritardo, perché i ministeri, poverini, avevano avuto solo otto mesi per organizzarsi).
Inizia un martirio dantesco: apri, chiudi, sanifica, sospendi, didattica in presenza, no, a distanza, in presenza solo in parte, 50%, 75%, a giorni alterni, con scappellamento a destra, fai la riverenza, fai la penitenza…
Adolescenti sacrificati ancora di più sull’altare della disorganizzazione + didattica a distanza fallimentare nel 99% dei casi: insegnanti che non sanno accendere il pc, altri che non sanno inquadrare la lezione (succede quando ti laurei negli anni ’70 e non ti aggiorni), lezioni che non si sentono, il wifi che non va bene, imbrogli durante le interrogazioni, verifiche senza alcun valore, programmi scolastici che saltano, competenze non acquisite. E mi fermo qui, ma ci sarebbe dell’altro...

Autunno, il governo: «Chiudiamo ora per non chiudere a Natale, intanto rispetto delle regole»
Reazione: si fa come d’estate (perché ci si è abituati male), quindi contagi che non scendono e a Natale chiusi lo stesso.
E fu ottobre e fu dicembre: seconda ondata.

Intanto i negozianti in difficoltà. Nasce un nuovo complesso.
Se richiamano il cliente sull’uso della mascherina, questo si offende e se ne va. “Il cliente ha sempre ragione… come gli stupidi”.
Se non lo richiamano rischiano contagi; i contagi costringono a fare i tamponi; i tamponi ti fanno chiudere. Chiusura, perdita economica. Danno assicurato, comunque ti muovi.

Dicembre: arrivano i primi vaccini.
Reazione: «No, ma io non me lo faccio, non mi fido»
Strano: quando la Pfizer fece il Viagra nessuno disse niente, ora tutti No-vax cartesiani.

Intanto in TV: niente più spot sul covid, niente promemoria sull’uso della mascherina e sul lavaggio delle mani.
In compenso nei TG conta dei morti tutti i santi giorni, così il terrorismo psicologico preparerà la gente ad accettare qualunque cosa la malapolitica vorrà fare.
Ripartono anzi le armi di distrazione di massa: reality show, Barbara D’Urso, Santa Maria e soprattutto non un solo talk show in cui qualcuno abbia spiegato alla gente quello che serve davvero, cioè come funziona il contagio, come funziona la mascherina, come funzionano i vaccini… Niente, solo stronzate e conta dei morti. «Ma sì, non ci pensiamo, sennò ci scoppia la testa»
Grazie, servizio pubblico.

Primo trimestre 2021: «Allenteremo le misure, ma spirito di responsabilità»
Reazione: i contagi risalgono. «Eh, non ce la facevamo più, era una prigione»
E fu gennaio e fu aprile: terza ondata.

Intanto tutti tranquilli: «tanto fra poco arriva l’estate, i contagi scendono».
BAM! Variante delta.
Vaccini non altrettanto efficaci (vedi sopra).

Governo: «faremo mezzo milione di vaccinazioni al giorno»
Su 60 milioni di popolazione doveva quindi finire tutto in 4 mesi: il sottoscritto ne ha attesi 2 solo per essere convocato per la prima dose… e non è stato comunque convocato, perché mancavano le dosi, quindi ha ripiegato su dosi che avanzavano all’ASL, sennò stavo fresco.
Reazione: cresce il fronte No-vax. «Non mi vaccino!»
Quindi: la mascherina no, perché non vuoi fare lo sforzo, il vaccino no, perché non ti fidi, i divieti no, perché la libertà è sacra. Ci vai da solo a quel paese o ti ci mando io con la rincorsa?

Epilogo (per il momento) del governo: «Green pass obbligatorio»
Se si sono rotti le scatole perfino loro di gestire questa situazione…!
Reazione: «Il Green pass è dittatura».
Certo che lo è, così impariamo… anzi, no: non impariamo un bel niente.
Per farci fare qualcosa dobbiamo essere costretti, perché la fatica di farla da soli, di capire, di scegliere per noi è troppo.

Morale della favola dopo un anno e mezzo di pandemia: facciamo schifo!
Non è tanto il covid che merita di vincere, siamo noi che meritiamo di perdere.



lunedì 30 marzo 2020

Covid-19: ecco come nascono le pandemie (e come scongiurarle)

     Da dove viene il coronavirus che da diversi mesi sta infestando l’intero pianeta?
     E come si formano virus simili che portano a simili pandemie?
     Possiamo imparare dalle epidemie degli anni scorsi?
     Ma soprattutto come mai il Covid-19 si è diffuso così facilmente?
     Cosa dobbiamo fare noi nel piccolo quotidiano per scongiurare questo tipo di rischi?

