Nota: la
pronuncia scolastica è quella usata (e insegnata) in Italia; la pronuncia
restituita è quella che, secondo le ricostruzioni, veniva realmente usata dai
Romani.
gdfabech
Ante litteram
[pronuncia scolastica: ante
lìtteram]
[pronuncia restituita: ante
lìtteram]
L’ambito in cui è
nata questa espressione è quello editoriale: ante litteram vuol dire letteralmente “prima della lettera”, dove
il “prima” è inteso in senso cronologico e la “lettera” sta per “didascalia”;
il riferimento è infatti alle prove di stampa che, proprio in quanto tali, non
hanno ancora la didascalia. Una stampa fatta senza quella didascalia è quindi
detta ante litteram. Tuttavia
l’espressione è passata ad indicare, in senso figurato, quei personaggi
(filosofi, artisti, poeti, scienziati) che per l’originalità del loro pensiero
rispetto ai tempi anticipano i principi e le caratteristiche di movimenti
culturali, storici, artistici di periodi successivi a essi. Per esempio, il
poeta Petrarca innovò moltissimo il contenuto della poesia che era in voga ai
suoi tempi, anticipando temi che sarebbero stati tipici di un movimento
culturale successivo, l’umanesimo: possiamo dire quindi che Petrarca è stato un
umanista ante litteram.
Pro captu lectoris
habent sua fata libelli
[pronuncia scolastica: pro
captu lectòris abent sua fata libèlli]
[pronuncia restituita: pro
captu lectòris habent sua fata libèlli]
La frase risale a
Terenziano Mauro, grammatico romano del II secolo d.C.: si tratta del verso
1286 del suo trattato De litteris, De
syllabis, De metris (Sulla
letteratura, Sulle sillabe, Sui metri), in quattro libri, di cui solo tre
si sono conservati, e significa “A seconda dell’intelligenza del lettore i
libri hanno il loro destino”. Il termine captu
deriva da captus, a sua volta
discendente dal verbo capio, che vuol dire “io
prendo”, “io afferro” ed è quindi l’afferrare, il saper cogliere, ovvero il
comprendonio, l’intelligenza appunto: intuizione felicissima di Terenziano che
assume validità del tutto universale. Come si fa a dire che un libro è bello o
brutto se non c’è un pubblico che lo giudichi? Ogni scrittore vive il dramma
dell’impatto con il lettore: è questo a determinare la fama della sua opera. La Divina Commedia di Dante Alighieri non
sarebbe valsa un soldo bucato se non ci fosse mai stato un pubblico capace di
apprezzarla! Numerosi sono gli aneddoti nel mondo della letteratura di libri
divenuti famosi in maniera tardiva o addirittura dopo la morte dei loro autori,
poiché all’epoca delle pubblicazioni nessuno era in grado di accoglierli.
Quando Italo Svevo cominciò a pubblicare, critica e pubblico italiani lo
snobbarono alla grande; così come famoso è il caso della Recherche di Marcel Proust, che André Gide si rifiutò di pubblicare
ma che procurò allo scrittore grande fama (errore che Gide non si perdonò mai);
anche il Petrarca credeva e sperava di diventar famoso grazie al suo poema in
latino Africa, che oggi i più neanche
conoscono, e passò alla storia piuttosto grazie al suo Canzoniere.
Si parva licet componere
magnis
[pronuncia scolastica: si parva
licet compònere magnis]
[pronuncia restituita: si parva
lichet compònere maghnis]
Celeberrimo
verso del poeta Virgilio (Andes, 15 ottobre 70 a.C. – Brindisi, 21 settembre 19
a.C.). Siamo nelle Georgiche, libro
IV, verso 176: Virgilio mette a confronto il meticoloso lavoro delle api con
quello dei Ciclopi e, rendendosi conto della sproporzione del confronto, quasi
si scusa col lettore per l’esagerazione e dice “se è lecito paragonare le cose
piccole a quelle grandi”. Il verbo licet ha
il preciso significato di “essere concesso”, “essere permesso”, “essere lecito”.
Il verso viene usato ogni volta che si vuole giustificare una messa a confronto
tra due cose che tra loro sono molti (se non troppo) dissimili, come quando ci
rendiamo conto di avere in comune qualcosa con un grande personaggio e, nel
dirlo agli altri, aggiungiamo si parva
licet componere magnis, come a dire «se mi concedete di fare questo paragone azzardato». In termini più tecnici questo è un espediente
retorico chiamato excusatio, “scusa”, e serve a far accettare all’interlocutore,
col pretesto dell’umiltà, un paragone che normalmente non sarebbe stato
accettato.
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