In una delle sue epistole, Orazio si
riferiva ai poeti chiamandoli genus
irritabile, razza suscettibile. In effetti non è raro trovare nel mondo
della letteratura personaggi eccentrici o che comunque non sono restituiti in tutta
la loro complessità dalle cronache storiche. È noto, per esempio, il rancore ostinatissimo che sapeva portare il Leopardi; così come tante sono le leggende che narrano
degli scatti di ira di Dante nei confronti di coloro che storpiavano i suoi versi, canticchiandoli distrattamente durante le attività quotidiane; e
non vogliamo dimenticare il battibecco in rime tra Piero Aretino e Paolo Giovio
che con questi fittizi epitaffi così sparlarono uno dell’altro:
(Giovo
all’Aretino)
Qui giace l’Aretin,
poeta tosco,
di tutti disse mal,
fuor che di Cristo,
scusandosi col dir:
non lo conosco.
(Aretino
al Giovio)
Qui giace il Giovio,
storicone altissimo,
di tutti disse mal,
fuor che dell’asino,
scusandosi col dir:
egli è mio prossimo.
Insomma, l’eccentricità degli artisti
spesso tocca le fiamme del rancore. E i poeti, in particolare, è meglio non
farli arrabbiare, perché se è vero che la lingua ferisce più della spada,
allora è facile capire che hanno mille modi di farcela pagare. È il caso del
poeta che voglio citare questa volta. Parlo di Gaio Valerio Catullo (84 a.C. –
54 a.C.), il celeberrimo poeta che a scuola ci fanno conoscere per il suo
grande amore per Lesbia. In realtà i carmi a Lesbia sono solo una parte della
sua produzione: scorrendo il Liber
Catullianus ci imbatteremmo infatti in altri componimenti, ovviamente
censurati a scuola, che la direbbero lunga su molti altri aspetti di questo
poeta. Come il carme XVI, quello in cui Catullo, infastidito dalle ingiuste
critiche di tali Aurelio e Furio, che lo accusavano di essere troppo sdolcinato
e poco casto, inveisce contro di loro, dando loro una lezione di cosa debba
essere poesia e di ciò di cui debba realmente preoccuparsi un poeta.
gdfabech
Io
ve lo metterò nel culo e in bocca,
frocio
di un Aurelio e checca di un Furio,
voi
che mi avete giudicato da alcuni miei versetti,
solo
perché sono un po’ licenziosi, poco pudico.
In
verità è buona cosa che il poeta stesso sia casto,
non
occorre che lo siano i suoi versetti;
che
hanno tanto più brio e giovialità
proprio
se sono licenziosi e poco pudichi,
e
se riescono a suscitare quel certo prurito,
non
dico nei giovani, ma in quei trogloditi
che
non son più capaci a darci dentro coi loro fianchi induriti.
Voi,
solo perché “migliaia e migliaia di baci”
avete
letto [nei miei versi], non mi considerate abbastanza uomo?
Ebbene,
io ve lo ficcherò nel culo e in bocca.
Gaio Valerio Catullo, Carmina,
XVI
E, per gli addetti ai lavori, il testo
originale, accompagnato dalla declamazione di uno studente USA che ha tutta la
mia stima!
Pedicabo ego vos et irrumabo,
Aureli pathice et cinaede Furi,
qui me ex versiculis meis putastis,
quod sunt molliculi, parum pudicum.
Nam castum esse decet pium poetam
ipsum, versiculos nihil necesse est;
qui tum denique habent salem ac leporem,
si sunt molliculi ac parum pudici,
et quod pruriat incitare possunt,
non dico pueris, sed his pilosis
qui duros nequeunt movere lumbos.
Vos, quod milia multa basiorum
legistis, male me marem putatis?
Pedicabo ego vos et irrumabo.
Aureli pathice et cinaede Furi,
qui me ex versiculis meis putastis,
quod sunt molliculi, parum pudicum.
Nam castum esse decet pium poetam
ipsum, versiculos nihil necesse est;
qui tum denique habent salem ac leporem,
si sunt molliculi ac parum pudici,
et quod pruriat incitare possunt,
non dico pueris, sed his pilosis
qui duros nequeunt movere lumbos.
Vos, quod milia multa basiorum
legistis, male me marem putatis?
Pedicabo ego vos et irrumabo.
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