     L’articolo che segue restituisce, in modo lineare e comprensibile, i fattori che permettono a questi fenomeni di accadere e dà una mano a comprendere in che modo il nostro modo di agire, sia su grande che su piccola scala, favorisce la diffusione di questo tipo di epidemie, dando quindi anche una linea guida su cui riorientare condotte e politiche future.

Covid-19 e altri virus, l’elemento in comune è lo sfruttamento del pianeta e degli animali

     Ci troviamo, ormai da diverse settimane, nel pieno di quella che l’Organizzazione mondiale della Sanità (Oms) ha dichiarato essere “un’emergenza internazionale di salute pubblica”.
     Trattasi del Covid-19, un nuovo ceppo di coronavirus mai identificato prima nell’uomo che, nel momento in cui scriviamo, ha causato oltre 16.000 decessi e contagiato più di 380.000 persone nel mondo, con 6.000 morti e oltre 64.000 positivi solo in Italia.

     Come la maggior parte (circa il 70%) delle malattie umane fino ad oggi conosciute, anche questo virus deriva da un’interazione più o meno diretta fra animali, selvatici e addomesticati, e l’essere umano. Queste patologie sono dette zoonotiche, in quanto partono dall’animale e arrivano all’uomo attraverso un salto di specie del virus chiamato spillover. Lo scambio di patogeni è favorito in quei luoghi che agevolano il contatto interspecifico: non solo i mercati, legali o illegali, in cui si concentrano molti individui e più specie animali, ma anche i terreni deforestati che privano la fauna autoctona del loro habitat e gli allevamenti intensivi, tutti complici del deterioramento degli ecosistemi e della perdita di biodiversità.

     Al momento non ci sono evidenze scientifiche, ma si ritiene che il fatidico spillover che ha generato la pandemia di Covid-19 sia avvenuto proprio in un mercato, quello di Wuhan in Cina: una situazione che vede la presenza di molte persone in relazione con animali morti e animali vivi. Lo scenario più probabile suggerisce che il serbatoio del patogeno sia una specie di pipistrello ampiamente presente in Cina e che il coronavirus sia arrivato all’essere umano tramite il passaggio attraverso un ospite intermedio.



     A rileggerlo oggi pare incredibile, ma un libro uscito nel 2012 anticipò con stupefacente esattezza tutti i dettagli di questa recente pandemia. Parliamo del saggio Spillover, che tratta appunto il salto di specie, scritto da David Quammen, divulgatore scientifico e giornalista. Il testo parla della diffusione dei nuovi patogeni e delle grandi epidemie e spiega come questi devastanti virus siano la risposta della natura all’assalto dell’uomo nei confronti degli ecosistemi e dell’ambiente. Secondo Quammen “stiamo invadendo e alterando gli ecosistemi con sempre più decisione, esponendoci a nuovi virus e offrendoci come ospiti alternativi. Siamo troppi e consumiamo le risorse in modo avido, e ciò ci rende una specie di buco nero che attira tutto, anche i virus. Dobbiamo ridurre velocemente le attività che impattano sull’ambiente, ridimensionare la popolazione e porre un freno alla domanda delle risorse.”

     Negli ultimi 30 anni la frequenza delle zoonosi è aumentata a dismisura. Uno degli esempi è l’Aids, originata dal contatto umano con il sangue infetto di scimpanzé e scimmie durante una battuta di caccia nell’Africa centrale del 1920, ma ce ne sono molte altre. Risale al 2002 in un mercato cinese la comparsa della Sars, causata da un coronavirus trasferitosi dai pipistrelli prima agli zibetti e poi agli umani, provocando oltre 700 morti. Si scopre invece nel 2012 la Mers, sviluppatasi nel Medio Oriente e trasmessa dai pipistrelli ai cammelli fino all’essere umano, uccidendone oltre 800. Anche l’Ebola, individuata in Congo già negli anni 70 e responsabile di 15.000 decessi, viene veicolata agli umani da un pipistrello, l’Eidolon helvum.

     Purtroppo non finisce qui: anche gli allevamenti di animali utilizzati a scopo alimentare sono ambienti favorevoli allo sviluppo di epidemie. Il primo caso riguarda l’encefalopatia spongiforme bovina (BSE), nota anche come morbo della mucca pazza, scoperto in Gran Bretagna nel 1986 ed esploso negli anni 90. Agli animali allevati venivano somministrati mangimi arricchiti con farine prodotte dall’incenerimento delle ossa di altri bovini: un caso di cannibalismo, quindi. Il Regno Unito è stato l’epicentro dell’epidemia, con i decessi di 160 persone e migliaia di mucche.

     Nel 2009 si diffonde la suina (influenza A/H1N1), in particolare tra Stati Uniti e Messico, causando 200.000 morti. Questa patologia si trasmette dagli uccelli prima ai maiali e poi all’uomo.
     Nel 2003 molte specie di uccelli, inclusi quelli allevati come polli e galline, contraggono l’influenza aviaria. Originaria delle zone del Sud Est asiatico, si è poi diffusa in tutto il mondo, Italia compresa, uccidendo circa un migliaio di persone e causando l’abbattimento di milioni di volatili rinchiusi negli allevamenti, soprattutto a scopo preventivo.

     Gli esperti concordano sui fattori che causano la propagazione di queste malattie sempre più pericolose e difficili da contrastare. Tra questi l’urbanizzazione, che riduce lo spazio riservato alle specie selvatiche e favorisce le possibilità di contatto con l’uomo, la crisi climatica e lo sfruttamento oltre ogni limite degli animali allevati a scopo alimentare. L’impatto maggiore potrebbe derivare però dalla deforestazione, che causa la devastazione degli ecosistemi principalmente per far spazio ad allevamenti bovini e a nuove coltivazioni intensive (soprattutto soia) destinate al foraggio animale. La carne e il mangime ricavati dal disboscamento di queste terre finiscono in tutto il mondo, Italia compresa, che si colloca tra i primi acquirenti con oltre 27.000 tonnellate di carne bovina importati solo nel 2018 dal Brasile.


     Per quanto riguarda la correlazione tra la crisi ecologica e l’epidemia in corso nel nostro paese, un recente studio effettuato dall’Arpa, in collaborazione con le Università di Bologna e di Bari, ha evidenziato una possibile correlazione tra l’inquinamento atmosferico e i casi di Covid-19 riscontrati. Pare che, nelle zone in cui sono state rilevate le maggiori concentrazioni di PM10, le curve di espansione dell’infezione abbiano subito accelerazioni anomale. Il particolato è infatti un efficace vettore di trasporto per molti contaminanti, virus compresi. Lo conferma Gianluigi de Gennaro dell’Università di Bari: “Le polveri fanno da carrier, è necessario ridurre al minimo le emissioni sperando inoltre in una meteorologia favorevole”. Proprio nella Pianura padana, una delle zone più inquinate d’Europa e che detiene il triste primato di positivi al Covid-19, si concentra il maggior numero di allevamenti intensivi, tra i principali settori che contribuiscono all’inquinamento atmosferico.

     Un elemento comune dei proliferare dei virus è quindi lo sfruttamento eccessivo del pianeta, dovuto anche alla produzione industriale di carne e agli allevamenti.


     Se tutti vogliamo mangiare la fettina o l’hambuger, oltre ad uccidere miliardi di animali confinati in luoghi orribili, dobbiamo devastare ecosistemi e sprecare preziose risorse per convertirli in carne, ereditando da questo processo un ambiente in cui siamo più esposti ai virus.

     Due sono i fattori che saranno fondamentali per il nostro futuro: l’attuazione di politiche contro l’emergenza ambientale, già sollevate da movimenti ecologisti e organizzazioni per la protezione degli animali e una maggiore consapevolezza, in ciascuno di noi, dell’impatto del nostro stile di vita e delle nostre abitudini alimentari. I nostri consumi saranno scelte personali, ma sono indissolubilmente legati a un sistema di produzione i cui effetti collaterali hanno conseguenze sul pianeta e sull’intera comunità.

venerdì 15 marzo 2019

In marcia per il clima: la rivoluzione di Greta Thunberg

     Nell’agosto 2018 in Svezia una bambina di appena 15 anni, che coltivava una passione per le tematiche di ecologia fin dall’età di 8 anni, rimanendo allarmata dalle eccezionali ondate di calore nel suo paese e dai numerosi incendi boschivi provocati dal surriscaldamento globale, decise di scioperare per un intero mese tutti i venerdì di fronte al parlamento svedese con un cartello su cui era scritto SKOLSTREJK FÖR KLIMATET (Sciopero scolastico per il clima).

     Quella bambina si chiama Greta Thunberg.


     Chiaro e trasparente, quel cartello dichiarava chiare intenzioni: che senso ha andare a scuola e prepararsi per un futuro che rischia addirittura di non esserci? Perché affannarsi tanto a imparare cose che dovranno servire per domani, se l’esistenza di quello stesso domani è minacciata?

     Greta sa bene che il surriscaldamento globale non è, come molti erroneamente pensano, solo una questione di temperatura: aumentare di un solo grado la temperatura del pianeta non significa che farebbe solo più caldo.
     Sbilanciare la temperatura in questo modo produce squilibri ecologici spaventosi: significa modificare il clima di regioni del mondo che ora ospitano specie animali e vegetali e renderle inospitali alla vita, significa annientare la possibilità di poter coltivare cibo su vastissime aree del pianeta, che a sua volta vuol dire far morire di fame miliardi di persone; significa anche portare temporali, uragani, tsunami, tornado in luoghi dove il clima è ora mite e abitabile e creare interi flussi di migranti climatici, che cercheranno rifugio in molte zone del mondo, creando emergenze sociali, sanitarie, problemi di accoglienza, come già accade oggi con i migranti africani e asiatici che scappano dalla guerra rifugiandosi in Europa. Significa condannare all’estinzione centinaia di specie animali, alterando paurosamente la catena alimentare. Significa, in una parola, mettere l’umanità e la vita in generale del pianeta sull’orlo dell’estinzione.

     Sono in pochi ad essere veramente consci di quanto grave sia il problema del surriscaldamento globale e, di conseguenza, non esiste, secondo Greta, un sufficiente “panico” da parte delle persone.
     Strano a dirsi, in frangenti come questo proprio il panico è una reazione appropriata perché spingerebbe le persone a cambiare e a pretendere dai propri politici di adottare misure legislative per modificare il sistema economico che abbiamo in modo da ridurre il suo impatto sull’ambiente. E invece l’addormentamento generale delle coscienze ha fatto sì che il problema continuasse ad aggravarsi nell’arco dei decenni e ora è diventato improrogabile.

     Eppure lo sforzo necessario non è così grande come potrebbe sembrare. Anzi! Greta sa anche questo: «La crisi climatica è già stata risolta: abbiamo già tutti i fatti e le soluzioni». Manca solo l’azione, quell’ingrediente che dà senso a tutte le riflessioni, i dibattiti, gli scontri che si fanno in nome di un’idea.

     E invece lo stesso sistema che ha creato il problema fa di tutto per nascondere la gravità del problema: i politici ignorano volutamente la questione, nessuna legge viene fatta per regolarizzare le strategie di consumo e di produzione; gli stessi mass media, spesso pilotati da ristretti gruppi di potere, omettono di citare le conseguenze di questa crisi impedendo alle persone di farsi un’idea chiara sull’argomento.
     Greta sa bene che pregare i politici per l’ennesima volta non servirebbe: «ci hanno già ignorato in passato e ci ignoreranno ancora». Quindi non c’è spazio per la diplomazia, rimane solo l’azione, immediata e decisa.


     Grazie agli scioperi di Greta è nato un movimento, Friday for Future (venerdì per il futuro), che ha l’intento di mobilitare, partendo dai più giovani, le coscienze di tutto il mondo per passare all’azione.
     Oggi, venerdì 15 marzo, studenti da tutto il mondo manifesteranno e marceranno nelle principali città dei rispettivi paesi per gridare al mondo che il mondo non ha intenzione di aspettare ancora.

     Su Greta non sono mancati attacchi e si è messa in moto la consueta macchina del fango: qualcuno l’ha accusata di istigare i giovani a saltare le lezioni scolastiche, di manovrarli. In realtà una ragazzina che si prende il disturbo di rinunciare alla scuola per dare una svegliata a coloro che, profumatamente pagati, non svolgono il lavoro di tutela della collettività, non solo ha già dimostrato di avere già cultura (più cultura di quegli stessi politici!), ma getta anche un’ombra di vergogna su coloro che – politici e non – hanno avuto bisogno di una ragazzina per capire il rischio che tutti stiamo correndo.

     C’è stato anche chi non ha mancato di cadere ancora più in basso, ingiuriando Greta per la sua presunta boria ed arroganza da prima della classe (bacchettare dei politici sarebbe troppo per una ragazzina secondo questi presunti giornalisti). Dimenticando poi che l’aria arrogante (ammesso che la si noti) di Greta deriva dal fatto che ella è affetta da sindrome di Asperger, un disturbo comunicativo che non compromette le capacità cognitive, linguistiche ed emotive del soggetto, ma che lo rende poco capace di rendere manifeste le proprie emozioni e talvolta lo fa apparire erroneamente come freddo o insensibile a chi lo vede dall’esterno: gli Asperger sono in realtà perfettamente in grado di provare emozioni, di sentire quelle altrui ed hanno interessi personali (che anzi spesso risultano molto selettivi e limitati). Spesso, come nel caso di Greta, soffrono anche di mutismo selettivo, il che vuol dire che parlano di rado, solo quando lo ritengono importante.

     Altri ancora hanno sottolineato che dietro Greta potrebbe nascondersi in realtà un gruppo di attivisti che userebbe Greta per promuovere le proprie azioni (una cosa che, se anche fosse vera, non sarebbe neanche tanto criminosa, a condizione che la stessa Greta abbia a sua volta a cuore in modo sincero la questione: in tal caso sarebbe al massimo una portavoce).

     Dall’altra parte c’è chi ha chiesto a Greta di continuare a studiare per diventare una scienziata del clima e risolvere la crisi. Ma anche questo è quasi un’offesa: sia perché la risoluzione della questione climatica è un problema unicamente politico (i rimedi sono già stati proposti dalla scienza, spetta alla politica renderli obbligatori), sia perché non ha senso chiedere ai governanti di oggi di delegare la risoluzione del problema alle generazioni future, in quanto per allora il problema si sarà già aggravato in modo irrimediabile. I governanti di oggi devono agire oggi. Altrimenti vorrà dire che saranno solo un branco di «bambini viziati che non sanno assumersi le proprie responsabilità».

     La risonanza di Greta è stata tale che essa è stata invitata a parlare in molte riunioni e dibattiti pubblici con esponenti della grande politica: lo scorso dicembre, ad esempio, Greta, ha parlato alla COP24, il vertice delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici tenutosi in Polonia. Ha partecipato anche all'incontro di Bruxelles a febbraio 2019 o a quello di Amburgo del 1° marzo.


     Un gruppo di deputati socialisti norvegesi ha segnalato Greta come candidata all’assegnazione del prossimo premio Nobel per la pace. Questa ragazzina è riuscita (da sola? con l’aiuto di qualcuno? che importa, se il fine è così nobile?) a scuotere le coscienze dell’intero pianeta con la sua lineare ragionevolezza, con il suo stile diretto e cristallino e con una pacatezza e una sobrietà che ne fanno un’attivista davvero singolare.

     Ma noi, persone comuni, vero motore della nostra specie, riusciremo stavolta ad essere all’altezza di questo efficace appello? O riveleremo ancora una volta la nostra parte peggiore, sprecando anche questa irripetibile occasione?




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venerdì 26 gennaio 2018

Come riutilizzare un vecchio smartphone o telefonino (e non produrre rifiuti)

     Gli smartphone e, prima di essi, i vecchi telefoni cellulari sono tra gli oggetti più acquistati al mondo. La loro diffusione è così capillare che alcune persone ne cambiano anche uno l’anno e pur di avere sempre l’ultimo modello spendono cifre considerevoli.

     Che siate degli utenti accorti e parsimoniosi o dei fanatici spandaccioni, prima o poi a tutti capita di dover cambiare telefono e quando ciò accade bisogna stare attenti a cosa si fa di quello vecchio.
     Se escludiamo il caso limite in cui questo sia precipitato dall’ottavo piano o sia finito sotto un carroarmato e sia quindi praticamente irrecuparabile, non dobbiamo cedere alla tentazione di buttarlo via.

     Gettare via un telefono è una cosa da evitare ed è invece conveniente destinarlo ad altri usi: in questo modo, infatti, si producono meno rifiuti e si evita di inquinare l’ambiente.


     Spesso infatti un telefono vecchio viene sostituito solo perché gli si è guastata una parte ma può ancora funzionare perfettamente per tutte le altre operazioni; oppure funziona addirittura ancora al 100% e lo si cambia solo per restare alla moda o per una ragione estetica.

     I telefoni cellulari, poi, hanno un vantaggio: sono multifunzionali, possono fare una pluralità di operazioni oltre quella classica della chiamata vocale. Questo è vero per i cellulari di vecchia generazione (quelli coi tasti e il display piccolo, per intenderci), ma anche e soprattutto per gli smartphone (letteralmente: telefoni intelligenti), che consentono di installare un vasto numero di applicazioni, cioè programmi, che svolgono ciascuna un compito. In questo modo un telefono che non usiamo più può svolgere egregiamente una serie di funzioni per le quali avremmo acquistato oggetti nuovi apposta, producendo quindi altri rifiuti, giacché più si compra, più si getta, più rifiuti si producono. Inoltre, usare lo smartphone vecchio per fare certe operazioni permetterà di tenere a riposo la batteria del nostro nuovo telefono. E, si sa: le batterie quasi sempre durano poco.

     Ora, gli utilizzi alternativi di un vecchio telefono sono veramente molti e, per gli smartphone, ogni app potenzialmente potrebbe rappresentarne uno. Tuttavia qui sono raccolti quelli più utili e che non richiedono particolari operazioni da smanettone.
     Vediamo allora come assegnare nuove mansioni a un vecchio smartphone.


Telefono di emergenza
     Poniamo che il nostro smartphone si sia rotto: è caduto per terra, nel tombino, il nipotino gli ha fatto sperimentare la forza di gravità gettandolo dal balcone, vi ci siamo seduti sopra, è finito nell’acqua... o aveva un difetto di fabbrica. In tutti questi casi dobbiamo passare del tempo senza il nostro telefono per mandarlo in assistenza o per farlo riparare da un tecnico di fiducia. Ecco che il telefono vecchio torna subito utile come sostituto temporaneo, sia per noi, sia per ogni eventuale altra persona che in casa potrebbe averne bisogno per gli stessi motivi.
     Attenzione! Quando riponete il telefono vecchio da usare eventualmente in casi di emergenza, state attenti a come conservate la sua batteria: seguite questi preziosi consigli per evitare che si guasti mentre è a riposo.



Lettore ebook
     Gli ebook sono ormai diffusi e affiancano i libri cartacei da alcuni anni: i formati più diffusi sono .pdf o .epub e spesso gli utenti comprano appositi lettori di libri digitali chiamati genericamente ebook reader o e-reader: alcuni esempi sono il Kindle di Amazon o i lettori Kobo... Ebbene uno smartphone può perfettamente sostituire un ebook reader semplicemente usando un’app apposita. Sugli store ce ne sono tantissime, la maggior parte delle quali gratuita: basta cercarle scrivendo come parola chiave “pdf epub reader” oppure “ebook reader” e, una volta caricati i libri sul telefono, avremo la nostra biblioteca digitale a disposizione.



Sveglia
     Perché comprare una sveglia a parte quando questa funzione è già presente in tutti i telefoni? Usare un telefono vecchio come sveglia torna particolarmente utile a coloro che di notte tengono lo smartphone spento e che da solo non si accenderebbe automaticamente per far suonare la sveglia. Così il nostro telefono principale risparmierà anche il consumo di batteria durante la notte, facendo fare il lavoro all’altro telefono.



Calcolatrice (anche scientifica)
     Avete presenti quelle calcolatrici plasticose, magari un po’ “cinesotte” se si vuole risparmiare, con quei tasti enormi e che compriamo per fare i conti della spesa o che vengono usate dai commercianti in negozio o dagli studenti a casa per studiare? Invece di comprare quelle, possiamo usare la calcolatrice dello smartphone, che contiene in più anche funzioni avanzate (come i logaritmi, le funzioni goniometriche ecc nella versione cosiddetta scientifica).
     E se non piace quella preinstallata, possiamo installare sullo smartphone una delle quasi infinite app per calcolatrici, che spesso sono anche personalizzabili, si riadattano anche a schermo ruotato e vengono incontro ad esigenze più ampie, permettendo perfino di disegnare grafici o risolvere equazioni e altri problemi di matematica.
     È una buona soluzione per quegli studenti che si fanno distrarre troppo dallo smartphone mentre studiano e che così potranno usarne un altro senza SIM.



Telefono cordless per chiamate VoIP
     Volendo semplificare all’estremo, le chiamate VoIP sono le telefonate fatte usando internet. Possono essere chiamate di tipo solo vocale o videochiamate.
     Molte sono le app che si possono usare su un vecchio smartphone per telefonare da casa via VoIP, al posto del cordless e che funzionano anche senza una SIM inserita: Telegram, per esempio, oppure Skype... In realtà oggi tutte le app di messaggistica (WhatsApp, Viber, Signal, Messenger...) si stanno progressivamente dotando della funzione di chiamata VoIP, per cui c’è davvero l'imbarazzo della scelta.
     Usare un telefono per chiamare in VoIP significa abbattere i costi (perché per chiamare basta il WiFi di casa non si usa il credito telefonico), avere una qualità audio diversa e, ancora una volta, non si usa la batteria del proprio smartphone.



Radio
     La radio FM è ancora un’app molto presente sui telefoni cellulari, anche in quelli molto vecchi che non sono smartphone. E se non è presente, c’è sempre l’app che si può scaricare dallo store.
     Se avete programmi radiofonici che seguite, ecco un altro buon modo di tenere in vita il vecchio telefono.
     Attenzione! Su alcuni dispositivi la radio si attiva solo se sono inseriti gli auricolari, ma questo non significa che siete obbligati ad ascoltare la radio dal telefono con le cuffie: è sufficiente lasciare inserito il jack degli auricolari per far partire la radio anche in vivavoce. Basta che ci sia un jack inserito (potete anche tagliare il singolo jack da un paio di cuffie rotte e lasciarlo inserito nel telefono) e attivare la funzione dell’altoparlante della radio.



Lettore musicale
     Se siete malati di musica e avete la vostra bella collezione di canzoni che spostate di volta in volta dal computer al lettore mp3 o viceversa, potete usare il telefono come lettore musicale, senza massacrare la batteria dello smartphone che usate normalmente. Se lo smartphone è grande ed è scomodo da portare appresso, potete usarlo come lettore a casa, come si faceva con le radio-stereo di una volta; se il telefono è piccolo, magari perché è un telefono di vecchia generazione, sarà comodo anche da tenere in tasca o in borsa.



Lettore video per guardare film
     Vi piace la sera coccolarvi sul divano con la copertona e guardare film a letto? Che siano video da YouTube, Dailymotion, Veoh, che sia un file che avete caricato sul telefono dal pc o una serie TV in streaming, il vecchio smartphone può diventare un minitelevisore per intrattenerci in quei momenti di relax.



Ricettario online
     Sempre più casalinghe e casalinghi si ispirano al web per trovare ricette interessanti e, poiché usare un computer sarebbe un po’ scomodo, navigano sui siti di cucina dallo smartphone, o leggendo ricette da seguire man mano o guardando video.
     Ma tra farina, uova, sale, olio ecc lo smartphone rischia di sporcarsi, ungersi, soprattutto quando si tocca il display... e la batteria, come sempre, si scarica.
     Uno smartphone vecchio può fungere da ricettario con una semplice connessione WiFi, lasciando a riposo (e pulito!) lo smartphone principale.



Navigatore offline
     La funzione di navigatore è un must sugli smartphone attuali e spesso, dovendo aggiornare le mappe, è richiesta la connessione a internet. Tuttavia, se su un vecchio smartphone senza SIM si scaricano le mappe, esso può essere portato in auto come navigatore offline, ovvero può mostrare le mappe anche senza connessione, perché esse sono state appunto preventivamente scaricate sulla memoria del telefono.
     Se si desidera avere mappe aggiornate, basta portare in casa lo smartphone vecchio, aggiornare le mappe con la connessione WiFi e poi riportarlo in auto dopo l’aggiornamento.
     Utile per chi è sempre in viaggio, per studio, lavoro o per passione.



Telecomando
     Se il telefono ha la porta a infrarossi può fungere da telecomando per tv, per climatizzatore o altri elettrodomestici. Alcuni produttori, come LG, dotano già lo smartphone della funzione per attivare un telecomando (si chiama attualmente QuickRemote). Il telecomando in questi casi va semplicemente e facilmente configurato ed è pronto all’uso.



Archivio di massa
     Gli smartphone hanno al loro interno un hard disk e gli hard disk rappresentano memoria per conservare file. Anche i modelli più economici oggi possono garantire una bella manciata di GB (16 GB tipicamente sono il minimo), per cui, se ci sono documenti, foto, video personali molto importanti di cui si vuole conservare una seconda copia di sicurezza, ecco che uno smartphone vecchio può fungere perfettamente allo scopo.
     Magari, per aumentare la sicurezza e abbassare il rischio di essere hackerati, si ripristina il telefono ai dati di fabbrica e si tiene spenta l’antenna WiFi per non connetterlo a internet.
     Se la memoria dello smartphone non fosse sufficiente basta aggiungere una memoria esterna, come una scheda SD.



Registratore sonoro
     In tutti i casi in cui si abbia la necessità di registrare qualcosa, lo smartphone è perfetto: che si stia facendo un’intervista per il proprio giornale, che si voglia registrare una canzone cantata e suonata, che si voglia avere una prova di una telefonata importante, il registratore di suoni è un’app presente in tutti gli smartphone.
     La soluzione è particolarmente utile per gli studenti universitari che vogliano registrare le lezioni del docente in aula: invece di acquistare a parte l’apposito registratore-lettore, che spesso viene anzi malvisto da alcuni docenti che non vogliono essere registrati, usiamo lo smartphone vecchio, che anzi dà anche anche meno nell’occhio. Passare poi i file audio sul pc è uno scherzo, tramite cavo o anche senza cavo... ma questo qualunque studente di oggi lo sa!



Allenatore per fitness
     Molti di noi sanno che per essere in forma non è necessario passare ore e ore in palestra, perché gli esercizi a corpo libero si possono fare comodamente anche a casa. Chi adotta questa soluzione in genere segue dei video tutorial, magari da canali YouTube appositamente dedicati, oppure usa applicazioni specifiche che permettono anche di monitorare i progressi nel tempo e adattare continuamente le sessioni di allenamento.
     L’uso di video e di tutorial consuma però energia dalle batterie, quindi possiamo usare lo smartphone vecchio: posizionato su uno scaffale, esso può fungere da monitor per seguire le sessioni di allenamento, lasciando a riposo lo smartphone principale.




Nave scuola per bambini e/o anziani
     Fermo restando che gli smartphone dovrebbero essere dati ai ragazzi solo a partire da una certa età, i più piccoli sono tendenzialmente più maldestri nel maneggiare uno smartphone, che comunque è un dispositivo delicato e facilmente suscettibile di rottura.
     È quindi più prudente abituare gradualmente i ragazzi all’uso di uno smartphone con un modello vecchio.
     Discorso simile vale per i nostri nonni o genitori anziani che sono cresciuti in un’epoca in cui gli smartphone non esistevano: con uno smartphone non più usato essi possono prenderci la mano.
     In questi casi si può anche usare la tipica visualizzazione semplificata che hanno quasi tutti gli smartphone, che consente di avere icone più grandi e ben visibili.




Power bank per altri dispositivi
     Tramite un cavo e un adattatore OTG è possibile rubare energia dalla batteria di un vecchio smartphone per darla a un altro dispositivo (un altro smartphone o un tablet): questo è particolarmente consigliato per quegli smartphone cosiddetti battery monster, ovvero dotati di batterie molto capienti (4000 o 5000 milliampère/ora), ma in generale vale per qualunque altro modello. Per chi è sempre in giro potrebbe rappresentare una buona soluzione per rimediare al problema, quasi sempre inalienabile, della scarsa durata delle batterie degli smartphone.




Giochi
     I videogiochi su uno smartphone consumano tendenzialmente molta batteria. Se siamo tra coloro nei momenti di pausa amano rilassarsi facendosi una bella partita, lo smartphone vecchio può diventare una consolle di gioco perfetta, come fosse un Gameboy, un Nintendo, una PSP ecc.




Timer
     Siete in cucina, dovete scandire i tempi perché state preparando un pranzo abbondante per molte persone? Siete studenti che vogliono regolarizzare il proprio studio facendo pause ogni tot minuti? Vi state allenando a corpo libero e dovete correre per un certo tempo? In tutti questi casi, e in altri simili, basta impostare un bel conto alla rovescia sullo smartphone che vi avviserà con un segnale quando il conto è terminato: la funzione si chiama timer e sugli smartphone tendenzialmente si trova nell’app Orologio (ma si può sempre ovviamente installare un’altra app di terze parti).




Cronometro
     Ideale per chi va a correre e indossa il telefono sulla fascetta attorno al braccio, la funzione cronometro del vecchio smartphone è l’ideale per chi non vuole portarsi appresso lo smartphone principale per paura di perderlo, romperlo o anche solo per non essere disturbato mentre corre.




Vendita per pezzi di ricambio
     Come detto in apertura, uno smartphone spesso viene cambiato anche se un solo elemento si guasta, mentre tutti gli altri sono ancora perfettamente funzionanti.
     Ad esempio, magari si è rotta la fotocamera, ma la scheda video, la scheda madre, l’altoparlante, il display ecc funzionano ancora benissimo. In tali casi è possibile recuperare dei soldi vendendo il proprio smartphone per poterne sfruttare i pezzi ancora integri.




Strumento di beneficenza
     La soluzione più bella rimane però il dono. Possiamo donare lo smartphone a una delle tante associazioni che si occupano di ricavare fondi dallo smaltimento degli smartphone usati per donarli in beneficenza ad altre associazioni, come fa, tra le tante, cellulariperbeneficienza.it.




     Questi erano solo alcuni dei possibili riutilizzi a cui destinare un telefono per non mandarlo del tutto in pensione. Come detto in apertura, ce ne sono molti altri e dipendono essenzialmente dai bisogni che abbiamo e dalla nostra fantasia. L’importante è prediligere nel nostro quotidiano pratiche che riducano i rifiuti per tutelare l’ambiente, che mai come in questo momento della nostra storia ha avuto bisogno di essere preservato.
     Inoltre imparare a sfruttare davvero gli oggetti che ci circondano è un bel modo di liberarsi da quella mentalità consumistica che ci viene inculcata fin da bambini dal nostro sistema economico, che vuole che noi compriamo compulsivamente, come un riflesso, anche quando non ce n’è bisogno, per imparare invece a sfruttare quello che già abbiamo.